Traffico di minori contesi, sgominato gruppo internazionale a Palermo (BlogLive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it 13 novembre 2013

29 maggio 2012. A Villagrazia di Carini (Palermo) è appena stato spento l’incendio dell’Hotel Portorais quando i carabinieri scoprono che sotto la cenere cova un “incendio” ben più grave: un traffico di minori contesi su scala internazionale.

Al centro della vicenda la compagna del titolare dell’albergo, l’ex campionessa olimpionica di vela (bronzo a Seul 1988) Larysa Moskalenko, a Palermo da oltre vent’anni. È lei, secondo le indagini, a tessere le fila dell’intera ragnatela, al cui vertice c’era Martin Vage, presidente della Abp World Group, società norvegese di sicurezza privata, finito in manette a fine ottobre. Tra i servizi offerti dalla società “un vero e proprio sodalizio di contractors, per la maggior parte veterani dei corpi speciali delle Forze Armate di mezzo mondo” sottolineano gli inquirenti, c’è anche il “recupero” dei bambini contesi da genitori di nazionalità diverse, realizzato attraverso le imbarcazioni messe a disposizione dalla “Sicily rent boat” di proprietà dell’ex campionessa.

Il recupero poteva costare fino a 200mila euro. L’inchiesta – coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo con la collaborazione dei Comandi Provinciali di Brescia e Trapani – è partita da Capaci, dove è stata trovata la sede centrale di un’organizzazione, i cui tentacoli si dipanano in tutto il mondo tra Tunisia, Egitto, Russia, Ucraina fino ad arrivare alla Norvegia.

Cronologia di un traffico internazionale
Il 26 settembre 2012 Peter Ake Helgesson, detto “Per”, 54 anni, ex veterano svedese della Legione straniera, contatta la Moskalenko per un’operazione da svolgersi in Tunisia. Dopo due giorni l’ex legionario ricontatta la campionessa olimpica avvertendola di avere i 13.000 euro pagati da una coppia scandinava per l’affitto della barca con cui realizzare il recupero. La Moskalenko avverte Helgesson della necessità di dotarsi di quattro giubbotti di salvataggio, uno per un bambino.
Il 3 ottobre Helgesson chiama da Port el Kantaoui: missione compiuta e ritorno previsto a Marsala quella stessa notte.

Per un’altra operazione – da realizzarsi tra Cipro, l’Egitto e il Libano – il gruppo si dota di medicinali, spray urticante e armi, “un paio di pistole” per la precisione. Per reperirle la Moskalenko chiama un numero russo, intestato ad un certo Arkadij – secondo le ricostruzioni appartenente all’Fsb, il servizio segreto russo – al quale l’ex campionessa chiede di un “generale conoscente” dal quale ottenere le armi.

Dal Sahara a Lampedusa, quel traffico di migranti tra criminalità e violenze (Bloglive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it il 12 novembre 2013

La Direzione distrettuale antimafia di Palermo è riuscita ad arrestare Elmi Mohamud Muhidin, cittadino somalo di 34 anni riconosciuto dai superstiti eritrei del naufragio dello scorso 3 ottobre come l’organizzatore del loro viaggio, terminato con 366 vittime. L’uomo è accusato di sequestro di persona, tratta di esseri umani, associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza sessuale. Insieme a lui è stato fermato anche uno scafista di nazionalità palestinese, tale Attour Abdalmenem, 47 anni, non legato allo sbarco del 3 ottobre.
Grazie all’identificazione di Muhidin, gli investigatori sono riusciti a fare un passo avanti nelle indagini, venendo a conoscenza dell’identità di uno dei capi dell’organizzazione transnazionale che gestisce il traffico di migranti tra Corno d’Africa, Sahara, Libia e coste italiane.

L’amico degli italiani “che contano”. Le vittime del naufragio erano tutte di nazionalità eritrea, in fuga dal regime di Isaias Afewerki, in carica dal 1993 e una lunga lista di amici “che contano” in Italia (come Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi, che nel 2004 accompagnarono Afewerki a conoscere gli alpini a Trieste, mentre nel suo Paese faceva massacrare gli studenti) sono state intercettate nel deserto al confine tra Sudan e Libia da un gruppo di somali. Qui sono stati caricati a bordo di pick up armati di mitragliatrici e portati in un campo di prigionia – un vero e proprio “campo di concentramentosecondo il procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia – dove sono stati torturati con manganelli e scariche elettriche. Alcuni di loro, raccontano i migranti sopravvissuti, sono stati legati dai trafficanti con delle corde collegate tra piedi e collo, “in modo che anche il minimo movimento creava un principio di soffocamento”. Si tratta di campi illegali come quello di Agedabia, a sud di Bengasi o di Agadez (Niger) dove i migrati vengono letteralmente parcheggiati in attesa delle migliori condizioni – atmosferiche ed economiche – per continuare il viaggio.

I campi di concentramento del terzo millennio. In questi centri, le donne vengono violentate, quando non vengono date “in dono a gruppi paramilitari, armati di mitragliatori Ak-47”. “Una sera”, ha raccontato una giovane vittima delle violenze agli inquirenti italiani, “dopo essere stata allontanata dal mio gruppo sono stata costretta con la forza, dal somalo [Muhidin, ndr] e da due suoi uomini, ad andare fuori.

Scoperto il primo “carcere” della mafia, la tonnara di Santa Panagia (BlogLive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it il 9 novembre 2013

23 settembre 2011: 80 migranti di nazionalità egiziana sbarcano a Rutta e Ciauli, nel siracusano. Ventidue di loro verranno ritrovati dalla Polizia di Stato otto giorni dopo nella tonnara di Santa Panagia, territorio controllato dall’omonimo gruppo mafioso e dagli Attanasio, “non inseriti organicamente in cosa nostra” come si legge nella relazione del primo semestre 2012 della Direzione Distrettuale Antimafia. È la prima volta che la Polizia scopre un “carcere della mafia”.

Quei 22 migranti sono infatti sequestrati da un sodalizio italo-egiziano in attesa di saldare il loro debito di viaggio (“debt-bondage”, in gergo). Funziona così: una prima parte del viaggio si paga prima di partire, il resto una volta giunti a destinazione, saldando il tutto attraverso il sistema delle rimesse, sfruttando per esempio società apposite come la Western Union. Se i migranti non possono pagare vengono utilizzati come manovalanza nei settori dell’agricoltura o dell’edilizia o sfruttati in quello della prostituzione, mentre il debito rimanente viene traslato alla famiglia.

Se neanche i familiari riescono a coprire la somma, scatta la detenzione sotto la custodia di carcerieri fidati, come la coppia vicina ai clan di Cassibile e Avola scoperta lo scorso febbraio a fare la guardia ad un garage dove erano sequestrate 25 persone, tutte di nazionalità egiziana.

