Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011. Sono solo alcuni nomi nella sterminata lista delle “campagne di guerra” combattute nel corso degli ultimi anni. Siamo però sicuri di aver visto – o aver letto – queste guerre? Siamo davvero sicuri che quello che ci viene raccontato attraverso i reportage dei grandi e piccoli quotidiani o attraverso una telecamera sia la riproposizione, fedele, di quello che avviene a chilometri di distanza da noi? Tra giornalismo “embedded” e veri e propri imbrogli narrativi, oggi le uniche campagne di guerra a cui assistiamo sono quelle pubblicitarie. Perché la guerra ormai si pubblicizza. Così, come fosse un pacco di pannolini o di biscotti.
“Io penso che abbiamo qui un divorzio: un divorzio tra la realtà "reale" e la realtà "virtuale", che i
media mostrano come unica realtà.”
[Eduardo Galeano]
Le vere falsità della guerra.
Abbattere il dittatore (o almeno la sua statua). Iraq, 9 aprile 2003. Gli americani sono ormai
entrati a Baghdad e, per lanciare un segnale di speranza che l'incubo iracheno è ormai vicino alla
fine, un gruppo di iracheni si è riversato in piazza Firdus per abbattere la statua di Saddam Hussein.
L'abbattimento della statua – cioè del simbolo della “grandezza” del regime – è una costante,
essendo già stata utilizzata con Stalin a Praga del 1968 e, nel 1991, a Mosca. Ma l'effigie del Raìss
iracheno non vuole saperne di andar giù, e per questo alla folla che prendeva a martellate la base
della statua si sostituiscono i marines con un mezzo blindato ed una catena. L'immensa folla
festante che compare nelle immagini catturate dalle macchine fotografiche e dalle telecamera dei
giornalisti presenti racconta al mondo intero la storia di un paese in festa[1].
Allargando l'inquadratura, però, il racconto è ben diverso.
Una foto a tutto campo fatta dalla Reuters, infatti, mostrava una piazza pressoché vuota, chiusa all'esterno dagli Abrams americani ed in cui c'erano molte meno persone di quante ne erano scese in piazza, nove giorni prima, per chiedere alle forze anglo-americane di lasciare Baghdad[2].
I bambini-fantasma delle incubatrici. Un'altra immagine simbolo della Guerra del Golfo – quella del 1991, in questo caso – è quella del 10 ottobre 1990, giorno in cui l'Assemblea congressuale per i diritti umani, una commissione presieduta da due parlamentari americani ma che non faceva parte delle commissioni ufficiali del Congresso, tenne l'udienza in cui presentava, per la prima volta, le 3violazioni dei diritti umani da parte del regime ba'athista. La testimonianza peggiore fu quella di una ragazza di 15 anni, Nayirah, che raccontò di essere volontaria all'ospedale al-Addan e di aver visto militari iracheni portare via le incubatrici dell'ospedale, lasciando morire sul pavimento gelido centinaia di bambini.
Anche in questo caso, però, la verità si rivelò essere un po' diversa. Si scoprì, innanzitutto, che Nayirah era figlia dell'ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti e che aveva imparato la testimonianza a memoria, dietro istruzioni di Lauri- Fitz-Pegado, vice presidente dell'agenzia di pubbliche relazioni Hill & Knowlton. Varie indagini successive, fatte sia da giornalisti indipendenti che da organizzazioni come Amnesty International, dimostrarono non solo la falsità dell'episodio, ma anche – attraverso un intervista a Mohammed Matar, direttore del sistema sanitario del Kuwait – che in tutto il paese erano disponibili pochissime incubatrici, non certo le “centinaia” di cui aveva raccontato la testimonianza.
La velocità (dei video) è tutto. Durante la guerra in Serbia della prima metà degli anni Novanta, un
F15 Strike Eagle americano colpì un treno in transito sul ponte di Grdelicka, nella parte
settentrionale del Paese, causando 14 morti. Uno di quei “danni collaterali” che in una guerra
possono capitare.
