Scandalo "Dalligate", i Verdi europei chiedono una commissione sull'OLAF: "usa mezzi illegali"

Bruxelles (Belgio) - Aumentano i sospetti sull'affaire Dalligate, lo scandalo legato alle dimissioni dell'ex Commissario europeo per i diritti del consumatore e la tutela della Salute, il maltese John Dalli, costretto a dimettersi ad ottobre dopo essere stato accusato dall'Ufficio Europeo per la Lotta Anti-Frode (OLAF) di aver utilizzato un intermediario – l'imprenditore maltese Silvio Zammit – per ottenere 60 milioni di euro dalla Swedish Match, che all'epoca stava tentando di commercializzare in Europa il tabacco da masticare "snus" - attualmente commercializzato solo in Svezia - mentre il commissario stava lavorando ad una legge più restringente in materia.

Dopo gli stretti rapporti tra Phillip Morris – che proprio con la società svedese ha una joint-venture – e Olaf, confermati dal direttore dell'Ufficio, l'italiano Giovanni Kessler in un'audizione al Parlamento italiano che già ponevano più di un quesito sulla vicenda, nei giorni scorsi gli eurodeputati dei Verdi José Bové e Bart Staes hanno chiesto una commissione speciale di inchiesta sulla vicenda, accusando l'Olaf di «metodi illegali» nello svolgimento delle sue indagini.

Al centro della questione, due incontri che Dalli avrebbe avuto con Gayle Kimberley, lobbista di Swedish Match ed ex funzionaria europea, nel secondo dei quali l'ex commissario avrebbe chiesto una “compensazione finanziaria” per proporre l'abolizione del divieto di commercializzazione in Europa del tabacco.
Ma da un colloquio registrato da Bové (nel video allegato, ndr) con Johan Gabrielsson, direttore delle Relazioni pubbliche della società svedese, si apprende che l'Olaf avrebbe fatto pressioni sullo stesso Gabrielsson, portandolo a dichiarare il falso sul secondo degli incontri avvenuti tra i due – quello su cui si basa maggiormente il teorema accusatorio - per non “turbare l'inchiesta giudiziaria in corso a Malta”. Ma quell'incontro, si sente nella registrazione dell'incontro, non è mai avvenuto.

Secondo la ricostruzione che fa della vicenda il quotidiano francese Libération Zammit e Kimberley avrebbero raggiunto un accordo secondo il quale «la compagnia avrebbe pagato 10 milioni di euro per incontrare il commissario europeo e altri 50 per autorizzare la vendita dello snus. L'accusa si fonda su questa riunione e sull'incontro tra Dalli e Kimberley avvenuto a Malta un mese dopo (cioè a marzo 2012, ndr) durante il quale l'avvocato avrebbe consegnato all'ex commissario un documento che afferma che lo snus non è pericoloso.

#Celochiedeleuropa. Processi lunghi e sovraffollamento carceri: l'Ue riprende l'Italia

foto: ritabernardini.it
Strasburgo (Francia) – Un anno di tempo. Tanto è stato concesso dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo (CEDU) per porre fine al sovraffollamento delle carceri ed alle condizioni di detenzione inumane che questo comporta, definendo misure alternative e di compensazione per le vittime di una situazione definita strutturale e sistemica.
Condanna che va ad aumentare il non certo invidiabile primato che ci mette al primo posto per numero di condanne subite per violazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, aumentate con l'introduzione del principio della “ragionevole durata” del processo (comma 2 articolo 111 della Costituzione italiana)

Un problema ben noto sia nelle istituzioni europee che in Italia. Già due anni fa l'allora Commissario europeo per i diritti umani, lo svedese Tomas Hammarberg (da un anno sostituito dallo spagnolo Álvaro Gil-Robles, tornato commissario dopo aver ceduto la carica proprio ad Hammarberg nel 2006) aveva evidenziato come «il sovraffollamento delle carceri è un problema europeo da prendere molto sul serio e che si potrebbe alleviare riducendo la detenzione preventiva. Per esempio, in Italia il 42% dei detenuti sono ancora in attesa di giudizio o della sentenza d'appello. Quindi, non essendo ancora provata la loro colpevolezza, dovrebbero essere considerati innocenti. Se le carceri sono sovraffollate è perché troppe persone vi vengono rinchiuse in detenzione provvisoria».

Ogni 100 posti letto ci sono 140 detenuti (la media europea è di 99,6%). Siamo ultimi per condizione degli istituti penitenziari con casi in cui la percentuale arriva addirittura al 255% di Brescia o al 266% di Mistretta, nel messinese. Un sistema nel quale 65.000 detenuti “vivono” in posti dove il massimo consentito sarebbe 47.000. Questo, dice la Corte europea, viola l'articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell'Uomo, che proibisce la tortura e il trattamento inumano o degradante.
L'inefficienza della giustizia italiana, stando ai dati presentati dal ministero della Giustizia nel 2011, costano ogni anno un punto percentuale di Pil con – al 30 giugno 2011 – 9 milioni di processi da smaltire tra civile (5,5) e penale (3,4).

