Muos di Niscemi, se la Sicilia si trasforma in una gigantesca base militare

Niscemi (Caltanissetta) - Parafrasando la nota massima di Marshall McLuhan, secondo la quale “il medium è il messaggio”, si potrebbe dire che “l'importanza del medium è l'importanza del messaggio”. Un esempio lo abbiamo avuto nei giorni scorsi, quando Fiorello – che ha accusato i media nazionali di censurare l'argomento - all'interno della sua “Edicolafiore” ha parlato del Mobile User Objective System, meglio noto come Muos. Portando il problema – secondo la sua ricostruzione - dal piano strettamente siciliano a quello nazionale.

Già da mesi però, a denunciare gli effetti del progetto c'è Antonio Mazzeo, professore, giornalista "obiettore" e peace researcher, tra i pochi - se non l'unico - ad occuparsene assiduamente e fin dall'inizio, anche attraverso la stampa nazionale (qui un articolo de Il Manifesto). La vera questione mediatica, forse, sarebbe chiedersi quali attori ed interessi muovano al silenzio. Ma questa – direbbe Carlo Lucarelli – è un'altra storia.

Del Muos avevo già parlato in un ampio dossier a maggio.

Scandalo "Oil for food", iniziato il processo a Parigi

foto: attainablemind.net

PARIGI – Si è aperto lunedì il processo per lo scandalo denominato “Oil for food”. Sul banco degli imputati l'ex ministro dell'Interno francese Charles Pasqua, il gruppo petrolifero Total con l'allora vicepresidente senior per il Medioriente Christophe de Margerie, 61 anni, oggi amministratore delegato della compagnia – che nega ogni addebito – ed alcuni ex diplomatici come l'ex ambasciatore francese all'Onu Jean-Bernard Merrimée. Per tutti l'accusa è di corruzione.
La società era già finita sotto inchiesta nel 2005, quando venne accusata di corruzione attiva e traffico di influenza

Lo scandalo prende il nome dal programma da 64 miliardi di dollari con il quale tra il 1996 ed il 2003 si tentò di limitare gli effetti dell'embargo imposto dalle Nazioni Unite - a cui il popolo iracheno era costretto fin dall'invasione del 1990 - tramite un apposito piano di scambi commerciali tra petrolio iracheno e beni di prima necessità, in particolare cibo e medicine.
Si scoprì, però, che il governo di Saddam Hussein ne aveva già attivato uno attraverso lo sfruttamento di canali paralleli e l'attività di lobbying di personalità vicine o avvicinate dal governo iracheno. Inoltre, il petrolio veniva venduto con un sovrapprezzo che l'Iraq incassava attraverso società fittizie. Molti dei pagamenti illeciti passavano sui conti della Bnp-Paribas, banca parigina incaricata dall'ONU per le transazioni ufficiali.
«Delle mazzette irachene», si legge in un articolo del Sole24Ore del 2005, «erano stati informati sin dall'inizio tutti: dalla Farnesina al Consiglio di sicurezza, dal Governo francese, che arrivò addirittura a permettere alle aziende di defiscalizzare i retropagamenti, a quello americano, il cui rappresentante sedeva nel comitato Onu che autorizzava ogni singolo contratto».

In tutto – scriveva nel 2005 il Sole24Ore – 2.200 su 4.500 aziende coinvolte a livello mondiale, di cui 122 battenti bandiera italiana. 1,8 miliardi di dollari la quota di tangenti versate al governo di Saddam Hussein secondo le 600 pagine del rapporto della commissione indipendente Volcker istituita da Kofi Annan – allora Segretario Generale che vide il figlio Kojo coinvolto nello scandalo – presieduta dall'ex presidente della Federal Reserve sotto le amministrazioni Carter e Reagan. Francia e Russia i paesi più coinvolti nella «multinazionale della corruzione», che vide coinvolte società come DaimlerChrysler, Daewoo, Siemens, Gazprom o le italiane Iveco e New Holland del gruppo Fiat, Breda Energia e Progetto Europa & Global Spa, società di ingegneria civile.