Il giorno dopo il generale americano Wesley Clark si presentò alla conferenza stampa, scuro in
volto, sostenendo che l'errore era dovuto al fatto che il pilota avesse avuto un tempo «dannatamente
breve» - meno di un secondo, sostenne – per guidare il velivolo, puntare, lanciare e riconoscere a
che tipo di bersaglio stava sparando.
Il 16 gennaio 2000, un anno dopo quell'”incidente”, il quotidiano tedesco Frankfurter Rundshau raccontava al pubblico un “incidente” un po' diverso[3]. Quel tempo troppo breve in cui il pilota aveva dovuto manovrare, puntare, sparare e capire a cosa stesse sparando era in realtà meno breve di quanto fosse stato raccontato. Non solo, infatti, al pilota non toccavano le operazioni di lancio (delegate invece al secondo pilota) ma – soprattutto – quello che i giornalisti avevano visto accadere in una manciata di attimi era accaduto invece in un tempo più ampio, in quanto il video con cui il generale Clark si era presentato alla conferenza stampa era stato velocizzato di almeno tre volte. Secondo la ricostruzione video, infatti, il treno avrebbe dovuto viaggiare ad oltre 300 chilometri orari, una velocità impossibile da sostenere su una vecchia linea che a mala pena avrebbe retto un treno lanciato a 100 chilometri orari, come dimostrato dagli stessi analisti dell'Us Air Force.
“Il giornalista della carta stampata deve raccontare quello che succede dieci centimetri più a
destra e dieci centimetri più a sinistra dello schermo del televisore.”
[Bernardo Valli]
I piazzisti di guerra.
«Vi sarete chiesti come hanno fatto gli abitanti di Kuwait City, dopo essere stai ostaggi per sette
lunghi e difficili mesi, a procurarsi le bandierine americane e quelle degli altri paesi della
coalizione?». 29 febbraio 1996, a porre la domanda agli allievi dell'Accademia dell'Aeronautica
militare Usa è John Walter Rendon jr, presidente ed amministratore delegato del Rendon Group, una
delle più importanti agenzie di pubbliche relazioni del mondo, utilizzate da gruppi politici ed
organizzazioni internazionali per “vendere” al pubblico se stesse e le proprie politiche. Dopo una
pausa ad effetto, la risposta che Rendon dette al suo uditorio dà l'idea di come queste agenzie ed i
loro clienti si muovano in quegli invisibili “dieci centimetri a destra e a sinistra dello schermo del
televisore” di cui parla Bernardo Valli.
Rendon Group, Hill & Knowlton, Ruder Finn, Benador Associates sono solo alcuni dei nomi di queste agenzie. Compaiono raramente sui giornali o in televisione, eppure il loro ruolo è decisivo per la creazione della realtà di cui si compone l'agenda quotidiana dei media.
John Rendon e la “regina di Madison Evenue”. Due esempi, tra i tanti: quelli del già citato John
Rendon e quello di Charlotte Beers, nota come la “regina di Madison Evenue”.
Il Rendon Group, creato nel 1981, viene messo sotto contratto dalla CIA già nel 1989, ai tempi
dell'Amministrazione di Bush padre. La prima missione è quella di rovesciare l'ex alleato americano
e dittatore Manuel Noriega a Panama. È a lui, in combinazione con la Hill & Knowlton, che gli Usa
si rivolgono nel ”affaire-Nayirah” della prima guerra del Golfo ed è a lui che l'Amministrazione di
George W. Bush affida il compito, dopo gli attacchi del'11 settembre 2001, di trovare le prove sulle
armi di distruzione di massa irachene. Secondo l'americana Abc News va attribuita a Rendon anche
la creazione dell'Iraqi National Congress – per il quale la CIA pagò circa cento milioni di dollari,
come scrisse Seymour Hersh sul New York Times – che è stata la principale fonte per la
“demonizzazione” del regime di Saddam Hussein.
