Il nuovo Iraq: un contractor è per sempre (2/2)

foto: yahooka.com

Bassora (Iraq) - Torniamo all'incontro di Washington, dove oltre alle armi si è parlato della scarsa reputazione dei contractors, 260.000 dei quali sparsi tra l'Afghanistan e l'Iraq secondo i dati della U.S. Commission on Wartime Contracting
Mercenari? Eserciti privati? Qual è il vero volto delle Private military and security companies (da ora PMSCs)?

Il mercato della guerra privata. Centomila imprese tra il 2004 ed il 2007 per un fatturato – anno 2010 – che oscilla tra i 700 e gli 800 miliardi di dollari, con un incremento annuo attestatosi ormai sui 100 miliardi. Cifre stratosferiche che ben rappresentano le reali motivazioni di chi di questo business fa parte. La più nota compagnia è l'americana “Blackwater” (nomen omen direbbero i latini), a cui era assegnata la sicurezza in Iraq fino al 2007, quando il “caso al-Nisur”[1] (l'omicidio di 17 civili durante una sparatoria in piazza) fece sì che il governo iracheno ne revocasse l'ingresso. 195 omicidi di civili in due anni – dal 2005 al 2007 - iniziavano ad essere una buona causa per l'espulsione, anche alla luce del fatto che ogni volta ad aprire il fuoco sono stati per primi uomini della Blackwater, come raccontano gli stessi registri della compagnia. Come se non bastasse, a questi vanno aggiunti oltre 200 casi di abusi, torture e violazioni dei diritti umani avvenuti in quello stesso periodo ed analizzati dalla ong spagnola Nova e dalla statunitense Peace for tomorrow. Quando i crimini sono stati puniti, la pena massima è stata l'allontanamento dei condannati dal paese e l'interruzione del rapporto con la compagnia di riferimento.

Ma si sa: quando un sistema di potere decade, questo deve essere immediatamente sostituito al fine di evitare vuoti di potere. Così è stato anche per l'espulsione della Blackwater, che ha portato ad una parcellizzazione del sistema nel quale le compagnie rimaste si fanno una concorrenza estrema anche con l'utilizzo di attentati. Come avvenuto lo scorso 4 ottobre quando un'autobomba esplosa ad al-Masur, una delle zone più ricche ad ovest di Baghdad prima della guerra del 2003, diretta ad un convoglio della locale PMSC ha invece fatto – stando all'agenzia France Press - 16 feriti tra civili e militari e quattro vittime civili. Da qui è dunque facile intuire il perché di una così forte richiesta di armi leggere per il mercato interno, che alcuni politici locali – su consiglio dalla lobby statunitense delle armi, la National Rifle Association, come riportato dall'”Osservatorio Iraq”[2]

Iraq, il paradiso dei Signori della guerra (1/2)

Da circa un anno gli Stati Uniti se ne sono andati, così come telecamere e taccuini degli inviati delle grandi testate giornalistiche del mondo. Eppure mai come oggi, probabilmente, il nuovo corso dell'Iraq meriterebbe attenzione, mediatica e non. Perché nel buco nero lasciato dalle organizzazioni governative sovranazionali e dalla stampa si sta delineando il fallimento di uno stato, stretto nella doppia morsa degli scontri etnici e di una vera e propria guerra tra contractors.

Un bambino "gioca" con una pistola di plastica. Le armi sono diventate parte della cultura e della quotidianità irachena.
fonte: Niqash.org

Bassora (Iraq) - «Ed ora abbiamo un'arma chimica ad aria mai usata. Morte garantita in 3 minuti. Cosa offrite per questo miracolo della scienza moderna? 20...20...20...20...20...Aggiudicato! Il prossimo: che ne dite di questo bel pezzo con la punta di uranio della serie speciale “Spara e Dimentica”? Allora non per 1000, non per 900, non per 800, non per 700, non per 600, vogliamo cominciare da 500 dollari?[...]Venduto a 26 dollari!».
A questa speciale “battuta d'armi” partecipava - come regista - Michael Moore, che la inseriva nelle prime fasi del suo Operazione Canadian Bacon del 1995, secondo film in assoluto – primo e per ora unico tra quelli di finzione - per uno degli esponenti più in vista della “coscienza critica” americana e mondiale poi rivelatosi al grande pubblico con The Big One (1997), Farenheit 9/11 (2004) o Capitalism: a love story (2009).