«L'attrattiva di un paese per essere un luogo dove investire e fare business è senza dubbio rafforzata dall'avere un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Per questo sono importanti decisioni legali prevedibili, puntuali e applicabili. E per questo le riforme in tema di giustizia sono diventate un'importante componente strutturale della strategia economica europea»

Segreto di Stato e diritto alla difesa. Corte Europea chiamata ad esprimersi sul caso Abu Omar

Strasburgo (Francia) – Unico condannato in via definitiva per favoreggiamento aggravato nel caso del sequestro di Abu Omar – l'ex imam di Milano prelevato da uomini della Cia e del Sismi il 17 settembre 2003 e trasferito in Egitto grazie alla extraordinary rendition - ora il colonnello Luciano Seno si rivolge alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Al centro della richiesta una questione destinata a far discutere e, probabilmente, a creare un precedente: il rapporto tra segreto di Stato e diritto alla difesa.

L'inchiesta scaturita dalla vicenda – qui riassunta dal Sole24Ore - condotta dai pubblici ministeri Armando Spataro e Ferdinando Enrico Pomarici, portò il 12 febbraio 2012 la IV sezione della Corte d'appello di Milano a condannare a dieci anni il generale Niccolò Pollari, all'epoca direttore dei servizi segreti militari italiani, a nove anni al vice Marco Mancini, e a sei anni gli agenti Giuseppe Ciorra, Raffaele Di Troia e Luciano Di Gregori, con risarcimento di un milione di euro per l'ex imam e di 500.000 euro per la moglie.

Al centro della richiesta una questione destinata a far discutere e, probabilmente, a creare un precedente: il rapporto tra segreto di Stato e diritto alla difesa.

Il colonnello ha dichiarato durante il procedimento di non potersi difendere dall'accusa di favoreggiamento per l'esistenza del segreto di Stato sugli interna corporis del Sismi, ed i giudici non hanno chiesto alla Presidenza del Consiglio di scioglierlo dal vincolo del silenzio, rendendo così impossibile la difesa. L'imputato è stato comunque condannato a due anni e otto mesi di reclusione «senza l'opportunità di provare la propria innocenza», come hanno evidenziato Enzo Cannizzaro, ordinario di Diritto Internazionale all'Università La Sapienza di Roma e l'avvocato Luigi Panella che rappresentano il colonnello Seno.
Se la Corte europea accetterà il reclamo, il procedimento potrebbe essere riaperto, portando ad una eventuale revisione della condanna.

Procedimento che viene osteggiato anche nei confini nazionali. La Corte Costituzionale ha infatti dichiarato ammissibile il ricorso presentato per conflitto di attribuzione dal governo nei confronti della Cassazione e della Corte d'appello. Al centro ancora il segreto di Stato. Il governo ha infatti presentato ricorso dopo che la Cassazione, lo scorso 19 settembre, ha annullato i proscioglimenti per gli indagati, rinviando ad un nuovo processo d'appello.

Brasile, una telenovela contro la tratta

foto: www.belelu.com
Rio de Janeiro (Brasile) - Può una telenovela arrivare là dove sembra non riuscire completamente la legge internazionale? Può una storia di finzione come lo sono le soap opera essere utilizzata per educare la popolazione, alfabetizzandola – per dirla con Paulo Freire – ad un problema, quello del traffico di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale, tanto globale quanto complesso? A guardare quanto avviene in Brasile o Argentina la risposta è sì.

2,5 i milioni di vittime della tratta secondo l'UNODC – l'Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine – sono vittime del traffico di esseri umani per sfruttamento sessuale. Un crimine che in Brasile, secondo i dati forniti dalla Segreteria per le politiche per le donne (Secretaría de la Política para las Mujeres, SPM) della Presidenza, dal 2005 al 2011 ha visto 337 casi noti.

Donne tra i 18 ed i 30 anni, con redditi bassi o inesistenti, bassa scolarità e difficoltà nel trovare lavoro l'identikit della vittima-tipo brasiliana, identica in questo alle altre vittime provenienti dall'America Latina, dall'Africa – con Benin City, in Nigeria, a costituire uno dei principali punti di partenza – dell'Asia o dell'Europa dell'Est. «Per questo accettano quelle che, a prima vista, sono eccellenti opportunità di lavoro all'estero o in un'altra zona del Brasile, credendo così di migliorare la propria vita e quella delle loro famiglie», ha raccontato all'agenzia Inter Press Service (IPS, qui un approfondimento) Eleonora Menicucci, ministra per le politiche femminili e titolare dell'SPM.

