Per una "controstoria" dell'invasione in Afghanistan. Intervista ad Enrico Piovesana

foto: articolo11.net

Kabul (Afghanistan) - La guerra in Afghanistan ha avuto - e continuerà ad avere con la nuova missione "Resolute Support" - cause ben diverse da quelle che le "diplomazie mediatico-militari" hanno raccontato in questi dodici anni. Fronteggiare i talebani non significava democratizzare il Paese né combattere il terrorismo. La guerra in Afghanistan è stata, in buona sostanza, una gigantesca "guerra di mercato": quella per il controllo dell'oppio. Ne abbiamo parlato con Enrico Piovesana, (nella foto) giornalista professionista e reporter di guerra specializzato in armi e conflitti.

Partiamo da quello che ormai sembra essere un dato di fatto: per il contingente occidentale in Afghanistan il problema dell'oppio non è eradicarlo.
In Afghanistan, americani e alleati hanno scelto fin dal 2001 di non immischiarsi nelle campagne di eradicazione delle coltivazioni di papavero, lasciando che se ne occupasse la polizia afgana. “Non distruggeremo le piantagioni di papavero - spiegherà alla stampa internazionale l’assistente strategico del generale americano Stanley McChrystal - perché non possiamo colpire la fonte di sussistenza della popolazione di cui vogliamo conquistare la fiducia”. Questa semplice verità verrà pubblicamente affermata più volte nel corso degli anni dai vertici militari e politici di Washington. 
Questo “non interventismo” - ben rappresentato dalle tante immagini dei soldati occidentali in pattuglia tra i campi di papavero, magari fermi a chiacchiere con i contadini intenti a raccogliere oppio - è stato criticato per la sua ovvia ricaduta negativa sul contrasto alla produzione di oppio ed eroina. A smorzare queste le critiche, però, c’è sempre stata l’attenuante dall’aspetto ‘umanitario’ di tale decisione, vale a dire il riguardo - per quanto strumentale - nei confronti delle condizioni di vita della popolazione. 

Chi trae vantaggio da questa politica di “non interventismo”?
Questo laissez-faire non si limita ai contadini che sopravvivono grazie all’oppio, ma riguarda anche i signori della droga che gestiscono il narcobusiness afgano. Alla fine del 2001 questi warlord – reclutati dalla CIA per attaccare i talebani, come ha scritto lo storico americano Alfred McCoy - guidavano la resistenza armata anti-talebana nota come Alleanza del Nord, un fronte armato multietnico dominato dai tagichi del maresciallo Mohammed Qasim Fahim e dagli uzbechi del generale Abdul Rashid Dostum.
In questo caso, infatti, siamo di fronte a una fredda e cinica logica di realpolitik, in base alla quale si sceglie di sacrificare ciò che è giusto (contrastare il narcotraffico) in nome di ciò che è necessario (sconfiggere il nemico). Anche se questo significa mettere in conto la perdita di un numero enorme di vite umane molte più di quelle provocate dal terrorismo e dalla guerra contro di esso.

Questo laissez-faire ha però non solo portato a non contrastare il traffico di droga a livello internazionale, ma a non contrastare nemmeno un altro aspetto poco indagato che ha conseguenze ugualmente globali: la tossicodipendenza.
Ogni anno nel mondo almeno centomila persone muoiono a causa dell’eroina afgana a basso costo che ha invaso il pianeta, soprattutto in Europa e in Russia. Tale catastrofico risultato non è il frutto di errori o sviste politiche dell’Occidente, ma di una consapevole decisione politica presa dall’amministrazione Bush e portata avanti, seppur con alcune modifiche, dall’amministrazione Obama che, come sintetizza un rapporto del think-tank neyorkese Center on International Cooperation, va a colpire in maniera “selettiva” solo i signori della guerra legati ai talebani. L’elenco dei narcotrafficanti locali alleati degli USA e della NATO è lungo e comprende nomi di primo piano della politica afgana.  

Lettori e telespettatori – quanto meno quelli italiani – hanno saputo ben poco di queste vicende, bloccate tra la caccia ad Osama bin Laden (con i suoi video di risposta) e quella al Mullah Omar. Cosa ne pensa?
Ovviamente la nuova strategia viene venduta all’opinione pubblica in maniera ben diversa, con una campagna stampa mondiale volta a mettere in ombra il ruolo dei signori della droga legati al governo Kazrai e all’Occidente, facendo passare l’idea che il business afgano dell’oppio e dell’eroina sia gestito esclusivamente dai talebani. Esattamente il contrario della realtà che emerge dai dati pubblicati annualmente dalle stesse Nazioni Unite, secondo cui gli insurgents intascano mediamente non più del 10 percento dei profitti generati localmente dell’industria afgana della droga: circa il 20 percento è il guadagno dei contadini che coltivano papaveri e tutto il resto finisce in tasca ai narcotrafficanti tollerati o protetti dagli USA e dalla NATO e ai funzionari pubblici del governo da essi sostenuto. 

[10- Continua]