Charlotte Beers venne addirittura inserita nella squadra di governo, divenendo sottosegretario per la
Diplomazia Pubblica del Dipartimento di Stato dopo una brillante carriera nel settore privato
terminata nel 2000. Il suo impiego – come spiegò l'allora Segretario di Stato Colin Powell – era «un
tentativo di passare dalla semplice vendita dell'immagine Usa...alla vendita dell'intero marchio della
5politica estera»[4]. I suoi progetti – tra i quali “Can a woman stop terrorism?” con il quale si cercava
di raccontare “storie di donne che si sono fatte avanti consentendo la cattura di terroristi” o “Muslim
life in America”, un sito web ed una brochure a colori multilingua con la quale si descriveva il
rispetto dei musulmani negli Stati Uniti – vertevano tutti sul ribaltamento dell'immagine americana
nel mondo arabo attraverso metodi che influenzassero l'opinione pubblica islamica.
La sua strategia si rivelò però fallimentare e, per questo, il 3 marzo 2003 – a due settimane
dall'inizio della “campagna irachena” - dette le dimissioni a seguito di non meglio specificate
ragioni di salute. La missione di rovesciare l'idea di “Grande Satana” che gli Stati Uniti si sono
guadagnati nel corso dei decenni in alcune parti del mondo è diventata impossibile anche per la
“regina di Madison Avenue”.
“La prima battaglia è quella che si vince sul teleschermo” (Anonimo)
Regole (pubblicitarie) d'ingaggio.
In “Vendere la guerra”, Rampton e Stauber concedono “l'onore delle armi” all'ormai ex regina.
Molti altri pr al suo posto – sostengono i due – avrebbero riportato un risultato non troppo diverso.
Perché Charlotte Beers non aveva fatto altro che applicare le regole che normalmente utilizzava nel
campo pubblicitario e che l'avevano resa così famosa. Secondo Rob Frankel, consulente di
marketing di Los Angeles, intervistato da Carl Weiser del Gannet News Service[5] «i paesi non sono
diversi dai detersivi o dalle automobili», e dunque non c'era alcuna differenza nel modo in cui la
Beers od i suoi colleghi avrebbero dovuto impostare la campagna pubblicitaria per “vendere” ai
cittadini stranieri un'immagine diversa da quella che gli americani avevano dopo l'11 settembre. È
facile intuire, poi, che poco cambi anche quando, al posto dell'immagine di un paese, a dover essere
“venduta” è l'immagine di una guerra.
Westmoreland, Schwarzkopf e l'Ufficio bugie. Dal Vietnam in poi, per evitare il ripetersi di nuove fotografie che riprendessero altre Kim Phuc[6], un'immagine che - in termini mediatici – aveva assestato un duro colpo alla percezione che la cittadinanza americana (e mondiale) aveva dell'operato del generale William Westmoreland, l'apparato politico-militare-pubblicitario decise che nelle successive guerre i giornalisti avrebbero lavorato con “un braccio legato dietro la schiena”. L'arrivo del generale Norman Schwarzkopf e della “Tempesta nel deserto”, come venne chiamata l'operazione della prima guerra del Golfo Persico (1990-1991), aveva portato con sé non solo un vero e proprio “decalogo”, ma anche una struttura – chiamata Joint Information Bureau – mediante i quali, come disse Robert Fisk, giornalista del quotidiano britannico The Independent 6commentando il più generale discorso sul “news management”: «i giornalisti ora sarebbero stati liberi di scrivere ciò che gli veniva detto di scrivere».
Secondo il decalogo di Schwarzkopf era:
- proibito fotografare o filmare soldati feriti o morti, scrivere informazioni su armamenti, consistenza numerica delle unità, svolgimento delle operazioni, obiettivi, operazioni militari e loro risultati;
- proibito ai giornalisti fare visite al fronte senza una scorta militare;
- proibito, soprattutto, fare interviste non concordate.
Era, di fatto, proibito raccontare la guerra da un punto di vista diverso da quello statunitense per il quale, peraltro, ogni informazione necessaria ai giornalisti per svolgere il loro lavoro veniva fornito attraverso il Joint Information Bureau e, da lì, divulgato alle televisioni di tutto il mondo.
Dopo il Vietnam si passò poi ad un sempre maggiore utilizzo – come abbiamo precedentemente visto – di vere e proprie strategie di marketing “bellico”, semplicemente riprendendo le regole con cui si vendono pacchi di biscotti o pannolini ed applicandoli a guerra e politica.