Oltre alle cause economiche – povertà, disoccupazione, mancanza di opportunità socioeconomiche – e alla violenza di genere, cause generali della tratta, per quanto riguarda le vittime brasiliane ci sarebbe, come ha raccontato Eloisa de Susa Arruda, ministra della Giustizia e della Difesa della cittadinanza dello Stato di San Paulo, anche il “feticcio” della donna brasiliana, la cui immagine «di donna sensuale viene venduta anche all'estero».

Sul fronte giudiziario - dove il Brasile collabora ad una rete di contrasto internazionale con l'aiuto dell'UNODC – gli sforzi sembrano non riuscire concretamente a debellare quello che è il secondo business mondiale, forte da qualche tempo è il lavoro che si sta facendo sul piano culturale, anche grazie ad una delle maggiori telenovelas, “Salve Jorge” trasmessa da Rede Globo, che attraverso la storia di Morena, 18enne brasiliana venduta per 3.000 dollari in Turchia, dove viene costretta a prostituirsi in un night club, è riuscita ad aumentare la consapevolezza del reato e la denuncia su casi specifici.

Violazione delle norme antitrust. L'Unione europea apre un'indagine (informale) su Apple

foto: techcentral.my/
Bruxelles – Secondo l'Unione Europea, Apple avrebbe definito vincoli particolarmente stringenti con gli operatori telefonici per la vendita di iPhone e iPad. Per questo nei giorni scorsi ha iniziato ad esaminare i contratti, con il rischio – per la società californiana – di violazione delle norme antitrust.
Secondo quanto riportato dal New York Times il mercato su cui l'Unione sta indagando è quello francese, ma non si esclude la possibilità che tali violazioni – qualora confermate – possano interessare anche altri Paesi.
Apple, sostiene l'Unione Europea, pur senza alcun obbligo formalmente definito, avrebbe fatto pressione attraverso vincoli contrattuali per avere una vera e propria corsia preferenziale nella distribuzione dei due prodotti, penalizzando gli altri produttori, che trovano così forti difficoltà ad accordarsi con gli operatori telefonici, data la ridotta quota di mercato per loro disponibile.

Se da un lato tali accordi permettono ai rivenditori di vendere gli iPhone a prezzi ridotti, allargando dunque la possibilità di domanda, tra le clausole dei contratti tra Apple e le società di telecomunicazioni sono previsti volumi minimi di vendita da parte di queste ultime che, se non rispettati, portano al pagamento di penali. Queste clausole impongono, de facto, ai rivenditori di dover destinare un'attenzione speciale ai prodotti marchiati dalla mela, anche in termini di marketing, per evitare di incorrere nelle penali.
Inoltre, Apple è accusata di tenere comportamenti diversi a seconda dell'importanza dell'operatore a cui si rivolge, rendendo più rigorose le clausole verso i più piccoli e rimanendo più lasco verso i maggiori. Un'operazione che falsa sostanzialmente le modalità concorrenziali del mercato, che viene in questo modo sostanzialmente chiuso ai fornitori più piccoli.
Il rapporto con gli operatori telefonici è, per la società della mela, fondamentale. Dei 55 miliardi di euro guadagnati nello scorso trimestre, infatti, il 56% derivava proprio da questo tipo di vendita.
Dal canto suo, l'Unione non ha per ora dato il via ad alcuna indagine formale, assicurando però – attraverso Antoine Colombani, portavoce del commissario per la concorrenza nell'UE, Joaquin Almunia – di star monitorando gli sviluppi della situazione. Per procedere, infatti, c'è bisogno di una protesta formale la cui assenza permette alla Commissione il non obbligo di agire.
Da Cupertino, in attesa di capire se l'indagine partirà realmente, dicono di stendere i contratti rispondendo «appieno alle leggi locali ovunque ci sia il nostro business, Unione Europea inclusa».


A dieci anni dall'invasione, Guardian e BBC Arabic svelano la guerra sporca irachena

Baghdad (Iraq) - Mentre la Spagna aspetta gli esiti dell'inchiesta aperta dal ministro della Difesa in merito al video sulle torture pubblicato da El País qualche giorno fa, in Gran Bretagna il ministro degli Esteri William Hague vieta ai membri del governo di parlare della guerra in Iraq durante il decimo anniversario dell'invasione. Attraverso una lettera privata - si legge sul sito aperto dai Radicali per raccontare i retroscena sull'assassinio di Saddam Hussein - ha ricordato ai membri del governo che la posizione comune è quella di non farsi coinvolgere «in quelle controverse questioni che condussero il Regno Unito in un conflitto che spaccò il Paese e che ha causato la morte di quasi 200 soldati britannici e decine di migliaia di iracheni». L'intento è quello di aspettare la pubblicazione del rapporto finale dell'inchiesta guidata da tre anni da Sir John Chilcot per esprimersi sul coinvolgimento britannico nella guerra.


qui il documentario in versione integrale: James Steele: America's mystery man in Iraq

Scoppia, inoltre, l'ennesimo scandalo americano. Grazie ad un'indagine realizzata in collaborazione tra il Guardian e la BBC Arabic durata 15 mesi, si scopre infatti che il Pentagono ha inviato in Iraq due colonnelli - veterani delle “dirty wars” statunitensi in America Centrale - per creare una rete di centri di detenzione e tortura necessari ad ottenere informazioni dai ribelli. Si tratta, stando alla ricostruzione britannica, di James Steele, 58enne che ha partecipato alle guerre in Salvador e Nicaragua e James H. Coffmann, anch'egli veterano statunitense, che riferiva direttamente a David Petraeus, ex capo della Cia.