Alla tonnara la Polizia ci arriva per circostanze casuali: l’arresto di uno dei carcerieri a seguito di uno scippo e la fuga di due migranti carcerati, trovati a frugare nei cassonetti in cerca di cibo.

Il ritrovamento del “carcere” ha permesso inoltre la conferma di quanto gli investigatori avevano scoperto tra il 19 ed il 20 marzo 2011, quando la Guardia di Finanza aveva intercettato al largo della costa di Fondachello il trasbordo di 132 migranti egiziani da una nave-madre – modalità nota fin dagli anni Novanta, quando veniva utilizzata dagli scafisti provenienti dalla ex-Jugoslavia – alla “Fenice”, di proprietà di Massimo e Giuseppe Greco, affiliati alla cosca Brunetto di Fiumefreddo di Sicilia, alleati storici del clan catanese dei Santapaola.

Questo episodio permette di aprire una pista nuova nei rapporti tra mafie italiane e straniere: l’esistenza di un sodalizio italo-egiziano interno al traffico di esseri umani, in cui agli italiani spetta il compito di sostegno logistico ed assistenza a terra.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, emissari delle organizzazioni criminali – secondo gli investigatori non è possibile definire quella egiziana una vera e propria “mafia” strutturata – si recano nei villaggi egiziani prospettando la possibilità di arrivare in Italia e, da lì, nel resto d’Europa, sulla falsariga di quanto avviene con il sistema delle madame” nigeriane. Definiti i dettagli del viaggio, i migranti vengono privati di soldi e documenti ed inviati – nei modi che spesso le immagini televisive hanno mostrato – in Europa. Una volta sbarcati vengono poi portati nelle regioni del Nord Italia e, dopo una telefonata di conferma, la seconda parte del debito passa dalle famiglie dei migranti ai trafficanti.

La politica del land grabbing crea una crisi umanitaria globale (BlogLive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it il 4 novembre 2013

Uscire da una crisi generandone altre, anche più gravi. È questo, in sintesi, quanto avviene con il land grabbing, la politica di accaparramento delle terre portata avanti – soprattutto in Africa – dai Paesi sviluppati o in via di sviluppo per far fronte alla crisi economica. Una risposta che porta con sé la distruzione di interi ecosistemi sociali ed ambientali, migrazioni e violenza, in quella che in molti definiscono una nuova forma di colonialismo.

In questo sistema, evidenzia un dossier dell’associazione Re:Common – figlia della Campagna per la riforma della Banca Mondiale – a giocare un ruolo di primo piano c’è l’Italia, superata solo dalla Gran Bretagna tra quelli che il rapporto realizzato lo scorso anno da Giulia Franchi e Luca Manes definisce senza mezzi termini gli arraffaterre.

Jatropha: il nuovo corso del Made in Italy
Al centro degli affari italiani, soprattutto in Africa, la Jatropha Curcas, un arbusto velenoso considerato per anni “la nuova frontiera della sostenibilità”. I fautori del suo utilizzo, infatti, sostengono che la sua coltivazione non crei alcun tipo di ostacolo o pericolo per la sicurezza alimentare. I semi di questa pianta producono un olio che, pur non commestibile, può essere utilizzato come combustibile o trasformato in biodiesel. È questo il business che fa gola ai governi, Italia inclusa.

Negli anni varie ricerche hanno però ridimensionato il potere “sostenibile” della Jatropha, le cui aspettative di rendimento sono fortemente disattese per il forte uso di acqua, pesticidi e fertilizzanti per la coltivazione industriale. Un mercato dal segno spesso negativo influenzato anche dalla speculazione.

Inoltre, la coltivazione di questa pianta porta all’emissione di alti livelli di anidride carbonica – rendendo di fatto nulli risparmi economici e vantaggi ambientali – nonché alla violazione di diritti umani dei quali, però, ben poche tracce si trovano nei media, nonostante il land grabbing porti ad economie locali distrutte; comunità indigene sfollate nei campi di reinsediamento, arresti arbitrari, torture e governi che stringono accordi migliori con gli investitori stranieri che con le proprie popolazioni.

Chevron-Ecuador, a dicembre il caso davanti alla Corte de L’Aja (BlogLive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it il 30 ottobre 2013

9.510 milioni di dollari. È quanto dovrà pagare la Chevron-Texaco per il disastro ambientale perpetrato tra il 1964 ed il 1990 in Ecuador, che a fine anno dovrà presentare la documentazione contro la multinazionale alla Corte Penale Internazionale dell’Aja.

680.000 barili di greggio sversati nei fiumi, nella flora e nella fauna delle province amazzoniche di Orellana e Sucumbios, per un totale di 15.834 milioni di galloni di acqua tossica altamente cancerogena versata nell’ecosistema nonostante la Texaco – acquisita dalla Chevron nel 2001 ed oggi terza più grande impresa degli Stati Uniti -avesse la tecnologia adatta per evitare il disastro ambientale, una spessa membrana necessaria ad evitare che il petrolio estratto contaminasse l’ambiente, brevettata dalla stessa società.
In Ecuador vennero invece usati dei tubi di evacuazione, che drenavano le acque tossiche verso i fiumi, abbattendo così i costi.

Secondo il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, il disastro è superiore di ben 85 volte alla fuoriuscita di petrolio della British Petroleum nel Golfo del Messico.

Al danno ambientale vanno aggiunti gli effetti del disastro sulla popolazione, dove si registra una percentuale di malati di cancro tre volte superiore al resto del paese. Stessa percentuale registrata nei bambini di età compresa tra 0 e 4 anni affetti da leucemia. Nelle zone direttamente colpite, uno studio del 2008 definisce in 6 a 1 il rapporto tra cittadini malati e sani. Uno studio dell’Istituto della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Guayaquil ha evidenziato come in un raggio di 200 metri dalle installazioni petrolifere le donne registrino il 147% in più di aborti rispetto a chi vive in zone del territorio nazionale non contaminate.

I focolai epidemici rappresentano peraltro una delle poche possibilità concrete di individuare i pozzi. Fin dal 1972, infatti, la Texaco li copre, nascondendoli alla popolazione e ad eventuali indagini. Secondo la Corte di Sucumbios, la cifra ufficiale è di 356 pozzi, ciascuno dei quali collegati a quattro o cinque piscine per eliminare i rifiuti tossici, per un totale di 820 buche. 157 quelle coperte attraverso bastoni, terra e cemento dalla Chevron. Un procedimento che permette ancora oggi al petrolio di fuoriuscire e continuare a contaminare.

