Lo sbarramento antimafia non s'ha da fare

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Palermo – Hanno fatto scalpore nei giorni scorsi le lamentele dei deputati dell'Assemblea regionale siciliana ai quali, a causa della crisi di liquidità che sta investendo la Regione, non è stato pagato lo stipendio di 13.000 euro netti per il mese di luglio.
Forti, naturalmente, le proteste di chi deve lavorare alacremente un anno intero per arrivare a quelle cifre. Quando ci arriva.

Decisamente meno scalpore, invece, sembra aver suscitato quanto avveniva in quella stessa assemblea qualche giorno prima, allorquando 39 deputati hanno bocciato – parandosi dietro il voto segreto - l'emendamento alla legge bloccanomine presentato dal presidente della Commissione regionale antimafia, Calogero “Lillo” Speziale (per il quale ad aprile era stato scoperto un progetto di attentato risalente al 1998[1]) con il quale si sarebbero tenuti fuori dai luoghi decisionali della politica personaggi più o meno vicini alla mafia, corruttori e pregiudicati di varia natura.

«Era un'occasione per fare del bene alla Sicilia ed è stata buttata al vento», il commento di Speziale.
L'emendamento era stato presentato durante le votazioni – a scrutinio palese - sul disegno di legge con il quale si impedisce al presidente della Regione, alla giunta ed agli assessori di poter fare «nomine, designazioni o conferimenti di incarichi in organi di amministrazione attiva, consultiva o di controllo della Regione» dal momento delle dimissioni del governatore.
Ad un certo punto il vero e proprio colpo di teatro da parte di otto deputati “bipartisan”, tra i quali il vicepresidente della Commissione regionale antimafia Rudy Maira dei Popolari di Italia Domani, indagato in un'inchiesta su alcuni appalti pilotati a Caltanissetta[2]; Riccardo Minardo del Movimento per le Autonomie, arrestato e poi scarcerato per associazione a delinquere, truffa aggravata e malversazione ai danni dello Stato[3]; Salvino Caputo del Popolo della Libertà, condannato in appello ad un anno e cinque mesi per tentato abuso d'ufficio[4]; Fabio Mancuso – stesso partito di Caputo – arrestato per associazione a delinquere, finanziamento illecito ai partiti e bancarotta fraudolenta, dando conferma di quanto detto qualche mese fa dal procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia a Marsala, allorquando aveva sostenuto che «il Parlamento siciliano è lo specchio fedele di una società e di una classe dirigente profondamente inquinata, soprattutto ai piani alti, dalle collusioni con il sistema mafioso»

Pur non potendo riproporre l'emendamento, Speziale non ha comunque intenzione di abbandonare la sua idea. Per questo chiederà ai partiti di inserire il divieto di candidare rinviati a giudizio nei programmi per le prossime elezioni Regionali. Sarà il caso, comunque, che il presidente della Commissione antimafia regionale prepari anche un terzo piano alternativo.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/04/gela-nellambito-del-processo-leonina-si.html;
[2] Appalti pilotati e tangenti: indagati tre politici nisseni, corrieredelmezzogiorno.it, 14 ottobre 2010;
[3] Associazione a delinquere e truffa arrestato il deputato dell'Mpa Minardo, repubblica.it, 26 aprile 2011;
[4] Condannato Salvino Caputo per tentato abuso d'ufficio, palermo.blogsicilia.it, 19 marzo 2012;

Aiuta la giustizia in un caso di omicidio, rischia l'espulsione

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Misilmeri (Palermo) – A maggio raccontavamo la storia di Nike[1], 21enne nigeriana portata in Italia nel 2011 con la promessa di un lavoro sicuro che si era ben presto trasformata nell'incubo del marciapiede, come troppe volte capita. Il suo corpo era stato ritrovato, carbonizzato, in mezzo ai rifiuti in una stradina di campagna di Misilmeri.
Ad ucciderla, secondo le prove fornite agli inquirenti dalla scientifica, Giuseppe Pizzo, 58enne operaio di Belmonte Mezzagno, incensurato. Omicidio ed occultamento di cadavere le accuse che gli vennero mosse.
Una piccola storia da poche righe nelle pagine interne di un giornale locale, obietterà qualcuno.