Il nome giusto. Il primo passo per “vendere” - la guerra o i pannolini – è quello di trovare il nome
giusto. Il primo ad accorgersene fu l'ex Primo Ministro britannico – ed ex giornalista - Winston
Churchill, che in merito creò un vero e proprio “manuale”. I nomi, sosteneva, non dovevano dare
alcuna impressione di stanchezza o avvilimento, ma non dovevano neanche dare l'impressione di
una eccessiva vanagloria o di troppa fiducia in se stessi. Dopo le non proprio felici campagne di
Corea e Vietnam – rispettivamente “Operazione Killer” e “Operazione Schiacciapatate” - si decise
di strutturare una vera e propria “grammatica”.
La formula vincente la trovò la titolare dell'agenzia “MasterMcNeil”, che in un articolo sulla rivista
specializzata “Admap” del 2002 segnalava che il successo di un logo dipende da metrica e ritmo:
due sillabe brevi e una lunga, accompagnate – naturalmente – da un'immagine incisiva sul piano del
significato.
Il testimonial. Nel 1991 la CIA mette sotto contratto John Rendon, la cui agenzia è specializzata
nell'assistenza ad operazioni militari americane (nel suo portfolio può infatti annoverare operazioni
in Argentina, Colombia, Haiti, Kosovo, Panama e Zimbabwe) per la campagna irachena. Durante il
7primo anno di lavoro il gruppo spende 23 milioni di dollari per la realizzazione di materiale –
cartaceo, video ed audio – che ridicolizzasse il regime di Saddam Hussein ed invitasse gli ufficiali a
disertare.
Il progetto più ambizioso, però, fu quello di creare una opposizione al regime che fosse però vicina
alle posizioni degli Stati Uniti. Nacque così l'Iraqi National Congress, che – stando ad un servizio di
Peter Jennings trasmesso nel 1998 dalla Abc News - il Rendon Group finanziò con 12 milioni di
dollari tra il 1992 ed il 1996.
A capo del gruppo fu nominato Ahmed Chalabi, un iracheno sciita considerato vicino a John
Rendon. Nel 1989 viene condannato in contumacia a 22 anni di lavori forzati per appropriazione
indebita, frode e scambio di valuta irregolari. Secondo la sua ricostruzione, però, le accuse facevano
parte di un tentativo – politico – attuato dal governo giordano per impedirgli di finanziare i gruppi
anti-Saddam. Chalabi però non si dimostrò all'altezza, e l'idea di trasformarlo nel “George
Washington” iracheno tramontò ben presto, anche perché – nell'impeto di cambiare regime – nel
gruppo da lui guidato erano stati messi insieme curdi con arabi, sciiti con sunniti, laici con islamici,
liberali con nazionalisti.
Fan e gadget. Tra le costanti utilizzate dalle agenzie di pubbliche relazioni, una volta “lanciato” il
prodotto-guerra, c'è quello che nel gergo del marketing viene chiamato “astroturfing”, cioè la
creazione del consenso attraverso la formazione di gruppi di persone che – dietro compenso –
producano un'immagine positiva di quel prodotto, così da avere un “aggancio” per arrivare ad un
pubblico più vasto.
Durante la prima guerra del Golfo, ad esempio, la Hill & Knowlton creò il “Citizens for a Free
Kuwait”, un'operazione dietro la quale si celava direttamente il governo kuwaitiano, che stanziò una
cifra vicina ai 12 milioni di dollari per operazioni mediatiche come quella di Nayirah. L'agenzia –
come dimostrano i documenti archiviati al Dipartimento di Giustizia statunitense – aveva dislocato
ben 119 dipendenti al servizio del Kuwait, i cui compiti andavano dall'organizzare le interviste
(anche quelle con i cosiddetti “esperti”) alla celebrazione del “Giorno di liberazione nazionale del
Kuwait” passando per le classiche manifestazioni di piazza e la distribuzione di notizie pilotate ai
media internazionali. La Hill & Knowlton si spinse a distribuire ad opinion-makers del settore
giornalistico e ad esponenti dell'esercito una guida di 154 pagine - “The rape of Kuwait” (“Lo
stupro del Kuwait”) - dove venivano elencate le atrocità (vere o false che fossero) compiute
dall'Iraq. Negli Stati Uniti, la campagna fu portata avanti attraverso la distribuzione di veri e propri
gadget nei campus universitari, in particolare magliette ed adesivi con la scritta “Free Kuwait”.