Per qualche anno, la multinazionale ha usato come bracciante anche Pablo Fajardo, oggi principale avvocato dei querelanti in Ecuador, laureatosi nelle aule del tribunale prima che in quelle universitarie. Quando è iniziata la causa nel suo paese, la Chevron si è presentata in aula con ben otto avvocati, pagandone in totale 39 solo per questo procedimento. “Io avevo un vantaggio. Non dovevo inventarmi niente. Dovevo solo raccontare una storia“, raccontava nel 2011 Fajardo a Pablo Ximénez de Sandoval del quotidiano spagnolo El País (qui la traduzione di Beatrice Ruscio per Peacelink).

Nonostante questo, però, la causa giudiziaria va avanti tra singolari giustificazioni della multinazionale – passata nel corso degli anni a sostenere che il petrolio non inquini e sia addirittura biodegradabile ad imputare il cancro alla scarsa igiene degli indigeni – e veri e propri tentativi di mettere a tacere i querelanti, come la richiesta di applicare la RICO (Racketeer Influenced and Corruption Organization) una legge federale statunitense contro il crimine organizzato richiesta dalla Chevron-Texaco in quanto, a suo parere, i malati farebbero parte di una associazione criminaleformatasi allo scopo di estorcergli denaro.

Inoltre, a fine aprile 2003, otto giorni prima dell’inizio del processo a Sucumbios che ha dato origine alla storica sentenza di colpevolezza, viene torturato ed ucciso William Fajardo Mendoza, fratello di Pablo, il quale ha sempre ripetuto di non poter affermare con certezza che dietro a ciò ci sia la Chevron.

Lewis Kaplan, giudice del Distretto Sud di New York – dove nel 1993 la Texaco venne querelata per la prima volta – ha dichiarato non applicabile la sentenza negli Stati Uniti finché non avrà deciso sulla competenza dei tribunali. L’indennizzo però può essere riscosso in uno qualsiasi dei 50 paesi dove la multinazionale investe e possiede beni. In attesa del nuovo procedimento che si aprirà davanti ai giudici de L’Aja a dicembre.

I cattivi maestri del Messico


(foto: Reporte Indigo)

Ciudad de México (D.F., Messico) - Ni un paso atrás. Nonostante Ingrid e Manuel, le due tempeste che hanno devastato un'ampia parte della República messicana, non arretra di un millimetro la protesta dei maestri della Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación (CNTE) contro la Ley General del Servicio Profesional Docente.
Da circa due mesi insegnanti, studenti, genitori con figli in età scolare occupano piazze e strade per protestare contro la riforma neoliberista dell'istruzione pubblica e del lavoro dei docenti travestita da riforma educativa, alla quale si aggiunge la protesta contro la privatizzazione di uno dei pochi asset strategici rimasti al paese: l'industria petrolifera Pemex.

La “malariforma”
Mentre i giovani dei tre partiti principali – il Partido Revolucionario Institucional oggi al governo, il Partido de la Revolución Democrática ed il Partido de Acción Nacionalchiedono il rinnovamento della classe dirigente, i loro leader si uniscono nel “Patto per il Messico”, voluto per una nuova “transizione democratica” del paese. Parte fondamentale di questa alleanza transpartitica, la riforma dell'istruzione è stata imbastita fin dal contestato arrivo di Enrique Peña Nieto al governo a dicembre, con la modifica degli articoli costituzionali riguardanti l'educazione (il 3 ed il 73) già conclusa prima di Natale.
Nel concreto, la riforma vede i docenti diventare “soggetti amministrativi” sottoposti ad una valutazione che, qualora risultasse negativa per tre volte, vedrebbe la riassegnazione ad altra funzione non docente. In questo processo, però, non sono stati previsti spazi per la partecipazione di sindacati e associazioni dei docenti né per il contraddittorio in caso di riassegnazione. In più scompare il diritto di inamovibilità per chi decide di svolgere un'attività che gli impedisca di insegnare, tra le quali l'attività sindacale. Per la valutazione è stata poi pensata una apposita istituzione, l'Istituto Nazionale per la Valutazione dell'Educazione (INEE, nella sua sigla in spagnolo) con il quale le decisioni in merito a promozioni, permanenza nel posto di lavoro e questioni legate al reddito dei docenti passano al Ministero della Pubblica istruzione federale, scavalcando de facto l'autonomia degli Stati federali.

Insieme ai maestri, ad occupare scuole e strade ci sono anche i genitori degli studenti, soggetti anche loro alla riforma, che li obbligherà a «pagare parte delle spese e tutti i costi dei servizi» delle scuole, tra le quali luce, acqua, tasse di proprietà, materiale didattico. Ciò costituisce un pesante aggravio per le tasche delle famiglie, come per i genitori degli alunni della Secundaria número 31 “Independencia”, che si sono visti recapitare, tra le altre, una bolletta bimestrale di circa 500 euro per la luce, una di 2.200 euro per l'acqua per un totale di circa 6.700 euro.

Ad ottobre molti docenti hanno abbandonato i piantonamenti per tornare nelle regioni di appartenenza, portando a 26 (su 32) gli Stati dove si registrano le proteste e facendo scendere in piazza anche quei maestri che all'inizio erano rimasti in disparte. Molti di loro preferirebbero stare in classe «piuttosto che accampati sotto il Monumento a la Revolución» di Ciudad de México, ha raccontato una maestra dello stato di Veracruz – uno degli stati più poveri dove più forti sono le proteste - intervistata da Desinformémonos.org «ma questa lotta è a beneficio di tutti e vinceremo». Una lotta che non è solo contro le riforme previste dal governo, ma contro un sistema che lo scrittore Paco Ignacio Taibo II (nelle scorse settimane allo Zócalo, la piazza principale di Ciudad de México, a regalare libri ai poliziotti) ha definito come un «avanzamento di un capitalismo selvaggio, neoliberale, al quale non importa un accidente della nazione e dei cittadini. È solo la ricerca del bottino».

Shutdown America: una perturbazione che potrebbe colpire 48 milioni di americani

foto: darkroom.baltimoresun.com

Washington (Stati Uniti) - Secondo il Segretario di Stato John Kerry sarebbe solo una "perturbazione momentanea" lo Shutdown, il provvedimento di tagli ai servizi non necessari imposto dal governo statunitense. Per quanto momentaneo il provvedimento avrà comunque un «fortissimo impatto reale sulla vita quotidiana di tanti americani», come dichiarava un esasperato Barack Obama nei giorni scorsi.

Al centro della guerra tra il Senato a maggioranza democratica e la Camera, guidata dai repubblicani, c'è l'Obamacare, che questi ultimi vorrebbero sostanzialmente eliminare. La condizione lanciata al governo è, d'altronde, chiara: rinviare di un anno questa riforma – che i democratici danno ormai come legge intoccabile – è la condizione imprescindibile per l'approvazione del budget del nuovo anno fiscale, iniziato il primo ottobre.