Così come piccola, ma emblematica, è la storia di J.T., anche lei nigeriana ed anche lei vittima di una organizzazione operante nel traffico di persone a scopo di sfruttamento sessuale.
J.T. infatti ha testimoniato nel processo contro Pizzo, permettendo così alla Giustizia di poter trionfare, come si suol dire. Come ringraziamento, la giustizia – quella con la minuscola – vuole rispedirla a casa, perché il permesso di soggiorno che le era stato rilasciato portava la dicitura “per motivi di giustizia” e dura solo tre mesi. Non rinnovabili.
In attesa del rimpatrio, naturalmente, tappa obbligata presso il Centro di identificazione ed espulsione di Roma.

«La ragazza teme di poter subire pesanti ritorsioni da parte dei familiari del condannato, perché una volta nel proprio paese, si sentirebbe sola», spiegava due giorni fa Ivan Pupetti, avvocato di J.T. a Monica Panzica di Livesicilia.it[2]. J.T., continuava l'avvocato, è poi di religione cristiana, ed «i fortissimi contrasti con i musulmani la fanno sentire in pericolo al solo pensiero».

Per rimanere in Italia a J.T. basterebbe trovare un lavoro, così da avere «tutti i requisiti per il permesso di soggiorno che, tra l'altro» - ha concluso l'avvocato - «potrebbe essere incluso nella sanatoria di settembre», anche se trovare lavoro in Italia è già difficile quando si può spendere un'intera giornata tra colloqui e consegne di curriculum, figuriamoci quando si è costretti a passare il tempo in un Cie.

Ma si sa: la giustizia in certi casi non fa distinzioni.
I tanti testimoni di giustizia abbandonati dallo Stato[3] al termine dei processi contro le mafie – quando cioè non erano più utili, per dirla senza troppi giri di parole – sono lì a fare da esempio.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/05/storia-di-nike-bruciata-ventanni-e-del.html;
[2] Le uccidono l'amica, testimonia. Ora viene rispedita a casa di Monica Panzica, livesicilia.it, 27 luglio 2012;
[3] http://senorbabylon.blogspot.it/2011/09/avevo-paura-della-camorra-invece.html

Mafia, sciolti i comuni di Misilmeri e Campobello di Mazara

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Campobello di Mazara (Trapani) – A seguito delle risultanze dell'operazione denominata “Sisma”[1], il Consiglio dei ministri nella seduta tenutasi venerdì ha deciso di sciogliere per infiltrazione mafiosa i comuni di Misilmeri (Palermo) e Campobello di Mazara (Trapani), affidandone la gestione amministrativa a commissioni straordinarie che svolgeranno i compiti destinati al Consiglio comunale, alla giunta ed al sindaco fino all'insediamento dei nuovi organi ordinari.

L'operazione portò lo scorso 17 aprile all'arresto di quattro persone, tra cui Francesco Lo Gerfo, considerato il capo del mandamento di cosa nostra di Misilmeri, l'allora Presidente del Consiglio Comunale Giuseppe Cimò e Vincenzo Ganci, candidato sindaco per la lista “Amo Palermo” che sosteneva la candidatura di Marianna Caronia. Antonino Messicati Vitale, boss di Villabate, è ancora latitante. Secondo gli investigatori, Lo Gerfo esercitava «con l'indispensabile ausilio di Vincenzo Ganci, il controllo sul Comune di Misilmeri e, dunque, a piegare l'amministrazione comunale agli interessi della consorteria mafiosa» come quelli relativi al settore edile, dove alcune palazzine sarebbero state costruite su terreni diventati edificabili in ottemperanza al volere mafioso. Concessioni bloccate dall'assessorato regionale al Territorio.

Oltre al sindaco, Piero D'Aì un avviso di garanzia è arrivato anche a Giampiero Marchese, ex vicepresidente del Consiglio comunale. Per entrambi il reato ipotizzato è quello di concorso esterno in associazione mafiosa.
Dopo quelli del 1992 e del 2003, per Misilmeri questo è il terzo scioglimento per infiltrazione mafiosa. Un dato su cui, evidentemente, bisognerà iniziare a riflettere.