Lobby, Regione, dibattito. Intervista a Maria Cristina Antonucci (4/4)

Continua da qui:
[Parte 1: Democrazia, partiti e utilità del lobbismo. Intervista a Maria Cristina Antonucci (1/4)]
[parte 2: Lobby, Europa e società civile organizzata. Intervista a Maria Cristina Antonucci. (2/4)]
[Parte 3: Lobbisti, faccendieri e stereotipi. Intervista a Maria Cristina Antonucci. (3/4)]

foto: http://euact.eu/
Roma - Quarta ed ultima parte dell'intervista alla dottoressa Maria Cristina Antonucci  - ricercatrice in Scienze sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) grazie alla quale abbiamo cercato di capire chi siano davvero i lobbisti al di là degli stereotipi e come questi si muovano nelle istituzioni europee e verso il decisore pubblico italiano. Non resta che andare a guardare l'ultimo dei tre livelli nei quali questi si muovono, quello più vicino alla quotidianità della gente: il piano regionale.

Toscana, Molise, Abruzzo, Veneto, Emilia-Romagna sono alcune delle regioni che hanno – o stanno tentando – un regolamento del settore lobbistico. Può essere quello regionale un piano con il quale, sostanzialmente, bypassare l'incapacità di normare il piano nazionale?

Purtroppo, in carenza di una legge nazionale le discipline regionali emerse, pur se apprezzabili, non risultano sufficienti per trainare il modello di regolazione italiano del lobbying. La difficoltà principale si pone con riferimento ai tentativi di legislazione regionale non ancora andati a buon fine, come nel caso del Veneto. La proposta di legge regionale veneta presentata di recente prevedeva un obbligo di iscrizione dei lobbisti al Registro della trasparenza della Regione, venendo così a fornire una disciplina di dettaglio regionale per una professione non regolamentata a livello nazionale. Il potenziale conflitto di competenze legislative tra livello nazionale e livello regionale, con la conseguenza di un possibile annullamento ex post della legge regionale, si pone in maniera seria.
Nei tre casi di leggi regionali approvate (L. R. 5/2002 della Regione Toscana, della Regione Molise, e L. R. 61/2010 della Regione Abruzzo) , si è invece prevista la facoltatività dell’iscrizione ai registri regionali – in cambio di incentivi selettivi - per i lobbisti che intendevano esercitare la propria attività nei confronti di Consiglio (Toscana e Molise) e Giunta (Abruzzo). Il modello di riferimento evidente è la regolazione della Commissione europea, ben nota per trascorse vicende politiche dei proponenti delle leggi regionali toscana e abruzzese, Nencini e Chiavaroli.
E tuttavia vorrei sottolineare come se anche le leggi e i progetti di legge regionali non possono da soli supplire ad una organica disciplina legislativa nazionale in materia, essi dimostrano come la questione del rapporto tra gruppi di pressione e istituzioni politiche sia stata correttamente intesa, nella sua importanza e nelle sue conseguenze, dai sistemi politici regionali, il cui personale politico abbia avuto esperienze all’interno delle istituzioni europee.

Base España, l'anticamera di Abu Ghraib

Diwaniya (Iraq)  – «Ignorare l'orrore conduce solo a ripetere l'errore». Concludeva così Miguel González sul quotidiano spagnolo El País qualche giorno fa. L'orrore dura in tutto 46 secondi.[MORE]  
La cella è quella della Base España di Diwaniya, principale installazione militare spagnola durante la prima fase dell'invasione dell'Iraq, alla quale la Spagna – allora governata da José María Aznar del Partido Popular – partecipò dall'agosto 2003, senza l'avallo dell'ONU (come tutta la guerra) e, soprattutto, contro il volere dell'opinione pubblica nazionale.

foto: elpais.com
Ai 1.300 militari che formavano la Brigada Plus Ultra venne distribuito il “Procedimiento de detención y actuación con el personal detenido”, un manuale che definiva come “durante e dopo la detenzione si applica la violenza minima imprescindibile”, pur nel “rispetto dei diritti del detenuto”, come riporta l'articolo del quotidiano spagnolo.
Quello stesso manuale parlava inoltre di intolleranza verso torture o altri trattamenti “crudeli, inumani e degradanti”, delle quali però né il generale Fulgencio Coll Bucher – comandante della Brigada e in seguito Capo di Stato Maggiore dell'Esercito di terra – né i due ministri della Difesa succedutisi all'epoca – Federico Trillo del PP e José Bono del  Partido Socialista Obrero Español – hanno mai avuto notizi. Il manuale, inoltre, non includeva alcun controllo super-partes, lasciando la decisione di dove porre il confine tra tortura e rispetto dei diritti del detenuto (e per estensione dei diritti umani tout court) al “buon giudizio” ed al “sentimento comune” dell'ufficiale al comando.