"Disposition Matrix”: i giochi di guerra dell'amministrazione Obama 

Obama con il nuovo capo della Cia, John Brennan (foto: whec.com)

Washington (Stati Uniti) - Il rapporto tra industria militare – legata indissolubilmente a quella delle armi – e industria dei videogiochi è in qualche modo circolare. Se, infatti, i primi simulatori arrivano proprio dal mondo militare che ha poi fornito esperti allo sviluppo commerciale del settore, non è un mistero che oggi il flusso si sia invertito, con il mondo militare a beneficiare della diffusione dei giochi a carattere bellico nel mondo civile. L'idea è semplice: organizzare la violenza e l'eccesso di adrenalina che può venir fuori da giochi simili – è bene ricordare l'assenza di studi che confermino il legame tra videogiochi e violenza – tentando di mettere una divisa addosso ai videogiocatori più coinvolti, forti anche della recessione economica con la quale è diminuita una fuga di massa che nel biennio 2007-2008 è arrivata – come scrive il Telegraph nell'aprile 2011[1] – a toccare quota 15.000 soldati all'anno che decidevano di rientrare nel mercato del lavoro civile. Dal mondo civile a quello militare si passa attraverso l'addestramento dove, come scrivono Barry Meier ed Andrew Martin nell'articolo del New York Times[2], massiccio sta diventando negli ultimi anni l'uso di giochi come Call of Duty o una versione riadattata alle esigenze di Doom della id Software – il gioco a cui giocavano Eric Harris e Dylan Klebold, artefici della strage alla Columbine High School – nel quale mostri e armi di fantasia venngono sostituiti con rappresentazioni di armi reali ed esseri umani. Reclutare ed addestrare attraverso un linguaggio che si pone esattamente al centro tra il mondo civile dei videogiocatori e quello militare dei corpi d'élite da questi impersonati attraverso i joystick.

Un esempio di come il mondo della guerra virtuale si stia avvicinando a quello reale
EA Medal of Honor - MOH Experience 2: Gunfighters

Collateral Murder - Wikileaks - Iraq

La sintesi perfetta arriverebbe da un posto a pochi chilometri da Clovin, New Mexico, dove si trova la Cannon Air Force Base, una delle sedi dell'aeronautica militare americana. È da qui che partono i famigerati droni, al secolo “aeromobile a pilotaggio remoto”. Per guidarli non serve nient'altro che un joystick, come quelli che si usavano fino a non troppi anni fa nelle sale giochi. Un modo di fare la guerra sicuramente meno pericoloso per i militari. Finito il turno al joystick, infatti, quelli del New Mexico si alzano, si mettono in auto, e tornano dalle loro famiglie. Con gli stessi dubbi etici di chi sta in prima linea.

L'amministrazione Obama tra armi e videogiochi. In mezzo la National Rifle Association

La strage della Sandy Hook Elementary School del 14 dicembre scorso ha portato ad un aspro scontro tra l'amministrazione Obama e la National Rifle Association, la lobby dei detentori di armi da fuoco statunitense. Al centro, oltre al Secondo Emendamento, anche la classica litania sulla violenza dei videogiochi che, però, sempre più diventano strumento di arruolamento ed addestramento per il settore militare, al quale Obama ha messo in mano la regia del suo “videogioco” preferito: la Disposition Matrix.

Newtonw (contea di Fairfiel, Connecticut, Stati Uniti) – Cinque minuti. Tanto è bastato al ventenne Adam Lanza, lo scorso 14 dicembre, per quello che è passato alle cronache come il “massacro della Sandy Hook Elementary School”. In totale 28 vittime, di cui 20 bambini di età compresa tra i sei e i sette anni e lo stesso Lanza. Tanto è bastato, agli Stati Uniti, per far esplodere la prima grande polemica del secondo mandato dell'amministrazione Obama.