Per il Comune di Campobello di Mazara – rientrante nel territorio di Matteo Messina Denaro – l'indagine che ha portato allo scioglimento risale allo scorso dicembre, quando tra le undici persone arrestate c'era anche il sindaco del Partito Democratico Ciro Caravà, sindaco che aveva fatto della lotta alla mafia un marchio di fabbrica, organizzando fiaccolate in ricordo delle vittime e, soprattutto, facendo costituire il comune da lui amministrato come parte civile nei processi contro Messina Denaro, nonostante sia ora considerato vera e propria espressione politica del boss, che esercitava la propria influenza sul territorio di Campobello di Mazara attraverso Francesco Luppino, prima che questi venisse arrestato.

In entrambi i casi è interessante notare – riprendendo quanto scrive Dario De Luca su Sudpress[2] - che sia D'Aì che Caravà sono stati immediatamente scaricati dai propri partiti di appartenenza, cioè l'Unione di Centro ed il Partito Democratico, che in note ufficiali hanno evidenziato come nessuno dei due appartenesse ai due partiti di riferimento, nonostante i fatti raccontino un'altra storia, con Caravà che addirittura era candidato alle elezioni regionali nella lista di Anna Finocchiaro.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/04/misilmeri-loperazione-sisma-fa.html;
[2] I comuni di Misilmeri e Campobello di Mazara sciolti per mafia di Dario De Luca, Sudpress, 27 luglio 2012

Trattativa stato-mafia, a decidere sarà Morosini. Intanto il Csm censura Scarpinato

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Palermo - Sarà Piergiorgio Morosini il giudice dell'udienza preliminare per l'inchiesta sulla trattativa tra Stato e cosa nostra, dopo che martedì scorso i magistrati Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco del Bene avevano chiesto il rinvio a giudizio per i mafiosi Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, gli uomini appartenenti all'Arma che – secondo la ricostruzione fatta dalla Procura – avrebbero materialmente realizzato le fasi della trattativa, cioè Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni nonché i politici Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri, tutti accusati di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” nonché con l'accusa di falsa testimonianza e concorso esterno in associazione mafiosa, rispettivamente, l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino e Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo e principale teste dell'inchiesta che, comunque, non pochi dubbi ha suscitato nel corso delle sue varie ricostruzioni.

A Palermo fin dagli anni '90, segretario nazionale di Magistratura Democratica (la corrente di sinistra della magistratura), Morosini nel Palazzo di Giustizia ha ricoperto prima il ruolo di giudice della sesta sessione per poi divenire giudice per le indagini preliminari nel 2005, occupandosi spesso di indagini su mafia e politica, come il processo “Gotha”[1] o quelli che hanno coinvolto l'ex governatore della Regione Cuffaro e l'ex ministro Saverio Romano.

Tra le possibili parti civili, oltre al consiglio dei ministri pro tempore, potrebbero esserci l'ex capo della Polizia Gianni De Gennaro – in quanto calunniato da Massimo Ciancimino[2] – e la famiglia dell'ex democristiano Salvo Lima, ucciso da cosa nostra il 12 marzo 1992 a Mondello.
L'udienza ci sarà, presumibilmente, entro metà ottobre.

Intanto la Procura si appresta a vivere una vera e propria rivoluzione. Ufficiale infatti il disimpegno – in direzione Guatemala – del procuratore aggiunto Antonio Ingroia, con il Consiglio superiore della magistratura che ha dato parere definitivo ieri (17 voti a favore, 4 contrari e le astensioni del primo presidente e del procuratore generale della Cassazione). Le sue indagini verranno probabilmente affidate ad un altro dei vice di Francesco Messineo, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, attuale titolare delle inchieste sulla mafia agrigentina. Tra settembre ed ottobre a liberare la scrivania potrebbe essere anche un altro procuratore aggiunto, Ignazio De Francisci

Inchiesta "Grandi Eventi", definita la rete-Giacchetto

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Palermo - Sono Angelo Vitale, Sergio Colli, Stefania Scaduto e Giuseppe Imburgia gli ultimi quattro indagati nell'inchiesta “Grandi Eventi”[1] che in queste settimane sta delineando il sistema in cui venivano affidati gli appalti per le manifestazioni sportive in Sicilia. Nomi che vanno ad aggiungersi a quelli dell'imprenditore Luciano Muratore, del dirigente regionale Antonio Belcuore e soprattutto a quello di Fausto Giacchetto, considerato dagli inquirenti il vertice del “sistema”.