Stando a quanto raccontano testimoni consultati da El País, le cinque celle di cui si componeva il centro di detenzione – dove venivano inviati i detenuti per crimini contro la coalizione – ospitavano spesso più di del numero massimo di detenuti. I turni di guardia erano inoltre a rotazione, così che potevano capitare situazioni nelle quali un militare si trovava a controllare al suo potenziale attentatore del giorno prima, con tutto ciò che questo significa.
Undici morti in dieci mesi – quanto il contingente spagnolo subì tra agosto 2003 e maggio 2004 – danno il quadro della tensione che si registrava tra i militari, che subirono 40 attacchi in 50 giorni a partire dal 4 aprile 2004, data in cui viene attaccata la base Al Andalus a Najaf, una delle zone in cui operavano i militari spagnoli.

Lobbisti, faccendieri e stereotipi. Intervista a Maria Cristina Antonucci. (3/4)

Continua da qui:
[Parte 1: Democrazia, partiti e utilità del lobbismo. Intervista a Maria Cristina Antonucci (1/4)]
[Parte 2: Lobby, Europa e società civile organizzata. Intervista a Maria Cristina Antonucci. (2/4) ]

foto: toolfools.wordpress.com
Roma - Europa, Italia, Regioni. Sono questi i tre piani – come abbiamo fin qui visto, grazie all'aiuto della dottoressa Maria Cristina Antonucci  - ricercatore in Scienze sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) – nei quali si muovono i lobbisti. Dopo aver cercato di approfondirne i rapporti con le istituzioni europee, in questa terza parte dell'intervista cercheremo di “smontare” uno stereotipo tanto utilizzato quanto errato: che i lobbisti siano nient'altro che faccendieri ed intrallazzatori.

Partiti, elezioni e gruppi di pressione. Può l'attività di questi ultimi essere considerata come una forma di democrazia (più) diretta? Forme di organizzazione come i comitati per l'acqua pubblica possono essere considerati già come gruppi di pressione e, in tal senso, lo spostamento degli elettori a forme partecipative di questo tipo può portare – in aggiunta al forte astensionismo elettorale – ad una sorta di “democrazia dei gruppi di pressione”?  

Uno dei paradossi delle democrazie mature contemporanee sembra risiedere proprio nella distonia  tra aumentata richiesta di ulteriori strumenti e percorsi di partecipazione politica (le elezioni primarie  anche in sistemi politici in cui non siano espressamente previste, la partecipazione politica sul web, le consultazioni on-line su temi oggetto di prossime politiche pubbliche) e la crescente defezione rispetto ai tradizionali canali della partecipazione (astensionismo alle elezioni politiche, mancanza di quorum ai referendum, distacco e condanna rispetto all’esperienza dei partiti, quando non delle istituzioni politiche). In questo contesto ogni altra forma di partecipazione associata, come i movimenti collettivi per i beni pubblici (alla cui categoria, piuttosto che a quella delle lobby, ricondurrei i soggetti organizzati per l’acqua pubblica e altri public goods) e come i gruppi di pressione raccolti attorno ad uno specifico interesse, possono rappresentare canali alternativi della partecipazione politica associata, in grado di riattivare la scarsa e poco vivace fiducia collettiva nel sistema politico. Tuttavia, più che riferirmi ad una democrazia dei gruppi di pressione, penso sia preferibile parlare di una democrazia che si apre a nuovi soggetti: nuovi modelli di partiti, come il MoVimento cinque stelle (che si definisce movimento, ma agisce secondo la razionalità propria del partito politico), nuovi movimenti collettivi - differenti rispetto ai movimenti degli anni ‘60-‘80, grazie all’uso professionale delle tecnologie di comunicazione di massa – e molteplici  gruppi di pressione.

Lobby, Europa e società civile organizzata. Intervista a Maria Cristina Antonucci. (2/4)

Continua da qui:
[Parte 1: Democrazia, partiti e utilità del lobbismo. Intervista a Maria Cristina Antonucci (1/4)

foto: paginatre.it
Roma - Seconda parte dell'intervista realizzata con la dottoressa Maria Cristina Antonucci  - ricercatore in Scienze sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), sul fenomeno – tanto chiacchierato quanto sconosciuto – delle lobby. Dopo aver fatto un quadro genderale, cerchiamo di capire come si muovano i gruppi di pressione, analizzando in questa parte dell'intervista il piano europeo.