Scena simile c'è stata lo scorso 17 ottobre a Washington, dove l'hangar pieno di armi del film di Moore è stato sostituito da camere di alberghi a cinque stelle, abiti eleganti e contratti da firmare. Non è la scena di un film, ma il resoconto ridotto all'osso dell'International Stability Operations Association, la conferenza annuale dei “Signori della Guerra”, riunitisi a pochi passi dalla Casa Bianca con l'intento – per niente celato – di spartirsi i guadagni del settore bellico e terminare l'opera di privatizzazione della guerra iniziata dall'Iraq e continuata in scenari di guerra conclamata come la Libia o l'Egitto così come in paesi quali l'Inghilterra, dove – come scriveva “OsservatorioIraq”[1] – il premier David Cameron si è rivolto ad una compagnia di sicurezza privata come la Kroll per sapere come gestire le proteste di piazza scoppiate nelle vie di Sua Maestà.

Un affare di Stato. Delocalizzare la guerra ma non il commercio di armi. Sembra essere questo il leitmotiv delle politiche globali al tempo della crisi, con il nostro paese che, tra i primi dieci paesi acquirenti, per i prossimi dodici anni spenderà una cifra stimata in 230 miliardi di euro in armamenti da guerra[2].

L'operazione "Pillar of Defence" porta all'invasione di Gaza?

 La guerra tra Israele e Palestina a colpi di internet.
Fonte: tg24.sky.it

Striscia di Gaza (Palestina) – È giovedì 8 novembre. Militari israeliani invadono la Striscia di Gaza. Nello scontro a fuoco che ne deriva i militari occupanti uccidono un bambino di 12 anni. Poco dopo militanti palestinesi hanno fatto saltare in aria un tunnel lungo il confine e lanciato un missile anti-carro contro la jeep di una pattuglia israeliana, ferendo un militare. La risposta israeliana è stata la solita: bombardamenti a tappeto nella Striscia che, in quattro giorni, hanno già portato a 42 vittime palestinesi, cifra non ufficiale ed in continua evoluzione[1]. Tra questi, l'omicidio politicamente più rilevante rimane quello di Ahmad Al Jabari, comandante dell'ala militare di Hamas, la cui macchina è stata bombardata nell'area di Thalatin, ad est di Gaza City.

Inizia così, come riporta l'agenzia internazionale Inter Press Service[2], l'operazione “Pillar of Defence” (“Pilastro di Difesa” in italiano). Fin dai primi bombardamenti israeliani gli ospedali di Gaza sono tornati ad essere in emergenza, resa meno grave solo grazie all'apertura del valico di Rafah da parte delle autorità egiziane che hanno permesso di trasferire alcuni feriti negli ospedali del paese.

Le reazioni internazionali. Nello scenario che si sta delineando, sempre più importante sembra diventare il ruolo dell'Egitto di Mohamed Morsi, alle prese con la prima crisi internazionale da quando è stato eletto presidente lo scorso giugno. Sarà una decisione non certo semplice a delineare il ruolo internazionale egiziano sotto la sua presidenza, stretta tra il trattato di pace con Israele in vigore ormai da trent'anni e la vicinanza dei Fratelli Musulmani – di cui il governo Morsi è espressione – con i palestinesi di Hamas.
La condanna verso l'offensiva israeliana, definita «un'aggressione contro l'umanità», è stata solo il livello minimo dell'indignazione, alla quale è però seguita la visita di sole tre ore del primo ministro Hisham Qandil nella Striscia di Gaza. Secondo gli analisti, questo episodio potrebbe essere letto come il primo segno di una diversa impostazione dei rapporti con Israele, in netto contrasto con la politica tenuta da Hosni Mubarak, accusato di eccessivo squilibrio verso le posizioni israelo-statunitensi nell'area. Durante l'operazione “Piombo Fuso” del 2008 - di cui molti commentatori, anche a livello internazionale, temono una riedizione – l'allora presidente chiuse il confine con Gaza e venendo fortemente criticato per questo proprio dalla Fratellanza Musulmana, che adesso ha la possibilità di cancellare gli errori contestati a Mubarak.