Pur non avendo convalidato il sequestro dei soldi e dei gioielli rinvenuti nelle due cassette di sicurezza («non hanno alcuna pertinenza con i reati contestati», dicono gli avvocati della difesa), il provvedimento preso dal giudice per le indagini preliminari Giuliano Castiglia ha permesso di definire nei dettagli il sistema ricostruito dagli uomini del Nucleo speciale Spesa pubblica della Guardia di Finanza coordinati dai pubblici ministeri Maurizio Agnello e Gaetano Paci.

Tutto, come già definito nelle scorse settimane, ruota intorno alla figura di Giacchetto, che «coordina le condotte (predisposizione delle offerte, presentazione delle medesime, recapito di cose ai pubblici funzionari, compimento di operazioni finanziarie)» di Angelo Vitale e Sergio Colli, rappresentanti legali rispettivamente della Media Center & Management s.r.l. e della Media Consulting s.r.l., la cui importanza nel «sistema collusivo» veniva immediatamente dopo quella di Giacchetto. «Soggetti alle dipendenze» del project manager sarebbero state Stefania Scaduto e Daniela Craparotta. Tra le società coinvolte, oltre a quelle appena citate, ci sarebbero le palermitane Barter Consulting s.r.l.; Key 75 s.r.l.; General Service s.r.l. e la D.I. di Giacchetto. A Roma la Jumbo Grandi Eventi S.p.A e le milanesi Ab Comunicazioni s.r.l. e Space s.r.l.

Il ruolo di primo piano di Giacchetto sarebbe riscontrabile anche dal fatto che era proprio lui ad intrattenere «i rapporti e le intense relazioni con i soggetti che operano a vario titolo negli enti pubblici che finanziavano gli eventi e che bandiscono le gare», come il commercialista e consulente della Regione Giuseppe Imburgia e Antonio Belcuore.

A Giacchetto non è stato per ora contestato il reato di corruzione, nonostante il giudice per le indagini preliminari evidenzi come «la ramificazione e l'efficacia operativa del sistema consentono di presumere che lo stesso sia consolidato e costantemente lubrificato da un'intensa pratica di elargizione di doni e rendono plausibile l'ipotesi che siano state realizzate anche condotte corruttive».

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/07/inchiesta-grandi-eventi-ecco-come-si.html

Arrestato in Venezuela Aldo Micciché, faccendiere tra i Piromalli e Dell'Utri

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Caracas (Venezuela) - «Tesoro, bello d'Aldo tuo. Provvederò che presso ogni consolato ci sia la nostra presenza segreta per i cosiddetti voti di ritorno, che nel 2006 hanno rappresentato più del 30%». È l'8 marzo del 2008, “Aldo tuo” - al secolo Aldo Miccichè – telefona a Marcello Dell'Utri, senatore del Popolo della Libertà non iscritto nel registro degli indagati, che però è evidentemente al corrente della falsificazione del voto degli italiani in Venezuela per le elezioni politiche che si tennero in quell'anno.
Nei giorni scorsi, la polizia venezuelana ha posto fine alla carriera di faccendiere, imprenditore e truccatore di voti dell'ex dirigente reggino della Democrazia Cristiana, raggiunto da un mandato di cattura internazionale spiccato dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nell'ambito dell'inchiesta “Cento anni di storia” contro la cosca dei Piromalli di Gioia Tauro, con cui Miccichè intratteneva stretti rapporti.
Nato a Maropati ed oggi imprenditore petrolifero in Venezuela – paese nel quale fuggì per evitare una condanna per bancarotta fraudolenta e dove è interessato da alcuni affari in campo finanziario con uno dei figli del senatore del Popolo della Libertà – negli anni Ottanta è stato segretario provinciale della Democrazia Cristiana a Reggio Calabria nonché giornalista e finto deputato, carica con cui si presentava pur non avendo mai varcato le porte del Parlamento da eletto.