Parlando di lobbying” abbiamo detto che i lobbisti si muovono sui tre piani: sovranazionale, nazionale e regionale. Partendo dal primo, nello specifico il piano europeo, quali sono state le tappe più importanti del rapporto tra lobbisti e decisori europei?

L’Unione Europea è un sistema politico derivato di secondo livello, che, nel corso degli anni, è arrivato ad assumere un livello di decisioni politiche in grado di generare il contenuto, come è stato stimato, di circa il 70% delle legislazioni nazionali. Tra gli anni 80 e gli anni 90, dentro al sistema europeo è esplosa la Comitatologia, ovvero la possibilità che la Commissione assumesse le proprie decisioni sulla base di una assistenza fornita da Comitati composti da rappresentanti degli Stati membri espressione delle amministrazioni nazionali in grado di rappresentare le posizioni, per distinte materie di competenza, dei governi nazionali in materia di implementazione delle politiche europee. L’assenza di una regolamentazione di ruolo e funzione dei Comitati, almeno fino alla formulazione della decisione Comitatologia 468/1999 (che ha posto dei requisiti di trasparenza e che ha individuato margini di verifica per il Parlamento europeo), ha aperto ampi spazi di manovra per i rappresentanti degli interessi presso la Commissione.

Democrazia, partiti e utilità del lobbismo. Intervista a Maria Cristina Antonucci (1/4)

foto: festivaldellegenerazioni.it
Roma - Questa intervista nasce quasi per caso, quando la dottoressa Maria Cristina Antonucci (nella foto) - ricercatrice in Scienze sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e docente di Sociologia dei fenomeni politici all'Università di Roma Tre - mi ha fatto notare un errore nell'articolo "#Celochiedeleuropa/1. Lobby e Commissione Europea: chi controlla i controllori?". Ne ho dunque approfittato per chiederle di rispondere ad alcune delle mie curiosità, aumentate con la lettura del suo libro “Rappresentanza degli interessi oggi. Il lobbying nelle istituzioni europee e italiane” edito da Carocci Editore nel 2012 su che cosa siano le lobby. Una parola che, come vedremo in questa intervista, viene usata nei media in un modo spesso inesatto.

Perché un libro sul lobbying?

Rappresentanza degli interessi oggi, uscito nel 2012 è frutto di un lavoro di ricerca iniziato nel corso del mio dottorato, alcuni anni prima, e risponde ad alcune esigenze di identificazione e contestualizzazione di un fenomeno sempre meno marginale nel sistema politico italiano. In quest’ultimo contesto, vale la pena ricordare che la scienza politica italiana ha appuntato maggiormente la propria attenzione sul ruolo delle istituzioni politiche e dei partiti politici, marginalizzando - con le eccezioni di autori quali Gianfranco Pasquino, Domenico Fisichella, Luigi Graziano e Liborio Mattina - l’analisi dei gruppi di pressione in Italia e delle relative tecniche di pressione, comunicazione e influenza che costituiscono il lobbying. Inoltre, il fenomeno dei gruppi di pressione e della rappresentanza presso il sistema politico ha assunto una maggiore rilevanza in un contesto in cui i partiti politici, nelle forme assunte nella seconda repubblica declinavano, mentre le istituzioni politiche molto spesso avevano una bassa resa in quanto ad effettività dei processi decisionali.

Perché è importante parlare di lobby?

Molto più mirato ed efficace appare il metodo del lobbying adottato dai gruppi di pressione per favorire esiti decisionali specifici e rapidi, anche quando lo scopo finale è quello di esercitare poteri di veto e bloccare un processo decisionale. La crescente importanza dei gruppi di pressione nei sistemi politici non è un tratto solo italiano. Il lobbying veniva ad essere designato dall’OCSE in un Rapporto del 2007, come una delle modalità emergenti per i gruppi di pressione di intersecare il sistema politico nel contesto dei processi di globalizzazione.