Stando alle stime, tagliare i “servizi non essenziali” significa la sospensione dal lavoro per almeno 700.000 dipendenti pubblici, tra cui dipendenti del Pentagono o rangers che operano nei parchi nazionali. A rischio anche le pensioni ed i sussidi di disabilità per i veterani, che dopo aver servito la Patria potrebbero vedersi non ricambiato il favore.
Inoltre, tra le attività che il governo federale non sarebbe più in grado di assicurare, il pagamento agli appaltatori del governo, che potrebbero far “pesare” la cosa al momento di rifinanziare la prossima campagna elettorale. È comunque difficile che uno stallo di qualche giorno possa creare danni rilevanti a società come la Lockheed Martin (principale contractor nel 2012 con circa 40.000.000 di dollari) o la Boing (seconda classificata con poco meno di 30.000.000) o la Raytheon Company, che con poco meno di 15.000.000 di dollari è la terza società che verrebbe danneggiata dal prolungarsi dello Shutdown (la lista completa è stata pubblicata da OpenSecret.org)

A pagare il prezzo più alto, ça va sans dire, saranno i cittadini comuni. A rischio infatti ci sarebbero anche i “Food stamps”, i buoni alimentari che rappresentano l'unica forma di salvataggio per circa 48 milioni di americani, soprattutto bambini e disabili. Taglio che – come scriveva ieri Monica Di Sisto su Comune-Info «obbligherà gli adulti tra 18 e 50 anni senza figli minori a trovarsi un lavoro o ad inserirsi in un programma di formazione per mantenere il beneficio, di cui potranno godere, ad ogni modo, solo per tre mesi e solo sottoponendosi a test antidroga e alcol». Test che invece non sfioreranno le società destinatarie di una parte del Supplemental Nutritional Assistance Program (SNAP) nel quale sono inseriti i buoni alimentari e che rispondono a nomi come quello della Coca-Cola, della Kraft, della JP Morgan a cui il “Farm Bill Budget” destinava – nel 2008 – il 68% dei fondi.

Due muri destinati a collidere? Da un lato la principale – per alcuni l'unica – medaglia attualmente appuntabile al petto di Obama, dall'altra la spinta delle forze più estreme dei repubblicani, soprattutto dei Tea Party.
Il rischio che gli Stati Uniti d'America espongano fuori dalla Casa Bianca il cartello “Default” - che porterebbe al declassamento delle agenzie di rating, al crollo del valore del dollaro ed all'esplosione dei tassi di interesse – è più che concreto.

Q&A: US shutdown: a new guide for non-Americans (in inglese): http://www.theguardian.com/world/2013/sep/30/us-shutdown-explainer-non-americans

Questo articolo lo trovate anche qui:
http://www.infooggi.it/articolo/shutdown-america-una-perturbazione-che-potrebbe-colpire-48-milioni-di-americani/50571/

The Coltan Corporation of War


foto:coltanproblemas.wix.com

La lotta contro il potere è la lotta della memoria contro la dimenticanza.
[Milan Kundera - Il libro del riso e dell'oblio]

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Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) - Obbiettivo Damasco. È questo, oggi, il primo punto dell'agenda di media, governi e settore militare. Ma se quell'obbiettivo lo spostiamo - lungo la linea di quei "dieci centimetri di distanza dallo schermo televisivo" di cui parlava Bernardo Valli - ci rendiamo conto che, ad oggi, esiste una guerra tanto importante quanto volutamente ignorata, fatta di gruppi terroristici (pudicamente chiamati "ribelli") finanziati e guidati da governi e imprese nazionali straniere nel disinteresse quasi completo della sempre più inutile "comunità internazionale". Una guerra che tocca tutti: pacifisti, guerrafondai e disinteressati talmente importante da essere la base della società moderna: la guerra per il coltan.

Rubini dalla Birmania (300.000.000 di dollari guadagnati dalla giunta militare nel solo 2006 nonostante l'embargo); coltan dalla Repubblica Democratica del Congo (con un fiorente mercato illegale che si sta sviluppando tra Colombia, Brasile e Venezuela); bauxite - elemento base dell'alluminio - dalla Guinea; smeraldi dalla Colombia e litio - il "petrolio del futuro" - dall'Afghanistan. Sono questi i nuovi "diamanti insanguinati", minerali il cui mercato si basa sullo sfruttamento, su rapporti economici più o meno legali con regimi non-democratici o sul diretto finanziamento di conflitti ormai più che decennali. Tra tutti, ruolo paradigmatico spetta alla Repubblica Democratica del Congo, uno dei Paesi più ricchi di risorse naturali al mondo saccheggiato fin dai tempi di Leopoldo II (1885, dallo "Stato libero del Congo" il re belga preleva avorio, caucciù, olio di palma, cotone). Ad essere colpita principalmente è la regione orientale del Kivu, passata dall'essere il deposito del paese con i suoi rifornimenti di carne e verdure per Kinshasa (distante 1500 chilometri) a granaio degli sfruttatori, che hanno trovato in Goma – capoluogo della regione del Nord Kivu - un perfetto centro di raccolta ed esportazione. Dei cinquanta conflitti attivi in Africa nel 2001, circa il 25% può essere inserito tra le "guerre per le risorse" che, come evidenziato dalla giornalista ed attivista britannica Katharine Ainger «portano beneficio solo a piccole oligarchie, locali o internazionali, a uomini d'affari ed élite internazionali».

«In questo momento ci sono più dipendenti da telefono cellulare o internet che da eroina, cocaina, alcol o tabacco. Ed è successo in meno di venti anni. Prova solo ad immaginare un mondo senza cellulari né computer». A dirlo è Peter Corckenham, fittizio presidente della altrettanto fittizia multinazionale statunitense Dall&Houston (dietro ai cui nomi in molti vedono l'ombra reale della Halliburton e dell'ex vicepresidente statunitense Dick Cheney) inventato dal giornalista e scrittore spagnolo Alberto Vázquez-Figueroa in "Por mil millones de dolares" e ripreso poi nel successivo "Coltan" che pone al centro, attraverso la finzione di un thriller narrativo, proprio il minerale su cui ruota quasi interamente il mondo moderno.

In un quarto dei circa 50 conflitti attivi nel 2001, le materie prime hanno giocato un ruolo chiave.
(Katherine Ainger)

Cellulari, computer portatili, elettronica per auto ma anche - per il suo contenuto radioattivo e di uranio - protesi per anca, ferri chirurgici, strumentazione per laboratori chimici, reattori nucleari e parti di missili sono solo alcune delle tecnologie che non esisterebbero senza il tantalio, un metallo resistente al calore, ottimo conduttore di corrente e resistente a quasi tutti gli acidi la cui polvere è il vero oggetto dei desideri delle società che utilizzano il coltan (il cui nome deriva dal composto tra la tantalite nella quale il tantalio è contenuto e la columbite) per realizzare condensatori ad elevato tasso di risparmio energetico. Un piccolo passo contro la crisi energetica che corrisponde ad un grande passo verso lo sfruttamento e la distruzione dell'ambiente.

