Armi chimiche in Siria, l'Europa non si fida di Stati Uniti ed Israele

foto: comedonchisciotte.org

Bruxelles (Belgio) - L'Unione Europea denuncia come «totalmente inaccettabile» l'uso di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad, pur evidenziando come non vi siano ancora prove certe sul reale utilizzo. Da qui la richiesta: un maggior monitoraggio ed un'indagine Onu, così come avvenne per le mai individuate “armi di distruzione di massairachene.

Gli Stati Uniti hanno dettato l'agenda per intervenire militarmente in Siria. Una volta oltrepassata la “linea rossa”, infatti, l'Occidente sarà costretto a destituire al-Assad manu militari. Le armi chimiche sono, come proprio l'invasione dell'Iraq insegna, la motivazione che permetterebbe di cambiare le regole del gioco, come ha più volte evidenziato l'amministrazione statunitense che ha però definito come ancora non sufficienti le prove a sua disposizione. Il casus belli siriano potrebbe essere quanto avvenuto a nord di Aleppo, nel villaggio di Khan al-Asal lo scorso 19 marzo, quando morirono 26 persone anche grazie all'uso di armi chimiche, stando almeno alla ricostruzione fatta da Francia, Gran Bretagna e dal generale Itay Brun, alto ufficiale dell'Aman, l'intelligence militare israeliana. I ribelli avrebbero inoltre raccolto le prove dell'uso di queste armi - tra cui il gas nervino "Sarin" - in almeno dieci località a partire da dicembre. 

«Il regime non sembra aver rispetto per la vita umana, ma potremo prendere posizione solo quando avremo la prova definitiva dell'uso di armi chimiche» ha detto Michael Mann, portavoce dell'Alto rappresentante per la politica estera europea Catherin Ashton. Posizione in  linea con quanto dichiarato dal Segretaro Generale dell'Onu Ban Ki-moon che, attraverso il suo portavoce, ha fatto sapere di non essere «nella posizione di commentare informazioni provenienti dall'intelligence americana». 

Il pericolo maggiore, per l'Europa, potrebbe essere un nuovo “effetto Colin Powell”, lo show che nel febbraio 2003 l'allora Segretario di Stato dell'amministrazione Bush si prodigò a realizzare alle Nazioni Unite con tanto di materiale video, fotografico e boccetta di antrace tra le mani. L'invasione irachena partì proprio da quelle innegabili certezze. Innegabili fino alla loro smentita.

Questo post lo trovate anche su:
http://www.infooggi.it/articolo/armi-chimiche-in-siria-leuropa-non-si-fida/41240/

The Brussels Business. Un'occasione (persa?) per conoscere l'Europa dei gruppi di pressione

Bruxelles (Belgio) - «La gente non capisce cosa l'Unione Europea è, non capisce come è governata, non conosce le persone che la mandano avanti». A dirlo è Keith Richardson, segretario generale dell'European Round Table of Industrialists tra il 1988 ed il 1998 durante le prime fasi di The Brussels Business, docu-thriller - per usare la definizione degli stessi autori - di Friederich Moser e Matthieu Lietaert del 2012.

È definito come il primo documentario che parla esplicitamente di lobby, di istituzioni europee e del potere delle prime sulle seconde. Un'idea importante - alla luce del fatto che tra il 75% e l'80% delle legislazioni nazionali viene deciso all'interno delle istituzioni europee - ma non così shockante come da più parti è stato definito. Perché per quanto l'idea sia meritevole (la corruzione esiste anche tra le istituzioni europee, come il caso Dalligate insegna) il documentario ha un peccato originale, dichiarato esplicitamente all'inizio, che poggia sulla necessità di dover tenere per 85 minuti buoni lo spettatore attento su una tematica che, per la "lentezza" della sua rappresentazione - di fatto, una riunione di persone in giacca e cravatta di per sé statica e dunque lenta per i tempi del video - sarebbe stata noiosa. Da qui il "peccato originale": aver deciso di narrare il tutto attraverso la chiave del legal-thriller - evidente in alcune scene simil-cospirative - che potrebbero far piacere a John Grisham ma che poco aiutano a fare chiarezza. Anzi, l'idea che se ne ha alla fine è quella populistico-modaiola che ha portato il 25% dei voti dell'elettorato italiano al Movimento5Stelle. Un'idea tanto dilagante quanto frutto di una scarsa conoscenza delle dinamiche di gestione di queste istituzioni e del modo in cui si muovono i gruppi di pressione, come è stato su queste pagine ampiamente spiegato dalla dottoressa Maria Cristina Antonucci (link a fondo pagina) ricercatrice in Scienze sociali presso il CNR.