Gran Bretagna e Francia contro l'Unione Europea per armare i ribelli siriani

foto: it.euronews.com

Parigi – «Non possiamo accettare che ci sia questo squilibrio con da un lato l'Iran e la Russia che forniscono delle armi a Bashar al-Assad e dall'altro lato dei ribelli che non possono difendersi. Levare l'embargo è uno dei soli mezzi che restano per far avanzare politicamente la situazione». A parlare così, alla radio France Info, è Laurent Fabius, ministro degli Esteri francese. Se durante la riunione della prossima settimana con i suoi omologhi dei 27 Stati Membri, necessaria a definire una strategia comune sull'embargo in scadenza a fine mese, l'Unione Europea dovesse decidere all'unanimità di confermarlo, Francia e Gran Bretagna hanno annunciato che armeranno da sole i ribelli. Fino a quella data, come ha evidenziato anche il premier britannico David Cameron, entrambe faranno pressione sugli altri paesi per eliminare le sanzioni ed usare i canali legali per l'invio delle armi.
«È nostro dovere aiutare la Coalizione, il Free Syria Army e i loro leader con tutti i mezzi necessari», ha ribadito Fabius al quotidiano Libération.
A mettersi di traverso al fronte anglo-francese è però arrivata Angela Merkel, che ha motivato la sua opposizione sostenendo come l'invio degli armamenti europei sarebbe utilizzato da Iran e Russia come giustificazione per aumentare il flusso di armi verso il governo di Damasco. La Cancelliera tedesca ha inoltre chiesto una posizione comune dell'Europa sull'embargo, la cui conclusione farebbe seguito alla decisione del mese scorso, presa in sede europea, di allentare le condizioni per la fornitura di equipaggiamento “non letale” - come i giubbotti antiproiettile - e l'assistenza tecnica all'opposizione. Londra starebbe inoltre pensando ad un programma di 13 milioni di sterline (circa 15 miliardi di euro) composto da aiuti umanitari e logistici a cui starebbe pensando Londra.

Tra le “cause” che portano la Francia a chiedere di poter vendere direttamente le armi ai ribelli, le rassicurazioni date dal Consiglio Nazionale Siriano (l'opposizione in esilio) di essere in grado di controllarne il flusso. François Hollande ha inoltre evidenziato come la prosecuzione degli scontri potrebbero radicalizzare il conflitto allargandolo a paesi limitrofi quali Libano e Turchia (attraverso quello stesso processo di infiltrazione nei campi profughi che abbiamo conosciuto con la guerra in Rwanda?).
Dall'altro lato della Manica, Cameron ha sostenuto come una soluzione politica sarà possibile solo quando il CNS verrà considerato dalla gente come una “forza credibile”.

Genere e potere. Le "quote rosa" sono una soluzione reale?

foto: www.eige.europa.eu
Bruxelles (Belgio) - Il 40% di donne nei board delle aziende statali entro il 2018 e delle società quotate in borsa entro il 2020. Era questo l'obiettivo di una direttiva adottata dalla Commissione europea a novembre, quando Viviane Reding – Commissario alla giustizia – ed Olli Rehn – Commissario europeo per gli Affari economici e monetari – lo avevano annunciato in una conferenza stampa piena di enfasi. Forse anche troppo.
Due giorni fa, il dibattito organizzato al Parlamento Europeo in occasione della Giornata Internazionale della donna “Women’s Responses to the Crisis” ha riacceso il dibattito: sono davvero le quote di genere (o “quote rosa”, come sono da sempre definite in Italia) lo strumento migliore per arrivare ad una reale eguaglianza di genere?
Secondo i dati forniti dalla Strategia Europea per la parità tra uomini e donne (2010-2015) , il gender pay gap – la differenza retributiva tra uomini e donne (qui un articolo esplicativo da ingenere.it) – negli Stati Membri è in media del 16%, con picchi minimi (intorno al 10%) in paesi come l'Italia, la Polonia o la Romania e massimi (intorno al 20%) in paesi come la Grecia, la Germania o la Finlandia. Ciò si traduce sia in una minor retribuzione durante l'età lavorativa che in una pensione più bassa, esponendo le donne ad un rischio di povertà maggiore (nel 2011, il 23% delle donne sopra i 65 anni contro il 17% degli uomini).
Divario che viene però ribaltato quando si parla di genere ed istruzione, dove a raggiungere risultati migliori sono le donne, con l'82% che riesce a terminare la scuola secondaria superiore (contro il 77% degli uomini) così come l'istruzione universitaria, dove il 60% dei laureati è donna.

#Celochiedeleuropa. Il dilemma di Pericle, Grillo e la cittadinanza europea


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Bruxelles (Belgio) - Da Pericle alle prossime elezioni europee del 2014 passando per l'euroscetticismo di Beppe Grillo, il punto rimane definire il rapporto tra democrazia e mercato, tra voce dei cittadini e voce delle monete (o dei banchieri, come dicono gli euroscettici). «Qualora non si obbedisse ai diktat delle istituzioni finanziarie internazionali (o non si soddisfacessero le loro aspettative) si potrebbe arrivare alla crisi economica e politica, e ciò sarebbe incostituzionale» - scriveva il filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Žižek sul Guardian a gennaio, commentando una decisione della corte costituzionale slovena (qui l'articolo tradotto da Anna Bissanti per Presseurop.eu) - «in termini più semplici, dato che soddisfare i diktat e le aspettative è il requisito di base per mantenere l'ordine costituzionale, questi hanno la priorità sulla costituzione (eo ipso sulla sovranità dello stato)».