Il suo valore dipende dalla percentuale in tantalite (di solito tra il 20 ed il 40%) e dal suo tenore in ossido di tantalio (solitamente tra il 10 ed il 60%). Nel 1999 il prezzo di questo minerale variava tra i 7 ed i 9 dollari al chilo. A gennaio 2000 era già salito ad un importo che variava tra i 65 ed i 90 dollari. A fine 2000, in concomitanza con lo sviluppo delle nuove tecnologie di massa (cellulari e Playstation 2) il coltan veniva venduto a 835 dollari al chilogrammo, tornando ad aggirarsi sui 90 dollari ad ottobre 2001.

L'occhio cieco della "Pubblica Opinione Organizzata".
La firma dei contratti delle grandi multinazionali però è possibile solo grazie alle migliaia di contadini che abbandonano le proprie terre, ai prigionieri a cui viene promesso uno sconto di pena ed ai tantissimi bambini - tra i 5.000 ed i 6.000 secondo il programma di aiuto dell'ong Save the Children - che formano il primo gradino della piramide dello sfruttamento commerciale.
Sono proprio questi ultimi a subire maggiormente gli effetti di questo sistema essendo nei fatti i veri "minatori". I loro corpi permettono di potersi muovere meglio degli adulti nei fori scavati nelle colline - vere e proprie miniere a cielo aperto - abbattendo i già bassissimi costi di estrazione per le società, che li pagano circa 2 euro a settimana rivendendo il coltan estratto a poco più di 450 dollari al chilo. Questo però non sembra bastare all'opinione pubblica occidentale concentrata sui bambini vittime delle armi chimiche del regime di Bashar al-Assad (le cui immagini sono state in alcuni casi prelevate direttamente dalla guerra in Iraq) ma che non rivolge la stessa indignazione e condivisione verso le piccole vittime del turismo sessuale occidentale o di sfruttamento minorile, nel lavoro come nella guerra. Anche l'indignazione è diventata un fenomeno mediatico.

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The Whistleblower

Nella foto: la vera Katryn Bolkovac
fonte: bolkovac.com

Hasan Nuhanović ha trovato giustizia. Questa mattina la Corte suprema olandese - ribaltando quanto deciso dalla Corte d'appello due anni fa - ha definito la responsabilità dei Paesi Bassi per l'assassinio del padre, della madre e del fratello minore dell'ex interprete per i Caschi blu olandesi (ne avevamo parlato più approfonditamente qui: Srebrenica, se il genocidio si processa da una parte sola), che vide - letteralmente - chiudere la porta della base Onu di Potočari in faccia ai propri familiari, lasciandoli così nelle mani del generale Ratko Mladić e rendendosi correi dell'omicidio di 8.372 persone (più di diecimila secondo le associazioni dei familiari) in quello che è passato alla storia come il più importante genocidio avvenuto in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: il massacro di Srebrenica.
Per i familiari delle vittime sarà ora possibile chiedere risarcimento all'Olanda per quanto accadde, in una "operazione umanitaria" che vide anche il fiorire di traffici di droga, carburante e prostituzione proprio grazie al contingente olandese.

Traffici che ieri erano al centro della serata di Sky Cinema Cult, che ha proposto The Whistleblower, film del 2010 diretto da Larysa Condracki con protagonista Rachel Weisz (nel cast anche Vanessa Redgrave e Monica Bellucci) che vanta un premio nobel come attrice non protagonista nel 2006 per un'altra storia vera riproposta in chiave cinematografica: le sperimentazioni di farmaci illegali in Africa da parte delle case farmaceutiche in "The Constant Gardener - La cospirazione", uscito nel 2005 per la regia di Fernando Meirelles.

Al centro di "The Whistleblower" Kathryn Bolkovac (nella foto), poliziotta del Nebraska che si ritrova a far parte del contingente Onu in Bosnia per guadagnare il denaro necessario per chiedere la custodia della figlia, affidata all'ex marito.
Qui si ritrova, in quella parte dimenticata della cronaca reale dei fatti, a tentare di eradicare un traffico di minorenni in cui sono coinvolti la polizia locale e gli uomini delle Nazioni Unite, spesso coinvolti in casi analoghi, come per il traffico "oro per armi" del contingente Monuc nella Repubblica Democratica del Congo, anno 2005.

Ma questa, come direbbe Carlo Lucarelli, è un'altra storia

"Non cerco uno scandalo. Faccio solo il mio lavoro"
[Kathryn Bolkovac/Rachel Wesz]

F2i, i nomi di 37 gestori dell'attività strategica italiana non sono noti. Perché?

foto: f2isgr.it

Roma - Necessità di trasparenza. Si chiede di rendere pubblici gli stipendi dei ministri, dei rettori delle università, dei manager delle società partecipate ma non si dice nulla su 37 nomi occulti che gestiscono e finanziano l'attività strategica del nostro Paese.

17 luglio 2013: al Quirinale, per un incontro con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, arriva Vito Gamberale, 66 anni, amministratore di F2i, Fondi italiani per le infrastrutture con un passato in Telecom (direttore generale), Sip (amministratore delegato), gruppo Benetton ed Eni.
Il fondo, una società di gestione del risparmio (sgr), con una disponibilità di circa 2 miliardi di euro, detiene partecipazioni – e dunque influenza – in aziende attive in molti dei principali settori strategici italiani, tra cui rete idrica, gas, aeroporti, istituti bancari e telecomunicazioni. Settori, questi, che mentre si svolgeva l'incontro al Quirinale erano al centro del dibattito alla Camera dei Deputati, racchiusi nel c.d. “Decreto del fare” del quale, evidentemente, il Fondo era spettatore più che interessato.

In ambito bancario, quote di partecipazioni di F2i si trovano in Intesa-Sanpaolo; Unicredit, Monte dei Paschi di Siena. Tra le società commerciali si trovano quote del fondo in Enel Rete Gas, Infracris, Mediterranea delle Acque, Metroweb, acquistata a maggio 2011 per 436 milioni di euro, che gestisce la maggiore rete di fibra ottica d'Europa in consorzio con Intesa Sanpaolo – controllata e socia – amministrata fino a novembre 2011 da quel Corrado Passera che è stato ministro proprio alle infrastrutture. Il presidente di Metroweb è Franco Bassanini, più volte ministro della Repubblica, che è anche presidente di Cassa depositi e prestiti (Cdp) di cui F2i è, dal 2007, una delle diramazioni. L'azionista di maggioranza della Cassa con il 70% è direttamente il ministero del Tesoro.