Da un lato il governo. Dall'altro la National Rifle Association (da ora N.R.A.), uno dei più potenti e antichi gruppi di potere statunitensi, come ben ricorda Bill Clinton, che nel 1994 vide Tim Foley primo presidente della Camera a non essere rieletto – primo caso in un secolo - proprio per essersi opposto alla vendita delle armi d'assalto. Divieto che durerà fino al 2004 e all'amministrazione Bush, confermando così una maggior vicinanza all'area repubblicana che non ai democratici, con Chris W. Cox[1] al vertice dell'Institute for Legislative Action, il braccio parlamentare dell'associazione, fin dal 2002. Al centro del confronto, naturalmente, il rapporto tra gli americani e le armi, nel quale entra anche l'ultima sparatoria avvenuta ieri sera ad Albuquerque, nel New Mexico. Lo stesso giorno del massacro, faceva notare un editoriale del Los Angeles Times[2], 22 bambini sono stati feriti – nessuno ucciso - da un uomo munito di coltello in una scuola elementare in Cina. Potrà non essere una legge ad evitare future “Sandy Hook”, ma la via legislativa per ridurle al minimo non dovrebbe essere così impraticabile.

L'attacco e la trattativa. «Obama e Biden sono in malafede perché stanno cogliendo questa occasione per fare ciò che vogliono da anni, direi da decenni: limitare il Secondo Emendamento della Costituzione, privando i cittadini del diritto di avere armi». A dirlo ad una radio di Brooklyn è David Keene, presidente della N.R.A. a poche ore dall'inizio delle trattative per la definizione delle nuove leggi su fucili d'assalto e capienza dei caricatori. Un negoziato che si preannuncia tutt'altro che semplice. Tra i primi a muoversi in tal senso il democratico Andrew Mark Cuomo, governatore ed ex procuratore generale dello stato di New York il quale ha annunciato la creazione della «più severa legislazione del paese sul controllo delle armi» che, secondo quanto scrive Democracy Now! (ripreso dall'agenzia Pressenza[3]) non vedrà l'opposizione dei repubblicani.

“Crackdown Occupy”. Come la finanza ha guidato il pugno di ferro contro OccupyWallStreet

Il Federal Bureau of Investigation ha contrastato il movimento OccupyWallStreet trattandolo come una cellula terroristica dormiente sul suolo americano. È quanto emerge da documenti parzialmente desecretati e resi disponibili dal Partnership for Civil Justice Fund dai quali risulta come, per combattere il dissenso anti-capitalista di Zuccotti Park, si siano utilizzate strategie e collegamenti dello spionaggio antiterrorista. Con le grandi corporation economiche e finanziarie a giocare un ruolo fondamentale.

fonte: adbusters.org

Washington (Stati Uniti) – L'Fbi ha scatenato una guerra contro il movimento Occupy, tanto da definire la necessità di «un piano per ucciderne la leadership attraverso l'uso di fucili da cecchino».


Screenshot del documento FBI-OWS 7-1175251-001, pagina 61

È quanto emerge dalle ricostruzioni giornalistiche e della rete dopo il rilascio di alcuni documenti fortemente censurati della polizia federale americana alla fine di dicembre[1] e messi a disposizione dal Partnership for Civil Justice Fund (da ora, per brevità, PCJF) che ne aveva fatto più volte richiesta tramite il Freedom of Information Act che «obbliga la pubblica amministrazione a rendere pubblici i propri atti e rende possibile a tutti i cittadini di chiedere conto delle scelte e dei risultati del lavoro amministrativo». Ma nei frammenti di 112 pagine che Mara Verheyden-Hilliard - direttrice esecutiva del PCJF – definisce «la punta dell'iceberg»[2] – c'è scritto chi ha realmente gestito, e come, il pugno di ferro (crackdown, secondo la Verheyden-Hilliard[3]) contro il movimento di protesta. Non limitandosi ai soli cecchini.

Possono gli Stati Uniti definire protesta sociale (derivante dagli alti livelli di disoccupazione, secondo le preoccupazioni dell'Fbi della Florida) e terrorismo - internazionale e nazionale - sullo stesso livello di pericolosità, in particolare se quei movimenti di protesta sono più volte richiamati nei documenti come «non violenti»? Possono quegli stessi Stati Uniti permettere che, in nome della “guerra al terrorismo” lanciata dall'amministrazione Bush ed incrementata sotto Barack Obama, il Federal Bureau of Investigation si trasformi in «un'agenzia d'intelligence de facto di Wall Street e di Corporate America» (cioè l'insieme delle grandi holding statunitensi, ndr[4])?