Il suo curriculum, inoltre, lo vede interessato dall'inchiesta sulla vendita di centinaia di case prefabbricate destinate ai terremotati dell'Irpinia e ad una relativa ad un finanziamento di 800 milioni di lire chiesto ad un istituto bancario svizzero presentando falsa documentazione. Noti fin dai tempi del processo per l'omicidio di Mino Pecorelli i suoi rapporti con la Banda della Magliana.

Gli inquirenti sono arrivati all'ex democristiano seguendo le tracce di Gioacchino Arcidiaco, cugino di Antonio Piromalli e nipote del boss Giuseppe, rinchiuso al 41bis. Secondo quanto ricostruito, a Micciché era stato affidato il compito di tessere la tela di rapporti tra la 'ndrangheta e Marcello Dell'Utri per permettere così ai calabresi di entrare nella politica che conta.

«Fagli capire», spiegava il 9 aprile 2008 Miccichè ad Arcidiaco in merito a cosa avrebbe dovuto dire al senatore, «che il porto di Gioia Tauro lo abbiamo fatto noi...fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi. Fagli capire che in Calabria o si muove sulla jonica o si muove sulla tirrenica o su muove al centro ha sempre bisogno di noi».
Per il disturbo, secondo quanto ricostruito dall'antimafia reggina, la 'ndrangheta avrebbe offerto 50.000 voti sulla circoscrizione degli italiani all'estero truccando le schede bianche in cambio di 200.000 euro e, naturalmente, benefici sul 41bis e la revisione di alcuni processi.

Un'operazione, questa, già sperimentata per le elezioni politiche del 2008, quando al telefono con Filippo Fani, dirigente del Popolo della Libertà e collaboratore di Barbara Contini, all'epoca capolista del partito a Napoli, Miccichè assicurava di aver fatto un bel falò con le schede degli elettori residenti in Venezuela, consigliando a Fani di riferire la notizia a Barbara Contini «in via segretissima» dato l'interessamento dei servizi segreti locali, con cui Miccichè intratteneva buoni rapporti.
I risultati elettorali rispetteranno quanto deciso telefonicamente, con il Popolo della Libertà che otterrà il 72,69% al Senato ed il 65,92% alla Camera dei Deputati. Due anni prima, la sola Forza Italia non era arrivata neanche al 30%.

Oltre al senatore pidiellino, i Piromalli avrebbero proposto le proprie istanze – sempre attraverso Micciché – anche al gruppo che fa riferimento a Clemente Mastella. Per conferme, smentite e nuovi eventuali dettagli però, gli inquirenti attendono il suo rientro in Italia, dove dovrà passare i prossimi 11 anni in carcere per associazione mafiosa.

Mafia e appalti, l'operazione "Gotha III" porta all'arresto di 15 persone. C'è anche Cattafi

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Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) - «I barcellonesi contano sempre di più nel panorama mafioso siciliano», ha spiegato il procuratore capo di Messina Guido Lo Forte a margine dell'operazione denominata “Gotha III”, con la quale sono state eseguite nei giorni scorsi dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale e del Comando provinciale di Messina 15 ordinanze di custodia cautelare ed il sequestro di beni per 15 milioni di euro contro i clan della cosa nostra barcellonese nell'ambito di una operazione che è naturale prosieguo delle operazioni “Pozzo”, “Gotha II” e “Pozzo-Gotha II”[1] che dal 2009 hanno più volte inferto duri colpi al vertice dei clan locali.
Al centro delle indagini – dove importanti si sono rivelate le dichiarazioni di collaboratori e testimoni di giustizia – il sistema estorsivo e quello delle infiltrazioni negli appalti pubblici. Agli arrestati vengono a vario titolo contestati i reati di associazione mafiosa, estorsione, omicidio ed intestazione fittizia di beni aggravati dalla finalità mafiosa.

Nell'ambito di “Gotha III” le forze dell'ordine hanno trovato nuove prove in merito al coinvolgimento di Antonino Calderone - all'epoca latitante ed arrestato nell'operazione “Pozzo” - nel triplice omicidio di Sergio Raimondi, Giuseppe Martino e Giuseppe Geraci, avvenuto a Barcellona Pozzo di Gotto nella notte fra il 3 ed il 4 settembre 1993 per il quale erano stati indagati, venendo poi assolti, Carmelo D'Amico e Salvatore Micale.