Forti, per F2i, sono anche gli investimenti nel settore autostrade. Tra le partecipate, attraverso la holding Infracis, partecipata al 26%, l'Autostrada del Brennero (A22) e la Brescia-Verona-Vicenza-Padova (qui l'elenco completo). La Cdp nel 2011 ha concesso 765 milioni di euro alla BreBeMi per la costruzione dell'autostrada tra Brescia, Treviglio e Milano.
Un interesse, quello autostradale, che ha una duplice valenza: se da un lato si persegue l'interesse pubblico, dall'altro fondo e Cdp perseguono un interesse più che privato. Nel consiglio di indirizzo di quest'ultimo, infatti, siede Carlo Colaiacovo, amministratore delegato di Colacem S.p.A., terzo produttore italiano di cemento e capofila del gruppo Financo, holding finanziaria di famiglia.

Gli interrogativi irrisolti dell'omicidio di Iendi Iannelli e Stefano Siringo

foto: strada Maidan Shar-Bamyan;
fonte: www.coopitafghanistan.org

Kabul (Afghanistan) - Ricapitoliamo: Iendi Iannelli e Stefano Siringo sono due ragazzi romani, rispettivamente di 26 e 32 anni, che nel 2006 arrivano in Afghanistan per lavorare all'interno del “Programma Giustizia”, il progetto portato avanti dalla cooperazione italiana per costruire il sistema giudiziario del paese “liberato”. Stefano arriva a Kabul come impiegato del ministero degli Esteri, contratto di quattro mesi, rinnovabile, ed un più che probabile spostamento definitivo in America Latina – sempre grazie alla Farnesina – dove lo aspetta Giulia, la sua fidanzata cubana che non vuole spostarsi dal suo paese. Iendi Iannelli, ex pilone del Torvaianica Rugby cresciuto in Sudafrica, arriva a Kabul come amministratore della International Development Law Organization (Idlo), l'organizzazione che gestisce gran parte dei fondi italiani destinati alla cooperazione, dove si occupa per lo più delle spese locali in quanto i cordoni della borsa rimangono alla sede centrale dell'organizzazione, a Roma.

Vengono rinvenuti privi di vita sul letto della camera di Iannelli presso la Guest House Idlo a Kabul il 16 febbraio 2006. Le prime ipotesi parlano di avvelenamento da monossido di carbonio (versione dell'ambasciatore Sequi) proveniente da una stufa a gas che in realtà è elettrica, dopodiché la causa della morte passa all'overdose o, come riferiscono le autopsie «intossicazione acuta da eroina». Nel corpo di entrambi i ragazzi vengono infatti ritrovate tracce di eroina pura all'89%. Un grado di purezza troppo alto per essere assunto anche dai tossicodipendenti, cosa che i due ragazzi non sono, come raccontano l'assenza di tracce fisiche – come i fori di siringa – e tutti i loro conoscenti. Tutti tranne uno. Ivano, il fratello di Iendi, è infatti l'unico a parlare apertamente di un fratello tossicodipendente.

Perché questa insistenza? Si scopre – in realtà non è un mistero – che Ivano lavora all'United Nation Office for Project Service (Unops), una delle due organizzazioni su cui Iendi stava indagando. Analizzando i conti della Idlo, infatti, si era reso conto di un giro di false fatturazioni tra le due organizzazioni per il valore di 1,5 milioni di dollari, come confermato anche dal suo successore, Rustam Ergashev, da Edgardo Buscaglia che dirige il lavoro di Iendi e, tra gli altri, da Antonella Deledda, ex vice coordinatrice dell'ufficio di giustizia a Kabul, che a Roma trova le prove dell'esistenza di due “protocolli” tra Idlo e Unops – rispettivamente di 900.000, 400-500.000 dollari – che accreditano l'ipotesi investigativa di Iendi, così come confermerà anche la giudice per le indagini preliminari, Rosalba Liso, che si è occupata del caso per la Procura della Repubblica di Roma.

Caso Iannelli-Siringo: che fine hanno fatto i soldi della cooperazione italo-afghana?

foto: afghanistan.cooperazione.esteri.it

Kabul (Afghanistan) - Che fine hanno fatto i soldi della cooperazione occidentale in Afghanistan? Una parte di quei 290 miliardi – lo ha denunciato l'ex capogruppo in commissione Difesa Augusto Di Stanislao (qui l'intervista che ci ha rilasciato) – va a finire nelle tasche dei signori della guerra dell'una e dell'altra parte del fronte (come i soldi utilizzati dal governo italiano per “comprarsi” la pace con i talebani del distretto di Sarobi), un'altra parte – tra il 6 ed il 20 per cento della somma disponibile, secondo una stima dell'istituto di ricerca “CorpWatch” – si perde nei passaggi interni alle organizzazioni non governative coinvolte nei progetti di ricostruzione.

Iendi Iannelli e Stefano Siringo lavoravano proprio per uno di questi progetti, il più importante della cooperazione italiana in Afghanistan: il cosiddetto “Programma Giustizia” al quale – tra il 2002 ed il 2010 - il nostro Paese ha destinato 81 milioni di dollari destinati alla riorganizzazione del sistema giudiziario afghano.
Tra queste organizzazioni c'è la International Development Law Organization (Idlo), agenzia intergovernativa riferibile alle Nazioni Unite, sede centrale in viale Vaticano 106 a Roma e uffici in Afghanistan, Kenya, Kirghizistan, Sud Sudan, Somalia e Tajikistan. La sua attività principale è aiutare i Paesi nella ricostruzione del sistema giuridico-giudiziario attraverso la fornitura di competenze legali, strumenti e professionisti, come i magistrati messicani Samuel Gonzalez Ruiz ed Edgardo Buscaglia, incaricati dall'organizzazione di formare i pubblici ministeri del nuovo Afghanistan. È dalle casse della Idlo che passa la maggior parte dei fondi della nostra cooperazione nel progetto. Con una parte del denaro ricevuto, la Idlo pagava i servizi – acquisti, sicurezza e logistica – dei quali non poteva occuparsi direttamente e che erano invece appaltati allo United Nation Office for Project Service (Unops), organizzazione che supporta le Nazioni Unite negli aspetti logistici di operazione umanitarie, di pace e di sviluppo anche attraverso la costruzione di strutture sanitarie o la collaborazione alla riforma dei sistemi giudiziari e di sicurezza.
Le decisioni, però, rimangono appannaggio degli uffici di Roma, tanto che – è lo stesso Buscaglia a raccontarlo nella sua deposizione del 28 maggio 2012 - negli uffici di Kabul non sanno neanche quanti soldi hanno realmente.