A ben guardare, però, The Brussels Business diventa più un atto d'accusa verso media e cittadini, i primi spesso incapaci di raccontare l'Europa delle istituzioni senza "tirarla per la giacchetta" di questo o quell'interesse nazionale; i secondi ancora trincerati dietro alla scarsa conoscenza delle dinamiche che portano - tornando a quanto detto prima - la maggior parte delle nostre politiche nazionali e forse dimentichi che, con una cittadinanza transeuropea meglio informata e più partecipativa, anche questo "Impero delle lobby" avrebbe un po' meno potere. Ma questa è un'altra storia..

Approfondimenti
Democrazia, partiti e utilità del lobbismo. Intervista a Maria Cristina Antonucci (1/4) 
Lobby, Europa e società civile organizzata. Intervista a Maria Cristina Antonucci (2/4)
Lobbisti, faccendieri e stereotipi. Intervista a Maria Cristina Antonucci (3/4)
Lobby, Regione, dibattito. Intervista a Maria Cristina Antonucci (4/4)  

Questo post lo trovate anche su:
http://www.infooggi.it/articolo/the-brussels-business-unoccasione-persa-per-conoscere-leuropa-dei-gruppi-di-pressione/41137/

Campagna "FrontExit": se l'Europa combatte un nemico inventato

The Enemy from Frontexit on Vimeo.

Lampedusa (Agrigento) – L'Europa è in guerra, contro un nemico immaginario”. A dirlo sono organizzazioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani come Migreurop, che un mese fa, con questo slogan, hanno lanciato la campagna FrontExit  ( Qui il testo dell'appello, in inglese.) per denunciare l'opaco operato di Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne dell'Unione nata nel 2004 con sede a Varsavia. Uno dei perni principali su cui si basa la politica della Fortezza Europa, fatta di Centri di Identificazione ed Espulsione ed accordi bilaterali sulla esternalizzazione delle frontiere.

Rifugiati, richiedenti asilo, rifugiati. Sono questi i “nemici immaginari” - o inventati, secondo una certa politica – contro cui l'Europa ha scatenato il suo esercito, come si vede nel video di lancio della campagna, la quale presentata anche al recente Social Forum di Tunisi, dove è stato chiesto all'agenzia, agli Stati membri ed ai Paesi terzi partner e co-firmatari di accordi bilaterali di assumersi la responsabilità delle loro azioni – rappresenta il primo passo per la creazione di un movimento internazionale volto a migliorare la trasparenza, il rispetto dei diritti umani ed a mettere fine al sistema di impunità che tutela l'agenzia.

42.000 chilometri di costa, 9.000 di frontiere terrestri e 300 aeroporti internazionali. È questo ciò di cui si occupa Frontex, una istituzione «quasi militare, coinvolta nell'intercettazione dei migranti alle frontiere e nel loro rimpatrio forzato» e – come evidenziano le organizzazioni che hanno firmato la campagna – dalla libertà di manovra «sproporzionata, poco chiara e pericolosa» negli anni è infatti diventata un'agenzia indipendente dagli altri attori dell'area, forte dei milioni investiti dall'Unione Europea e della possibilità di stringere accordi con terzi, scavalcando così governi nazionali ed istituzioni europee predisposte.