Se per comprare armi si tagliano i militari

nella foto il ministro della Difesa,
ammiraglio Giampaolo Di Paola. Foto: politici.openpolis.it

Roma - 252 a 12. È finita così la seduta del Senato di martedì 6 novembre nella quale è stata approvata una legge con la quale si affida al prossimo Governo il potere di «revisione in senso riduttivo» - per citare le parole del ministro della Difesa Giampaolo Di Paola – delle Forze Armate, che tradotto significa taglio del 20 per cento dei posti di lavoro nel settore della Difesa.

Tagli che però non intaccano l'altro lato della Difesa, quello cioè legato alle armi, che impegneranno l'Italia in una spesa stimata di «non meno di 230 miliardi per i prossimi 12 anni», come si legge in un documento presentato lo scorso 3 luglio alla Camera dei Deputati[1] dal deputato Augusto Di Stanislao dell'Italia dei Valori.

Insomma, la scelta del governo è ormai chiara: tagliare tutto ciò che riguarda il sistema di welfare e finanziare il sistema di warfare italiano, nel quale sono inclusi i cacciabombardieri da guerra F-35 il cui costo – nonostante la riduzione da 131 a 90 - potrebbe subire un vistoso innalzamento per le tasche del contribuente italiano[2] e che vanno ad aggiungersi ai 71 programmi di armamento già in essere in questi ultimi dieci anni.

«Milioni di persone e di famiglie non ce la fanno più» - dice Flavio Lotti, coordinatore nazionale di Tavola della Pace - «si tagliano i servizi alla persona e agli enti locali che li devono fornire ma i soldi per comprare armi e per soddisfare le ambizioni dei nostri generali non mancheranno».

Data la situazione sociale, sarebbe forse il caso di riprendere l'idea dell'ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che, disegnando l'Italia come «portatrice di pace nel mondo» nel suo discorso di insediamento, chiese di svuotare gli arsenali di guerra, «sorgente di morte» per colmare «i granai di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame».

«Ora il provvedimento dovrà andare alla Camera e il dibattito dovrà essere riaperto» - conclude Lotti - «C'è spazio per un serio e ragionevole ripensamento». E magari chiedersi anche a cosa servano realmente tutte queste armi che stiamo acquistando.

Questo post lo trovate anche su:
http://www.infooggi.it/articolo/se-per-comprare-armi-si-tagliano-i-militari-titolo-provvisorio/33353/

Note
[1] O.D.G. in Assemblea su P.D.L. 9/05273-A/023, Camera dei Deputati, 3 luglio 2012;
[2] Caccia F35, altro che tagli. Il costo è più che raddoppiato di Rachele Gonnelli, l'Unità, 17 ottobre 2012;

Caso Christopher Tappin: trafficante d'armi a sua insaputa?

Chritopher Tappin, al centro di un triangolo diplomatico Usa-Gb-Iran
foto: guardian.co.uk

Houston (Texas, Stati Uniti) - «Non sono un terrorista. Non ho mai avuto connessioni con il terrorismo e sono solo sgomento per il fatto che questa vicenda si sia spinta fino a questo punto, specialmente ora, che ho 65 anni e da quattro mi sono ritirato per godermi la pensione». A dirlo è Christopher Tappin, 65enne cittadino britannico – di Orpington, sud-est di Londra – da qualche mese al centro di un triangolo diplomatico tra il suo paese d'origine, gli Stati Uniti, dove è attualmente costretto agli arresti domiciliari e l'Iran.

Bandiera rossa. Tappin è infatti accusato di complotto per l'esportazione illegale di articoli da difesa, favoreggiamento all'esportazione e conduzione di transazioni finanziarie illegali dopo aver tentato di acquistare nel 2005 50 batterie per sistemi missilistici terra-aria “Hawk” da rivendere attraverso un passaggio in Olanda ad aziende di Teheran, nonostante l'embargo in vigore dal 2007 – o dal 1979, volendo seguire la timeline presentata da Al Jazeera[1] – frutto delle sanzioni unilaterali che gli Stati Uniti hanno ritenuto necessario applicare per contrastare il programma nucleare iraniano e che, come riportava “Il Post” ad agosto[2], sarebbero state violate anche da Unicredit. In più, a Tappin è stata comminata una multa di 11.357 dollari, che equivale a quanto avrebbe guadagnato se l'affare fosse andato in porto.
Dietro alla Mercury Global Enterprises, la società dalla quale Tappin si sarebbe rifornito, c'erano in realtà alcune agenzie governative americane alla ricerca di società “sotto bandiera rossa”, che stessero cioè violando i divieti di vendita di tecnologia militare all'Iran come di fatto stava facendo Tappin attraverso la falsa documentazione presentata per aggirare l'obbligo di autorizzazione governativa necessaria all'esportazione delle batterie che, secondo l'ex presidente del golf club di Kent ed ex direttore della compagnia di spedizioni Brooklands International Freigh Services con base a Redhill, nel Surrey, Inghilterra sud-orientale, servivano per l'azienda automobilistica.