È proprio per la possibilità di accedere ai conti della Idlo che Iendi Iannelli scopre quello che poi sarà il movente dell'omicidio: un giro di false fatturazioni tra le due organizzazioni, uno dei sistemi più noti per creare fondi in “nero”

Distrazione di fondi dalla cooperazione italo-afghana: Iannelli e Siringo uccisi per averlo scoperto

"Io pretendo che la storia giudiziaria nel mio Paese abbia i "punto" e gli "a capo". E non gli "omissis""
[Marco Paolini]

Stefano Siringo (a sinistra) e Iendi Iannelli (a destra);
foto: neversleep.it

Kabul (Afghanistan) - Milioni della cooperazione italiana scomparsi, due morti ed una verità che non arriva dopo anni di carte e procedimenti giudiziari. No, non è la Somalia del 1994, della “vacanza” di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ma l'Afghanistan degli 81 milioni di euro spesi tra il 2002 ed il 2010 per il “Programma Giustizia”, di Iendi Iannelli e Stefano Siringo che proprio in quel programma – volto alla ricostruzione del sistema giudiziario afghano – erano stati chiamati a lavorare finché non sono stati ritrovati morti, a Kabul, il 16 febbraio 2006.
In entrambi i casi ad uccidere è stata una domanda: che fine hanno fatto i soldi della cooperazione italiana?

Il giudice per le indagini preliminari che si è occupata del caso – Rosalba Liso, la stessa del caso di Stefano Cucchi – ha racchiuso in un “purtroppo” l'impossibilità di arrivare ad una verità giudiziaria sulla morte, scrivendo nel suo decreto di archiviazione di quell'«omicidio volontario del quale, purtroppo, è rimasto ignoto l'autore o gli autori». «Quel che rimane certo», si legge nel documento, «è che la morte dei due giovani merita chiarezza anche in virtù della necessità che la di loro memoria possa rimanere cristallina».

La scena del crimine per la droga sbagliata. Nei corpi di Iendi e Stefano vengono trovate tracce di eroina, talmente pura – all'89% - da far desistere persino un tossicodipendente in forte crisi di astinenza, a maggior ragione due ragazzi che nemmeno ne facevano uso.
I loro fisici, inoltre, portano una ulteriore conferma al fatto che i due siano stati «intossicati» con la droga da una mano esterna: Stefano, 32 anni, era infatti alto 168 centimetri per 66 chilogrammi; Iendi – ex pilone del Torvaianica Rugby – era invece alto 185 centimetri e pesava più del doppio di Stefano. La reazione fisica all'iniezione sarebbe stata diversa, e nessuno dei due avrebbe avuto il tempo materiale per sistemarsi sul letto, come invece sono stati ritrovati nella camera della Guest House dove Iannelli alloggiava.

Fin da quando i due vengono ritrovati, la mattina del 16 febbraio, si capisce che qualcosa non va. La scena del crimine, in qualche modo, si scontra con la personalità dei due ragazzi. Chi li ha conosciuti, come si legge nelle deposizioni rilasciate al pubblico ministero Luca Palamara, ha confermato con forza che nessuno dei due facesse uso di sostanze stupefacenti, nonostante queste siano state ritrovate in quantità notevole in tutta la stanza. “Piste” di eroina vengono infatti ritrovate sul televisore, su uno stipite, su un pacchetto di carta stagnola su un comodino e su un altro pacchetto posto dall'altro lato della stanza.

"Voglio la verità sull'omicidio di Iendi Iannelli e Stefano". Intervista a Barbara Siringo

foto: profilo personale di Barbara Siringo; fonte: facebook

Roma - Nelle scorse settimane abbiamo iniziato a parlare del ruolo italiano in Afghanistan, svelando sia un'attività militare – come risulta dai cables di Wikileaks – ben più ampia di quanto ci è sempre stato raccontato che il nostro ruolo all'interno della cooperazione internazionale.
In quest'ultimo ambito, in un tragitto che collega idealmente l'Afghanistan con la Somalia della metà degli anni Novanta, dei rifiuti tossici e degli omicidi di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Vincenzo Li Causi, la domanda da porsi è la stessa che portò la giornalista del Tg3 a Mogadiscio: che fine hanno fatto i soldi della cooperazione italiana?

A questa domanda hanno tentato di rispondere due ragazzi romani, Iendi Iannelli e Stefano Siringo, arrivati in Afghanistan nell'ambito del “Progetto Giustizia” - il piano di ricostruzione del sistema giudiziario afghano - e trovati morti nella loro camera alla Guest House di Kabul il 16 febbraio 2006.
Ne abbiamo parlato con Barbara (nella foto), sorella di Stefano che da quel giorno si batte affinché la verità sull'omicidio – di cui parleremo approfonditamente nei prossimi giorni – venga chiarita.

Partirei innanzitutto parlando di Stefano: chi era e perché era andato in Afghanistan?
Stefano era la persona più vitale che io abbia mai conosciuto! Era pieno di interessi e sempre circondato da amici, sempre allegro e pronto allo scherzo, abituato a non abbattersi mai anche di fronte alle grandi prove che nella sua pur breve vita si è trovato ad affrontare. Nel 2004 l’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini (si conoscevano perché abitavano nello stesso condominio), informandosi sui suoi studi (gli mancavano pochi esami alla laurea in legge) e sui suoi progetti, gli propose un colloquio al Dipartimento della Cooperazione Internazionale per un’eventuale collaborazione all’estero.
Stefano adorava viaggiare, non come semplice turista ma spinto dalla curiosità di conoscere altri popoli, le loro condizioni di vita, le loro usanze ed abitudini; accettò con entusiasmo la proposta, ne era lusingato. Fu così che – nel marzo 2005 - gli venne assegnata una prima missione a Kabul come logista per il Progetto Giustizia, che si occupava di sostenere la creazione di un impianto giudiziario indipendente in Afghanistan. La missione durava 4 mesi ma, poiché il suo lavoro venne molto apprezzato, l’ambasciatrice Brunetti (titolare del progetto) ne richiese per ben due volte il rinnovo che venne concesso dal Dipartimento. Quando morì era alla sua terza missione a Kabul, sarebbe stata l’ultima ed il suo rientro era previsto per maggio: dal Ministero gli avevano prospettato la possibilità di lavorare in America Latina, paese che Stefano adorava e dove aveva deciso di andare a vivere.

Per una "controstoria" dell'invasione in Afghanistan. Intervista ad Enrico Piovesana

foto: articolo11.net

Kabul (Afghanistan) - La guerra in Afghanistan ha avuto - e continuerà ad avere con la nuova missione "Resolute Support" - cause ben diverse da quelle che le "diplomazie mediatico-militari" hanno raccontato in questi dodici anni. Fronteggiare i talebani non significava democratizzare il Paese né combattere il terrorismo. La guerra in Afghanistan è stata, in buona sostanza, una gigantesca "guerra di mercato": quella per il controllo dell'oppio. Ne abbiamo parlato con Enrico Piovesana, (nella foto) giornalista professionista e reporter di guerra specializzato in armi e conflitti.