Dai 19 miliardi di euro per il 2006, si è passati ai 118 del 2011, quando il Parlamento Europeo – che annualmente ne approva il budget – è stato costretto a rivedere in parte il mandato dell'agenzia, il cui approccio ai diritti umani rimane però «largamente criticabile e limitato» secondo Migreurop. Denaro che, naturalmente, viene utilizzato anche all'interno del sempre più ampio indotto delle industrie che sviluppano gli equipaggiamenti, tra i quali anche radar e droni.

Oltre alla questione umanitaria e quella economica, le organizzazioni che ruotano intorno alla campagna sollevano anche una questione legale: chi è responsabile dei diritti violati dei migranti? Per dirla meglio: quali nomi dare ai i genitori dei tanti migranti respinti nelle carceri o nei centri di detenzione temporanea libici o morti durante la traversata in mare? Chi denunciare per la violazione del diritto universale alla migrazione – e dei diritti a questo connessi, come il diritto d'asilo o ad un trattamento dignitoso - che è invece una libera circolazione del ricco verso il povero (e la chiamano “esportazione di democrazia”) ma non del povero verso il ricco, che diventa “emergenza immigrazione”?

Action de lancement Frontexit from Frontexit on Vimeo.

Questo post lo trovate anche su:
http://www.infooggi.it/articolo/campagna-frontexit-se-leuropa-combatte-un-nemico-inventato/40972/

Se i tagli al welfare aiutano i trafficanti di esseri umani

foto: : http://fightslaverynow.org/

Roma – Ha fatto arrestare 22 persone permettendo alla giustizia italiana di smantellare una rete nigeriana di trafficanti di esseri umani che si muoveva lungo tutta la penisola. Eppure lo Stato italiano, grazie ai tagli al welfare, rischia di diventare il primo alleato di questi ultimi.

Torino, Milano, Verona, Reggio Emilia, La Spezia, Crotone, Salerno. Sono alcune delle città toccate dall'Operazione "Caronte" della Guardia di Finanza, che lo scorso novembre ha permesso di smantellare uno dei nodi del traffico di esseri umani che dalla Nigeria, principalmente dallo stato di Edo e dalla sua capitale Benin City, dal quale arrivano ogni anno 6.000 vittime (giro d'affari annuo di oltre 228 milioni di dollari) secondo l'UNODC, l'agenzia ONU per la lotta alla criminalità organizzata porta le ragazze in Europa, con la promessa di un lavoro sicuro e la costrizione a prostituirsi per ripagare il debt bondage, il debito che queste ragazze devono pagare per essere arrivate nella “ricca” Europa.

Per H., ancora minorenne oggi protetta in una comunità di accoglienza, questo debito era di trentacinquemila euro, al quale si aggiunge anche il “juju”, un rito vodoo tipico del racket nigeriano che rappresenta una sorta di assicurazione per i trafficanti. Quando è stata fermata dalla Guardia di Finanza aveva solo due possibilità: essere espulsa dall'Italia o denunciare i suoi trafficanti. L'Operazione “Caronte” è stata possibile anche grazie alla sua preziosa testimonianza, che ha permesso alla Direzione Distrettuale Antimafia di conoscere nomi e volti di questa rete.
Una madam riceveva le foto delle ragazze via mail e, come stesse sfogliando un catalogo, sceglieva quali far arrivare in Europa e quali no. Alcune ricevevano un biglietto aereo dai trolleys, i reclutatori che, spesso, conoscono direttamente le famiglie delle vittime. Le altre dovevano invece passare attraverso il lungo viaggio fino alle coste libiche e poi Lampedusa, sperando di non essere rinchiuse in un Centro di Identificazione ed Espulsione

È proprio grazie al coraggio di queste ragazze – in un sistema che vede però l'obbligo di denuncia come condizione imprescindibile per avviare il procedimento di protezione – che molte operazioni contro questo traffico internazionale sono state concluse. Ma il sistema di protezione costa, attualmente, 8 milioni. Troppi per lo Stato italiano che, dal 2014, ha deciso di destinarvi solo 5 milioni.
Un taglio di 3 milioni che dimostra, ancora una volta, come lo Stato italiano non abbia alcuna intenzione di combattere il sistema mafioso, nazionale o internazionale che sia.