La campagna fu talmente aggressiva ed ampia che persino una delle maggiori riviste del settore
8delle pubbliche relazioni – l'O'Dwyer's Pr Services Report – ne rimase stupefatto, tanto che il suo
editore, Jack O'Dwyer, evidenziò come l'agenzia avesse assunto un ruolo senza precedenti nella
politica internazionale.
Già nella guerra tra Cuba e Spagna, verso la fine del secolo scorso, al suo corrispondente- disegnatore ch'era sbarcato all'Avana e aveva trovato che c'era ben poco da fare, e aveva telegrafato:«Tutto tranquillo Stop Qui niente disordini Stop non ci sarà alcuna guerra Stop desidero rientrare», il proprietario del potente New York Journal, William Randolph Hearst, aveva mandato questo telegramma di risposta: «Rimanga sul posto Stop Lei fornisca disegni Stop Io fornirò guerra»[7].
L'indotto.
Il lavoro di pubblicitari come John Rendon, sarebbe ben altra cosa senza quello che potremmo
definire come un vero e proprio “indotto” industriale – composto, a livello mediatico, da giornalisti
ed “esperti” - che viene creato di pari passo con la campagna pubblicitaria che, sui giornali o in
televisione, verrà usata per “vendere” al pubblico la guerra.
Condoleeza Rice e i “watchdog” di Fox News. Agli albori della guerra in Afghanistan, nel 2001, l'allora Segretario di Stato Condoleeza Rice chiese ai giornalisti – in maniera non troppo implicita – di schierarsi sotto la bandiera a stelle e strisce per difendere le ragioni (occidentali) della lotta al terrorismo, trasformando di fatto il racconto che di quella guerra sarebbe stato fatto in qualcosa che si avvicinava molto di più a quanto teorizzava fin dal 1993 il politologo Samuel Huntington nel suo celeberrimo “Scontro di civiltà”. Secondo la volontà dell'ex Segretario di Stato e – per sua voce – dell'intero governo statunitense, i “cani da guardia del potere”, il cui lavoro nei periodi di guerra diventa ancor più importante di quanto non lo sia in tempo di pace, dovevano trasformarsi in semplici “cani da riporto”.
Tra coloro che per primi risposero all'appello ci fu Fox News, il canale all-news creato nel 1996 dal
magnate australiano Rupert Murdoch e da Roger Ailes con il chiaro intento di fare – a destra –
quello che la CNN faceva a sinistra.
È proprio la figura di Roger Ailes, deus ex machina della rete con un passato da consulente politico,
a rappresentare l'archetipo di quella nuova forma di giornalismo richiesta dalla “guerra al
terrorismo”. L'uomo che nel 1968 creò l'immagine televisiva di Richard Nixon ed al quale si deve –
nel 1984 – l'insabbiamento dell'alzheimer di Ronald Reagan ha trasformato il canale nella “voce”
dei repubblicani (in spregio dello slogan della rete, che recita un ben più anglosassone: “Noi
riportiamo, voi decidete”). Con un bacino di utenza che prima della crisi globale del gruppo
Murdoch si aggirava su un milione di case, Ailes è riuscito in pieno nella “crociata” contro il
terrorismo attraverso la creazione di vere e proprie minacce fantasma, come la “moschea del
terrore” vicino a Ground Zero. Il pubblico di Fox News – come riporta un articolo della rivista
Rolling Stone dello scorso settembre - «è un pubblico anziano (età media 65 anni) e per la maggior
parte bianco (gli afro-americani sono solo l'1,38%). Per fare un esempio, l'audience del talk show
Hannity, il più estremo, è composto per il 78% da conservatori cristiani; un'uguale percentuale non
riconosce i diritti dei gay; il 75% appoggia i Tea Party; il 66% è privo di laurea e l'84% è convinto
che il Governo “faccia troppo”». Con un pubblico simile – che secondo un sondaggio citato
nell'articolo è il più disinformato tra tutti i consumatori - “vendere la paura” del terrorista islamico è
un gioco da ragazzi.