Partiamo da quello che ormai sembra essere un dato di fatto: per il contingente occidentale in Afghanistan il problema dell'oppio non è eradicarlo.
In Afghanistan, americani e alleati hanno scelto fin dal 2001 di non immischiarsi nelle campagne di eradicazione delle coltivazioni di papavero, lasciando che se ne occupasse la polizia afgana. “Non distruggeremo le piantagioni di papavero - spiegherà alla stampa internazionale l’assistente strategico del generale americano Stanley McChrystal - perché non possiamo colpire la fonte di sussistenza della popolazione di cui vogliamo conquistare la fiducia”. Questa semplice verità verrà pubblicamente affermata più volte nel corso degli anni dai vertici militari e politici di Washington. 
Questo “non interventismo” - ben rappresentato dalle tante immagini dei soldati occidentali in pattuglia tra i campi di papavero, magari fermi a chiacchiere con i contadini intenti a raccogliere oppio - è stato criticato per la sua ovvia ricaduta negativa sul contrasto alla produzione di oppio ed eroina. A smorzare queste le critiche, però, c’è sempre stata l’attenuante dall’aspetto ‘umanitario’ di tale decisione, vale a dire il riguardo - per quanto strumentale - nei confronti delle condizioni di vita della popolazione. 

Chi trae vantaggio da questa politica di “non interventismo”?
Questo laissez-faire non si limita ai contadini che sopravvivono grazie all’oppio, ma riguarda anche i signori della droga che gestiscono il narcobusiness afgano. Alla fine del 2001 questi warlord – reclutati dalla CIA per attaccare i talebani, come ha scritto lo storico americano Alfred McCoy - guidavano la resistenza armata anti-talebana nota come Alleanza del Nord, un fronte armato multietnico dominato dai tagichi del maresciallo Mohammed Qasim Fahim e dagli uzbechi del generale Abdul Rashid Dostum.

Cina, 4 dirigenti della GlaxoSmithKline arrestati per corruzione

foto: businessinsider.com

Shanghai (Cina) – Quattro alti dirigenti dell'ufficio cinese della GlaxoSmithKline (GSK) sono stati arrestati due giorni fa dalle autorità cinesi con l'accusa di aver corrotto funzionari pubblici e medici per convincerli a gonfiare i prezzi di vendita dei farmaci in Cina. In manette sono finiti Liang Hong, responsabile della direzione operativa; Zhang Guowei, vice presidente e direttore delle risorse umane; Zhao Hongyan, direttore degli affari legali e Hang Hong, direttore degli affari economici. Un altra ventina di funzionari sarebbero inoltre in stato di fermo.

Secondo quanto ricostruito da Gao Feng, capo dell'unità contro i crimini economici del ministero della Pubblica sicurezza, fin dal 2007 la multinazionale britannica avrebbe pagato tangenti per un totale di 3 miliardi di yuan (al cambio di oggi poco più di 372 milioni di euro) attraverso una rete di circa 700 agenzie di viaggio e di consulenza fittizie utilizzate per corrompere il personale medico, ai quali si aggiungono casi di «corruzione sessuale». L'inchiesta è partita proprio dai bilanci di una di queste agenzie, la Shanghai Linjiang International Travel Service, che nel giro di qualche anno ha visto incrementare il proprio fatturato di centinaia di milioni di yuan, insospettendo così gli inquirenti, che vedono in questo incremento la creazione di fondi neri necessari alla corruzione, versati ai medici attraverso carte di credito fornite dall'azienda.
Mark Reilly, capo della divisione cinese di GSK, avrebbe lasciato il paese il 27 giugno scorso.

Nelle scorse settimane, secondo quanto riferito dal ministero, già una ventina di impiegati locali del colosso farmaceutico avrebbero ammesso il pagamento di tangenti e casi di frode fiscale. L'alto costo dei medicinali nel Paese, dicono gli inquirenti, si spiegherebbe proprio con l'inserimento nel prezzo del costo della corruzione.

Pur dichiarando la completa estraneità alle accuse e declinando eventuali «comportamenti fraudolenti» su «alcuni individui all'interno della struttura e di agenzie terze» come riportato in un comunicato stampa, la GSK si è detta pronta a collaborare con le autorità, che con il cambio ai vertici e l'arrivo del presidente Xi Jinping hanno visto nella lotta alla corruzione uno dei pilastri del nuovo corso politico cinese.

#Sappiatelo. In due anni lo Stato ha sottratto 172 milioni di euro al 5 per mille

foto: vita.it

Roma - Sono ben 172 i milioni di euro che lo Stato ha sottratto in due anni al 5 per mille, di cui quasi 93 (92.838.000 di euro) per l'esercizio 2011.
È quanto emerge da un'interrogazione parlamentare di Luigi Bobba, deputato del Partito democratico ed ex presidente delle Acli e da un articolo del magazine "Vita.it" - con annessa petizione - che ha portato all'attenzione dei lettori il caso dell'Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano (Tiget) e del suo direttore Luigi Naldini, che dopo tre anni di sperimentazione - possibile grazie ai finanziamenti di Telethon, è riuscito a scoprire come il virus dell'Aids riesca a sconfiggere due gravi malattie ereditarie: la leucodistrofia metacromatica (per intenderci: quella al centro del “caso-Stamina”) e la sindrome di Wiskott-Aldrich.
I risultati della sperimentazione dei suoi studi sono stati annunciati presentando fatti evidenti, come la guarigione di sei bambini.

La realtà dei dati evidenzia come sia stato versato il 4,1 per mille nel 2010 ed il 4 per mille nel 2011. Un 5 per mille che da due anni compare dunque solo su carta – nella fattispecie: quella della dichiarazione dei redditi di 16,7 milioni di contribuenti – e che non corrisponde a verità, costituendo una dichiarazione falsa in un atto pubblico e vincolante. Questo è possibile perché la legge impone un tetto massimo di 400 milioni, mentre la somma totale del 5 per mille era stata di 463 milioni nel 2010 (di cui 80 trattenuti) e 488 milioni nel 2011.

Cosa significa questo? Significa ad esempio che la ricerca sulla sclerosi multipla si è vista versare 2,5 milioni di euro in meno di quanto gli sarebbe spettato, così come la lotta al cancro dovrà fare a meno di 13 milioni di euro o che Telethon si è vista “scippare ” 904.532,09 euro.

Lo stesso Bobba, insieme a Milena Santerini di Scelta Civica e Raffaello Vignali del Pdl ha presentato un progetto di legge, simile a quella presentato dal M5S, per la stabilizzazione del 5 per mille – che rimane ancora una “misura sperimentale”, come l'ha definita il vice ministro dell'Economia e delle finanze Stefano Fassina - e per la cancellazione del tetto di spesa dei 400 milioni di euro. Una necessità per portare una risposta "dal basso" ad una politica sempre più spinta verso vere e proprie forme di "warfare state", come la questione degli F-35 necessari per la pace ampiamente dimostra.

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