Approfondimenti:
 La mafia nigeriana fra voodoo e computer
Gnosis-Rivista Italiana di Intelligence, n.2/2005 http://gnosis.aisi.gov.it/Gnosis/Rivista3.nsf/servnavig/15
The curse of “juju” that drives sex slaves to Europe
Jenny Kleeman, The Independent, 7 aprile 2011 http://www.independent.co.uk/news/world/europe/the-curse-of-juju-that-drives-sex-slaves-to-europe-2264337.html

Questo post lo trovate anche su:
http://www.infooggi.it/articolo/se-i-tagli-al-welfare-aiutano-i-trafficanti-di-esseri-umani/40965/

Trovato su un gommone il tariffario dei trafficanti di uomini: 800 euro per passare il Mediterraneo

foto: amnesty.it
Lampedusa - Rotta Leixoes (Portogallo)-Tasucu (Turchia), lunedì 15 aprile. La nave cargo olandese Abis Bremen avvista un gommone. Uno di quella che verrà contabilizzato nella nuova, ennesima, “emergenza”. Il porto più vicino è quello di Pachino, nel siracusano, ma non ci sono migranti da salvare, perché tutti i 24 occupanti – come scoprirà poi il capitano della nave – sono stati portati in salvo la notte prima.
Sul gommone sono rimasti – come scrive Raphael Zanotti per La Stampa di ieri – solo documenti, fotografie, abiti, i contatti europei che i migranti avrebbero utilizzato una volta sbarcati e, soprattutto, il “tariffario”. Un semplice foglio di carta, a righe, con i nomi dei migranti trasportati ed accanto una cifra: 800 dollari per gli uomini, cento in meno per le donne. Tanto costa l'ultima parte del viaggio verso la Fortezza Europa, dopo l'imbarco a Tripoli ed il viaggio tra deserto, banditi e polizia di frontiera.

Sono 24 i nomi dei “paganti”, che vanno ad aggiungersi ai più di 600 migranti sbarcati nelle ultime settimane. Per loro il Mare Nostrum – dati i tanti migranti morti prima di arrivare sulle coste italiane o greche sarebbe forse il caso di chiamarlo “Mare Mostrum” - ha deciso di essere clemente, anche se l'ingresso nella fortezza europea non dà certo un biglietto di benvenuto. Con i documenti rimasti sul gommone, infatti, i migranti verranno prima inviati nei Centri di Identificazione ed Espulsione per essere identificati, ma il riconoscimento della loro identità, il ritorno allo status di persone, imporrà loro la fine del viaggio (a differenza di quel che si crede, infatti, in molti puntano ad arrivare nei paesi del Nord Europa) perché proprio quella “riconciliazione” li bloccherà nell'Europa meridionale dei loro diritti negati, costretti dal Dublino II a fermarsi alle soglie della Fortezza in attesa di essere rimpatriati, Respingendo le loro aspettative al punto di partenza.

Serbia-Kosovo. Accordo raggiunto

foto: kosovapress.com
Belgrado (Serbia) – L'annuncio è stato dato dall'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione Europea Catherine Ashton, chiamata al ruolo di mediatrice nei rapporti tra Serbia e Kosovo che hanno, dunque, raggiunto un accordo per la normalizzazione dei loro rapporti.
La firma definitiva, e dunque l'annuncio ufficiale, arriverà solo tra qualche giorno. Quello che si sa per certo è che sono 15 i punti su cui il primo ministro serbo Ivica Dačić e quello kosovaro Hashim Thaçi sono riusciti a trovare un'intesa. Tra questi, stando al vice-premier serbo Alekander Vučić, accordi sarebbero stati trovati sull'amministrazione della polizia nella zona settentrionale del Kosovo – tra i punti fondamentali dei rapporti – e le condizioni per l'adesione di quest'ultimo alle organizzazioni internazionali dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 2008 (mai accettata dalla Serbia). Polizia, giustizia e dogane passerebbero sotto il controllo di Pristina, che – stando al ministro kosovaro per l'integrazione europea Vlora Citaku – dovrebbe estendere il proprio controllo sull'intero territorio, dunque anche su quelle zone del nord che si sentono, de facto, legate più alle istituzioni di Belgrado.
Raggiunto l'accordo, per la Serbia è ora possibile guardare con maggior tranquillità ai negoziati per l'adesione nell'Unione mentre il Kosovo potrà avviare quelli per l'Accordo di stabilizzazione e associazione, primo passo per una futura adesione all'UE.