Ad incolpare Tappin c'è anche l'ex socio Robert Gibson, che ha fornito alle autorità più di 16.000 file (tra cui anche una lista di e-mail) che comproverebbero come i due avessero instaurato già da tempo un proficuo rapporto commerciale con gli iraniani. Gibson, ha patteggiato già nel 2007 ed ha dunque già scontato la sua condanna a 24 mesi di carcere. Per Robert Caldwell, cittadino americano che fungeva da contatto negli Stati Uniti, sono 20 i mesi di prigione decretati dalla corte lo scorso luglio.

In morte (presunta) di “El Lazca” nascono “I figli del Diavolo”

Il presunto cadavere di Heriberto "El Lazca" Lazcano Lazcano
fonte: reporteindigo.com

Monterrey (Stato di Nuevo León, Messico) – Dicono che stavolta sia morto davvero. Non come le altre due, in cui le autorità ne davano l'annuncio e lui tornava a rompere le uova nel paniere a chi diceva di aver inferto un duro colpo ai cartelli della droga. Anche questa volta, però, la morte di Heriberto Lazcano Lazcano, detto “El Lazca”, “Z-3” o “Il Boia” e fino allo scorso 7 ottobre leader del cartello dei Los Zetas è avvolta nel mistero. Soprattutto perché, a quasi un mese dallo scontro a fuoco che ne ha decretato la morte, il cadavere non c'è.
Ma procediamo dall'inizio.

Un morto senza cadavere. Secondo la ricostruzione fatta dalla Marina lo scontro che ha portato alla morte di Lazcano è avvenuto intorno alle 13.30 di domenica 7 ottobre, durante una normale operazione di pattugliamento nel municipio di Progreso, nello stato di Coahuila de Zaragoza, in seguito ad una serie di denunce provenienti dalla cittadinanza locale che evidenziavano la presenza di uomini armati riconducibili al crimine organizzato.
Il convoglio su cui viaggiavano gli agenti sarebbe stato fatto oggetto del lancio di alcune granate da un altro veicolo in movimento, «ragione per la quale si procedeva a respingere l'aggressione, anche a seguito del ferimento da arma da fuoco di un elemento di questa istituzione, con ferite che non pongono a rischio la sua vita».
Persino una dinamica dei fatti apparentemente così limpida e lineare non è esente da dubbi e questioni aperte. Come scriveva Hugo Gutiérrez su Reporte Indigo dello scorso 15 ottobre[1], infatti, i “falchi” - le vedette che tutto vedono e tutto sentono sul territorio e che dunque dovrebbero avvis(t)are visite indesiderate – hanno fallito. Sono in molti, però, a sostenere come questo episodio non sia frutto del caso quanto di una vera e propria strategia che negli ultimi mesi vedrebbe la Marina spianare la strada per la leadership degli Zetas a Miguel Ángel Treviño Morales, detto “Z-40”, accusato di aver venduto alle autorità parte dei suoi compagni nella scissione che da qualche mese sta interessando il cartello[2].

«La dinamica dell'eliminazione» - scrivevano Jorge Carrasco Araizaga e Juan Alberto Cedillo sul settimanale Proceso dello scorso 14 ottobre - «è sintesi perfetta del sexenio di Felipe Calderón: molti proiettili, poca intelligenza. Quello che le autorità federali tentano di presentare come il più importante colpo inferto ai narcos in Messico in più di un decennio – a due mesi e mezzo dalla conclusione effettiva del governo panista – è terminato nella vergognosa sparizione del supposto cadavere del capo».