La parola agli esperti. Laddove non arriva la paura, l'operato dell'industria bellico-pubblicitaria
sfrutta il sentimento di fiducia che i telespettatori ripongono nei loro giornali (e giornalisti) preferiti,
in particolare quando questi stessi media utilizzano i cosiddetti “esperti”. «Ancor prima dell'11
settembre» - scriveva David Bastrow sul New York Times nel 2008 - «all'interno del Pentagono era
stato costituito un sistema per reclutare queste figure molto influenti, che con un'adeguata assistenza
sarebbero potute diventare soggetti sui quali contare per un appoggio diffuso alle priorità di Donald
Rumsfeld».
Gran parte di questi “esperti” vennero prelevati tra i clienti della Hill & Knowlton e della Benador
Associates. Durante il 2003 i clienti di quest'ultima avevano una copertura praticamente completa
dei media americani, partecipando ai dibattiti della CNN o di Fox News, pubblicando libri o articoli
sui principali organi della carta stampata. Tunku Varadarajan, redattore capo del Wall Street Journal,
riferisce a Sheldon Rampton e John Stauber che in quel periodo la Benador lo chiamava
telefonicamente ogni giorno per assicurarsi che il suo giornale non si discostasse troppo dalla “linea
politica” dettata dal governo. Alcuni dei clienti della Benador – e la Benador stessa – fanno peraltro
parte del “Comitato Usa per la liberazione del Libano”, il quale sostiene la necessità di cambi di
regime in paesi come la Libia, la Siria o l'Iran. Tre paesi annoverabili ormai da tempo tra gli “stati-
canaglia”.
Conclusioni
Guerra e propaganda, figlie della stessa madre. Fin dai tempi di Alessandro Magno – che
disseminava grosse corazze lungo il percorso delle sue truppe in ritirata – passando per la Prima
Guerra Mondiale, quando al regista David Wark Griffith fu assegnato il compito di realizzare il
primo kolossal hollywoodiano “sulle trincee”, propaganda e conflitti (non solo quelli regolari
combattuti tra due eserciti in divisa) si sono sviluppate di pari passo. «Ma il salto» - scrive Federico
Montanari nella postfazione di “Vendere la guerra” - «viene compiuto nel momento in cui tutti i
diversi strumenti, le diverse leve del marketing di guerra, vengono orchestrati, messi in forma,
pianificati in una logistica strategica della comunicazione: pianificandone spazi e scenari, tempi e
attori». Il salto, cioè, viene compiuto nel momento in cui le guerre si vendono così, come si
vendono i pannolini.
Bibliografia:
Mimmo Cándito, “I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet”,
Baldini & Castoldi, ultima edizione 2009;
Sheldon Rampton e John Stauber, “Vendere la guerra. La propaganda come arma d'inganno di
massa”, Nuovi Mondi Media, 2003;
Note:
[1] “In pictures: Saddam toppled”, Bbc news
[2] “In pictures: Baghdad demonstrations”, Bbc News
[3] “Ja, das Video läuft wesentlich schneller”, Frankfurter Rundschau, 6 gennaio 2000
[4] “U.s. Considers advertising on Al Jazeera Tv”, Ira Teinowitz, Advertising Age, 5 ottobre 2001
[5] “How to sell America to people who hate it”, Carl Weiser, Gannet News Service, 14 ottobre 2001
[6] Phan Thị Kim Phúc (Vietnam, 1963) è il soggetto di una famosa fotografia scattata durante la guerra del Vietnam.
La fotografia mostra Kim Phuc all'età di nove anni, che corre nuda lungo una strada, insieme ad altri bambini, dopo
essere stata gravemente ustionata sulle braccia e sulla schiena da un bombardamento al napalm delle forze aeree
sudvietnamite nel Vietnam del sud su ordine di un ufficiale statunitense. La fotografia fu scattata da Nick Út. (fonte:
Wikipedia)
[7] In Mimmo Cándito, “I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet”, Baldini &
Castoldi, ultima edizione 2009