Nell'immagine, ripresa dal sito B92, il testo dell'accordo non ufficiale
(qui l'articolo con i 15 punti, in inglese)



Scandalo Dalligate, il Parlamento Europeo deciso ad insabbiare?

foto: www.foeeurope.org
Bruxelles (Belgio) – Sono più di 3.900 le firme raccolte dall'Alleanza per la Trasparenza e la Regolamentazione Etica dell'Ue (Alliance for Lobbying Trasparency and Ethics Regulation, ALTER-EU, organizzazione formata da circa 200 organizzazioni tra gruppi della società civile, sindacati, docenti universitari e società di pubbliche relazioni) per chiedere al presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso di rivelare quale sia la verità sul caso “Dalligate”, lo scandalo che nell'ottobre del 2012 costrinse l'ex Commissario europeo per i Diritti del Consumatore e la Tutela della Salute John Dalli a dimettersi in seguito ad una indagine dell'OLAF (l'Ufficio Europeo per la Lotta Anti-frode) che lo accusava di aver preso una tangente da 60 milioni di euro dalla società svedese Swedish Match per alleggerire il blocco contro la commercializzazione in Europa del tabacco da masticare “snus”.

Il timore è che John Dalli sia stato costretto a dimettersi proprio per essersi scontrato con l'industria del tabacco, che vede un “alleato” proprio nell'Olaf, come il suo direttore - l'italiano Giovanni Kessler – è stato costretto ad ammettere dinanzi al Parlamento Italiano. Una collaborazione basata su scambio di informazioni e sui due miliardi di euro annui dell'industria del tabacco per le casse dell'Unione Europea che rendono, evidentemente, poco oggettivo il lavoro degli inquirenti. 

Allo stesso modo sempre più forte diviene il sospetto che, nonostante l'esplicita richiesta dei parlamentari europei José Bové e Bart Staes, la commissione d'inchiesta sulla vicenda rimarrà solo sulla carta. Il Parlamento Europeo – che ancora non ha pubblicato il rapporto dell'OLAF - vi ha infatti rinunciato due giorni fa, con decisione presa dai suoi principali partiti, cioè popolari, socialisti e liberali. Il Ppe, principale gruppo parlamentare europeo, come ha evidenziato il sito d'informazione francese Mediapart (qui l'articolo di Presseurop.eu che parzialmente riprende l'originale in francese) sarebbe «pronto a tutto per difendere il suo Paladino, [il presidente della Commissione] José Manuel Barroso, mentre i socialisti sostengono ad ogni costo Giovanni Kessler, il contestato presidente dell'Olaf, ex deputato italiano e membro del Partito Democratico. I due grandi partiti avrebbero dunque un interesse comune: far dimenticare lo scandalo e passare ad altro». Insabbiamemento, per dirla con una parola sola.

Lukashenko, l'ultimo dittatore d'Europa

Lo chiamano "l'ultimo dittatore d'Europa". Aleksandr Lukašenko, padre-padrone ("batka", "padre", come si fa chiamare) della Bielorussia dal 1994. Contro il suo regime non hanno sortito alcun effetto le sanzioni economiche, la sostanziale emarginazione da parte degli altri leader europei né le proteste dell'opinione pubblica. Perché, nell'epoca delle "Primavere", ancora nessuno ha abbattuto l'ultimo regime europeo? Colpa di una opposizione di "piccoli Lukašenko", come li definisce il regista (e dissidente) Yuri Khashchavatski o forse la risposta sta nel fatto che, per ora, nessuno ha interesse a far cadere questo regime? Basteranno le mogli dei dissidenti carcerati o la "Primavera di Minsk" arriverà solo con la nuova generazione di oppositori-internauti?