Cameron vs Einaudi
Riadattando uno dei più noti momenti della storia recente italiana – il lancio delle monetine contro l'allora leader del Partito Socialista Bettino Craxi davanti all'hotel Raphael il 30 aprile 1993, emblema del passaggio storico tra la Prima e la Seconda Repubblica italiana – l'euroscetticismo che arriva dalle elezioni italiane può rappresentare un evento molto simile sul piano sovra-nazionale: la chiusura della “Prima Repubblica” Europea per entrare nella “Seconda”, nella quale la prima questione da porsi è chi comanda davvero.
Una questione di “centri del potere”, in buona sostanza, che pone l'attenzione sul tipo di distribuzione del potere decisionale nel continente, nell'impossibilità di poter continuare in una cornice in cui ad un potere formale delle istituzioni europee si aggiunge, spesso sostituendolo, quello delle capitali europee, Berlino in testa.
In tal senso, le elezioni italiane possono rappresentare un modo perfetto per aprire il dibattito europeo anche a chi fino ad oggi ha potuto solo subire gli effetti di decisioni alle quali non aveva accesso: quella cittadinanza messa da Commissione e Parlamento Europeo al centro dell'European Year of Citizens (e dei due milioni del programma ”anti-euroscetticismo”, come riporta Carmine Gazzanni su Infiltrato.it).
«A quasi sessant'anni da quando il Trattato di Roma diede ufficialmente vita alla Comunità economica europea», scriveva a gennaio Andre Wilkens su Project Syndicate (qui l'articolo in italiano) «i dibattiti che si svolgono in tutta l'Ue continuano a essere in buona parte condotti da attori nazionali in forum nazionali e con lo sguardo rivolto ai soli interessi nazionali», a riprova di quello che Umberto Eco ha definito “provincialismo ipoeuropeo”.

#Celochiedeleuropa. Il voto italiano: una minaccia o una promessa per l'Unione Europea?

foto: The Economist
Bruxelles (Belgio) – Beppe Grillo e Silvio Berlusconi vincono, l'unità europea perde. È questo, in soldoni, il commento tipico che media e forze politiche continentali ha hanno fatto dopo le elezioni italiane, con il settimanale britannico The Economist che evidenziava la notizia con un più che eloquente “Send in the clowns” (“Entrano i clown”)
Ma è davvero così? Davvero i due “pagliacci” sono il peggiore incubo per le istituzioni europee? A ben guardare, la storia è esattamente opposta. Ma procediamo per gradi.

Rome wasn't built in a (electoral) day
Ad uscire dalle urne, lo scorso 26 febbraio, è un'Italia che ha dimostrato forte antipatia per Berlino, simpateticità con Londra ed avviatasi lungo la strada che da Atene porta a Lisbona, dove il battibecco Monti-Merkel sull'endorsment di quest'ultima ha rappresentato l'ultimo passaggio di una campagna elettorale all'insegna della scarsa capacità comunicativa, dove il Partito Democratico è riuscito a non-vincere elezioni che aveva in mano non smacchiando completamente il giaguaro (impostando una campagna elettorale su una cosa per la quale persino i propri elettori hanno provato vergogna), consegnando l'Italia alla fase di incertezza nella quale ci troviamo.
Alcune domande, però, possono già avere risposta. Innanzitutto – grazie allo studio dei flussi elettorali fatto dall'Istituto Cattaneo (qui il report) – dai dati sulle nove città prese in esame sappiamo di un elettorato a 5 stelle formato per lo più da elettori insoddisfatti dal partito guidato da Pierluigi Bersani. Emblematico il caso di Firenze, che ha visto ben il 58% dei voti regalati dal Partito Democratico al Movimento 5 Stelle, ed in molti si chiedono cosa sarebbe accaduto se al posto dell'attuale segretario ci fosse stato proprio l'attuale sindaco di Firenze. Democratici che avrebbero forse fatto meglio ad interrogarsi a fondo sul perché in quasi cinque anni abbiano perso circa 3,5 milioni di voti (3.452.606 secondo l'analisi fatta da Giancarlo Bosetti per Reset.it) piuttosto che adagiarsi su uno spirito primario ingenuamente traslato in vittoria alle elezioni nazionali.
Secondo pacchetto di voti, dicono i dati dell'Istituto, arrivato all'M5S dalla Lega Nord, che ha ceduto il 46% dei voti del padovano al movimento di Beppe Grillo, oltre ad avergli ceduto parte dell'identità partitica, in particolare in merito a questioni come l'immigrazione o il forte euroscetticismo. Quest'ultimo, insieme al populismo ed alla moderazione a sinistra – l'ennesima esclusione della fu estrema sinistra dovrebbe insegnare qualcosa ai dirigenti politici dell'area – rappresenta il volto dell'Italia post-elettorale, andata alle urne credendosi invece europeista e progressista.