Kuwait mon amour


Il terzo Paese più ricco del mondo va di nuovo alle elezioni anticipate. Sarà il quinto governo in tre anni, e la vitalità della società civile comincia a preoccupare investitori, petrolieri e banche.

Di Annalena Di Giovanni per Left


«Ci ho pensato molto. Le donne kuwaitiane sono molto serie e ben istruite. Ma soprattutto sono madri nel cuore e nella mente, sono mogli fantastiche, piene di buon gusto e modestia. E rimangono le migliori cuoche sulla piazza e per questo saranno anche le migliori “cuoche” per quanto riguarda le faccende nazionali, fino a oggi monopolizzate dagli uomini dell'Assemblea nazionale». Quella della dottoressa kuwaitiana Fawziya al Dureih non è una battuta, è un programma politico. E' proprio in virtù delle doti culinarie delle sue concittadine che Fawziya ha infatti deciso di presentare la sua “Lista dell'amore”, un gruppo di nove donne intenzionate a guadagnarsi lo scranno al Parlamento kuwaitiano. Principale obiettivo: «Fornire l'atmosfera giusta per spandere l'amore fra i cittadini del Kuwait e il loro Paese». Programma: «Seminari per diffondere l'amore, lotta ai sentimenti negativi quali gelosia e invidia, educazione sessuale, addestramento al bon ton per gli eletti e soluzione delle dispute nazionali che quasi sempre hanno radice nel disagio domestico dovuto all'infelicità sessuale della coppia». Non male, per il terzo Paese più ricco del mondo.
Fawziya potrebbe farcela. Analisti come Salah Al-Jassem prevedono la conquista, da parte delle donne, di almeno un seggio – sui cinquanta dell'Assemblea nazionale – nella tornata elettorale del prossimo 16 maggio. Un risultato notevole, calcolando che il diritto di voto per le donne del Kuwait è arrivato soltanto tre anni fa, nel giugno 2006, lanciandole all'interno di un gioco politico dominato da alleanze tribali e gruppi religiosi. Donne o non donne, le elezioni del prossimo maggio vengono date come perse in partenza; a essere sconfitta, infatti, potrebbe essere la stabilità stessa dell'emirato petrolifero dopo che l'ultimo governo è durato appena dieci mesi. Tanto è riuscito a tener duro il Consiglio dei ministri (quasi tutti parenti del re, l'emiro Sabah Al Ahmad Al Sabah) condotto da Nasser Mohammed Al-Sabah, prima che quest'ultimo venisse costretto alle dimissioni.
L'anno scorso la pietra dello scandalo era stata la persecuzione politica di alcuni parlamentari sciiti, componente religiosa che rappresenta il 30% della popolazione kuwaitiana; come nel resto dei Paesi del Golfo Persico in cui il potere resta in mano alle monarchie sunnite, gli sciiti vengono visti come una minaccia filo iraniana e filo hezbollah da reprimere e arginare. Con la differenza che in Kuwait la democrazia è vivace, la libertà di stampa consolidata e la società civile piuttosto attiva; quindi gli attacchi anti sciiti di esercito e governo avevano fatto scivolare l'establishment nel caos prima, e ai seggi anticipati poi. Quest'anno, invece, la crisi è arrivata con la finanziaria di marzo, che avrebbe dovuto soccorrere le principali banche del regno dopo il famigerato crack. Ne è partita una polemica fra i parlamentari e il primo ministro Nasser al Sabah; quest'ultimo, nipote del re, è stato accusato dai senatori di corruzione e malgestione di lotti immobiliari. Al re è toccato sciogliere di corsa Parlamento e governo, prima che gli accusatori gli trascinassero il parente in tribunale. Ora il Kuwait, con i suoi cinque distretti e i suoi 900mila elettori ( il resto della popolazione, circa 2 milioni, non ha diritto alla cittadinanza), si avvia rapido verso il quinto governo in tre anni. Intanto i rating dell'emirato crollano, gli investitori fuggono, l'Opec dà segni di nervosismo e prima o poi qualcuno dei Paesi del Golfo vorrà mettere bocca negli affari dell'emiro Al Sabah, magari costringendolo a un'azione di forza che strangoli l'unica democrazia petrolifera finora sperimentata. In fondo, il Kuwait paga soltanto il prezzo delle libertà sociali: un sano e robusto dibattito fra elettori e classe dirigente, in nome della lotta alla corruzione e alla discriminazione religiosa. Peccato che i contraccolpi delle libertà sociali, in un Paese che fornisce tre milioni di barili di petrolio al giorno, siano un rischio che il mondo non vuole permettersi.