Per rispondere a queste domande: "Belarusian Dream", di Ekaterina Kibalchich (andato in onda lo scorso 27 marzo su Al Jazeera, all'interno del programma "Witness") e "Lukashenko chi?", di Elena Keidan e Alfonso Iuliano, andato in onda il 17 ottobre 2012 all'interno del programma di RaiEdu "Crash"

Bologna: dall'11 al 13 aprile cie, economia e diritti migranti al centro del #ProMiGrÈ 2013

foto: www.comune.bologna.it

Bologna – Si terrà tra giovedì 11 e sabato 13 aprile ProMiGrÈ, il festival delle migrazioni e delle genti organizzato da Arci Bologna e dall'associazione universitaria ProGré con il contributo della CGIL e dell'Università di Bologna.

«Se l'anno scorso l'intento del festival è stato quello di riunire cittadini, associazioni, esperti, accademici, politici ed operatori che si interessano dei temi dell'immigrazione per sfatare insieme i luoghi comuni che troppo spesso inquinano il discorso politico e mediatico a riguardo, quest'anno il ProMiGrÈ vuole andare oltre e diventare luogo di proposta concreta su come cambiare quel che non funziona e dotare finalmente il nostro paese di una politica migratoria nuova, efficace, lungimirante. E soprattutto, rispettosa dei diritti umani», si legge sulla presentazione dell'evento.

Il festival, che si svolgerà tra l'Auditorium Enzo Biagi di Sala Borsa, Piazza del Nettuno e il Cinema Lumière, tratterà tra gli altri dei Centri di Identificazione ed Espulsione, il peso delle e dei migranti sull'economia – legale ed illegale - e sulla popolazione carceraria.
Interverranno, tra gli altri, Amelia Frascaroli, assessore alle Politiche sociali ed al Welfare del Comune di Bologna; Driss Jalal, presidente del Consiglio dei cittadini stranieri e apolidi della Provincia di Bologna; Desi Bruno, Garante regionale dei detenuti ed il giurista Fulvio Vassallo Paleologo.
Previsti, inoltre, il reading di Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori e le mostre fotografiche di Giulio Piscitelli, Alessandro Penso e Simona Hassan sui migranti rinchiusi nei Cie ed ai Prati di Carrara, sul dramma dei migranti in Grecia e sulle “seconde generazioni” nonché la proiezione del film “Anija (la nave)” di Roland Sejko, (qui il trailer) sull'esodo dei cittadini albanesi verso l'Italia negli anni '90.

Qui il programma completo: http://www.progre.eu/wp-content/uploads/2012/12/promigre20131.pdf
Qui l'evento facebook: https://www.facebook.com/events/354040594701840/
Su twitter, l'hashtag è #ProMiGrÈ 2013


Questo post lo trovate anche su:
http://www.infooggi.it/articolo/bologna-dall11-al-13-aprile-cie-economia-e-diritti-migranti-al-centro-del-promigre-2013/40165/

Negoziati Serbia-Kosovo, cadono nel vuoto i nuovi tentativi di dialogo

foto: balcanicauaso.org 
Bruxelles (Belgio) - Sono durate in tutto 12 ore le trattative dell'ottavo ed ultimo incontro sui negoziati per la normalizzazione delle relazioni bilaterali tra Serbia e Kosovo, poi le parti si sono aggiornate al nuovo incontro – previsto per la prossima settimana - con un nulla di fatto. «Le delegazioni ora torneranno in patria per consultazioni, e mi annunceranno le proprie decisioni nei prossimi giorni», ha detto Catherine Ashton, Alto rappresentante UE per gli Affari Esteri chiamata a far stringere la mano ad Hashim Thaçi (qui due articoli sul controverso leader della resistenza antiserba, da Cafebabel.com  e Presseurop.eu) e Ivica Dačić, primi ministri di Kosovo e Serbia. «Il divario tra le parti è molto stretto ma resta profondo» è stato il commento della Ashton a conclusione degli incontri.