Nazisti, hackers, terroristi e manifestanti. In un documento datato 9 dicembre 2011 si parla di un incontro tenutosi due giorni prima nel quale due analisti appartenenti al Field Intelligence Group di Memphis - i cui nomi rimangono segretati - hanno presentato un powerpoint sulle minacce terroristiche da porre all'attenzione del Joint Terrorism Task Force (una partnership tra varie agenzie, tra cui l'Fbi e il Dipartimento per la Sicurezza Interna, nata per fronteggiare il terrorismo interno ed internazionale dopo l'11 settembre). Insieme alla minaccia neonazista dell'Aryan Nation[5] e a quella terroristica portata dalla diffusione di Inspire[6], il primo magazine in lingua inglese realizzato da Al Qaeda nella penisola araba - la versione yemenita del gruppo terroristico - si trovano il gruppo di hackers di Anonymous ed il movimento di Occupy Wall Street.
Se le prime tre sono - nell'ottica statunitense - preoccupazioni condivisibili, può apparire meno comprensibile l'inserimento in questa lista anche del movimento di Zuccotti Park. A meno di non tornare di nuovo a leggere le carte. Al di là dell'”effetto” cecchino.

L'industria della solidarietà. Quando i principi umanitari smettono di essere etici

foto: ndanet.it

Roma - Entrare nel mondo delle organizzazioni non governative può essere fatto in due modi: attraverso i loro “reparti marketing” - spesso non troppo dissimili da veri e propri “Uffici Propaganda”- o attraverso la strada opposta, andando ad indagare cosa c'è dietro le crisi umanitarie e le organizzazioni internazionali che di queste si nutrono, come fa la giornalista freelance olandese Linda Polman in un vero e proprio atto d'accusa nel libro L'industria della solidarietà (titolo originale forse ancor più azzeccato: De Crisiskaravaan), edito in Italia dalla Mondadori nel 2009.

Un lavoro sul campo durato cinque anni che porta il lettore a conoscenza dell'altra faccia di quella che l'economista zambiana Dambisa Moyo definisce la “compassione mondiale organizzata”, fatta di oltre 40.000 organizzazioni internazionali a cui ogni anno vengono affidati circa sei miliardi di dollari, tanto che le ong – insieme alle cosiddette “Mongo” (acronimo di “My own ong”), quelle organizzazioni tirate su da semplici gruppi di cittadini spesso più dannose che benefiche – rappresentano oggi la quinta economia del mondo e che si aggiungono ai circa 120 miliardi di dollari stanziati ogni anno dai Paesi donatori dell'Ocse alla voce “cooperazione allo sviluppo”.

Le 216 pagine del libro rappresentano un lavoro storico, che affronta il «collaborazionismo involontario» della Croce Rossa con il regime nazista durante l'Olocausto («Secondo l'ICRC, nemmeno il male dei campi di concentramento giustificava l'abbandono del principio di neutralità e imparzialità», scrive la Polman) passando per la Nigeria della crisi del Biafra degli anni '60, quando il colonnello Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu si affidò alla MarkPress – un'agenzia di relazioni pubbliche di Ginevra – per far presa sul cuore e la mente dell'opinione pubblica mondiale fino al problema di organizzazioni come la Tend My Sheep di Sam Simpson, convinto di aiutare i minori mutilati della Sierra Leone semplicemente portandoseli a casa. Quello della Polman è, soprattutto, un “processo alle organizzazioni umanitarie” che lascia poco spazio ad accuse generiche e spesso teoriche, portando il lettore in una contro-storia dell'attività umanitaria mondiale infilandosi in quelle domande a cui il pubblico occidentale – che “vede” guerre e campi profughi solo attraverso il racconto mediato degli organi di informazione, anch'essi sul banco degli imputati – non pensa, come la concorrenza selvaggia fatta di tanto marketing e troppi stereotipi per accaparrarsi i contratti migliori e che riportano tutte ad una generale domanda, alla quale forse non si troverà facilmente risposta: quando i principi umanitari smettono di essere etici?