Le delegazioni si sono scontrate sull'argomento più spinoso: le competenze di quella che dovrebbe diventare l'Associazione delle municipalità serbe in Kosovo (comprendente l'area di Mitrovica nord, e le municipalità di Zubin Potok, Zvecan e Lepasovic) chiesta da Belgrado – che vorrebbe dotarla di poteri esecutivi e di controllo su polizia e giustizia - in cambio dello smantellamento delle proprie strutture nella zona nord del Kosovo abitata al 94% da serbi in un paese a maggioranza albanese. Di ben altro avviso Thaçi, che ha evidenziato “l'estremo altruismo” delle sue condizioni, forte anche del favore di Unione Europea e Stati Uniti.
Durante il quarto incontro tenutosi a gennaio, era stata trovata un'intesa sulle entrate doganali di Jarinje e Brnjak, viste come punti di confine o checkpoint a seconda dell'interpretazione che se ne vuole dare.

Per la comunità serba del nord del Kosovo - che non ha mai riconosciuto il governo di Priština, istituito dopo l'indipendenza del 2008 - questa integrazione è vista come un vero e proprio tradimento. Tra i principali sostenitori del progetto ci sono infatti sia Ivica Dačić che Tomislav Nikolić, nel 1999 rispettivamente portavoce e vicepremier di Slobodan Milošević, non esattamente la stessa posizione politica di allora. Nikolić, da maggio 2012 presidente della Repubblica di Serbia, aveva basato la campagna per le presidenziali proprio sullo scioglimento dei precedenti negoziati, contrari agli interessi dei serbi dell'enclave, che accusano Belgrado di aver ceduto alle pressioni occidentali (una condizione imprescindibile per il dialogo su futuri ingressi nell'Unione).

Camp Nama: la base degli orrori anglo-americani in Iraq

foto: orianomattei.blogspot.com
Londra – Dopo Abu Ghraib, dopo lo scandalo di Base España, adesso è l'esercito britannico a doversi sedere sul banco degli imputati per la guerra in Iraq. Pochi giorni fa, il ministro degli Esteri britannico William Hague aveva vietato ai colleghi del governo di parlare del conflitto durante il decimo anniversario dell'invasione dell'Iraq. Ieri, infatti, il Guardian ha raccontato degli abusi perpetrati dai militari britannici e statunitensi a Camp Nama, situato presso il Baghdad International Airport e quartier generale della Task Force 121, a cui i britannici partecipavano con membri dello Special Boat Service (SBS) e dello Special Air Service (SAS)

Oltre trenta i militari di questa task force finiti sotto inchiesta – undici quelli rimossi in via definitiva - per i metodi di gestione dei dentenuti. Il gruppo era stato creato per interrogare quei prigionieri iracheni sospettati di essere in possesso di informazioni sensibili sulle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e su Abu Musab al-Zarqawi, all'epoca ai primi posti della lista dei ricercati americani. Persino il Pentagono si lamentò per i metodi di interrogatorio e detenzione particolarmente brutali. Tra questi la “black room”, la sala delle torture completamente dipinta di nero, senza finestre e con dei ganci che pendevano dal soffitto molto simile a quella che si vede nelle scene iniziali di Zero Dark Thirty, il film di Katheryn Bigelow dello scorso anno sull'omicidio di Osama Bin Laden. Come si apprende inoltre da alcune testimonianza raccolte da Human Right Watch, tra le peculiarità di Camp Nama c'era “il canile”, un centinaio di celle larghe due metri e alte un metro e mezzo dove i detenuti erano costretti a stare accucciati, nelle quali la temperatura notturna andava spesso sotto zero e di giorno – grazie alle lamiere dei tetti – era altissima.

Prima tappa – insieme a Base España, dove era di stanza il contingente spagnolo – verso la più famosa Abu Ghraib o verso la base aerea afghana di Bagram. Ad aprile 2004 scoppia lo scandalo delle fotografie della vergogna, pochi giorni dopo la Task Force viene rinominata, diventando Task Force 6-26. Un cambio di nome – non l'unico – necessario a confondere gli avversari ma soprattutto impedire alla corte marziale di poter identificare i membri per condannarli individualmente per gli abusi.