Tra gli arrestati dei giorni scorsi spicca il nome dell'avvocato barcellonese Rosario Pio Cattafi[2], il cui ruolo di «soggetto apicale dell'organizzazione barcellonese e collettore fiduciario dei proventi illeciti» delle famiglie barcellonesi e delle famiglie della mafia catanese è stato descritto negli ultimi tempi da vari collaboratori di giustizia, tra i quali anche ex esponenti di vertice del clan come Carmelo Bisognano.

Con questa operazione è stato possibile definire anche gli equilibri interni alle famiglie barcellonesi dopo la cattura di Bernardo Provenzano e dei Lo Piccolo. Dall'arresto di questi ultimi al vertice dei barcellonesi e dei “tortoriciani” ci sarebbe stato Tindaro Calabrese, alleatosi con il clan palermitano dei Lo Piccolo rompendo così sia la storica alleanza con i catanesi Santapaola che con il gruppo di Sebastiano Rampulla, “Zu Vastianu”, del mandamento di San Mauro Castelverde.

È indagando su Calabrese che i carabinieri sono venuti a conoscenza delle infiltrazioni nel comune di Mazzarrà Sant'Andrea – suo paese d'origine – nel quale si è fatto aiutare da Roberto Ravidà, tecnico comunale anch'egli arrestato.

Trattativa stato-mafia, la Procura di Palermo chiede 12 rinvii a giudizio

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Palermo - Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino, Antonino Cinà, Giuseppe De Donno, Marcello Dell'Utri, Nicola Mancino, Calogero Mannino, Mario Mori, Bernardo Provenzano, Salvatore Riina, Antonio Subranni. Sarebbe questo l'elenco dei componenti la camera di compensazione che avrebbe gestito la trattativa tra cosa nostra e gli organi dello Stato, stando almeno alla Procura di Palermo, che ieri ha chiesto per tutti il rinvio a giudizio.

Il principale reato contestato è quello di violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario (articolo 338 codice penale), realizzata attraverso «l'organizzazione e l'esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni».

A dare il via al tutto sarebbe stato, agli inizi del 1992, Calogero Mannino, mosso dalla paura di venire ammazzato come il compagno di partito Salvo Lima[1]. Sarebbe stato proprio l'ex ministro democristiano il primo a caldeggiare l'idea dell'alleggerimento del 41bis.
Dopo Mannino ad entrare in scena sarebbero stati gli uomini dell'Arma dei carabinieri – gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno ed il capo del Raggruppamento Operativo Speciale, Antonio Subranni – ai quali sarebbero state affidate le operazioni “diplomatiche”, cioè il contatto diretto con cosa nostra, avvenuto per il tramite di Vito Ciancimino, che nella ricostruzione della Procura assume il ruolo di ambasciatore duplice, dello Stato quando si fa relatore delle istanze istituzionali presso i vertici di cosa nostra e dell'organizzazione mafiosa quando parla con gli uomini dello Stato, esponendo quelle istanze che poi diverranno note come il “papello”. È a questa fase che si lega l'accusa mossa a Massimo Ciancimino, segretario particolare del sindaco del “Sacco di Palermo”.

Se cosa nostra cambia strategia lo Stato diventa più tollerante verso la mafia. Questa è, in soldoni, la richiesta tramutatasi poi in accordo, con il mancato rinnovo di trecento provvedimenti di 41bis da un lato e l'inizio della strategia di “inabissamento” di Provenzano, nella quale a questo punto potrebbe essere lecito ripescare qualche domanda fatta negli anni in merito alla cattura di Totò “'u curtu”, la cui strategia violenta in questo sistema diventa un intralcio al mantenimento dell'accordo[2].
In questa fase, dicono gli inquirenti, un ruolo viene giocato anche da Francesco Di Maggio e Vincenzo Parisi, all'epoca dei fatti rispettivamente capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e della Polizia, non interessati alla richiesta di rinvio a giudizio solo perché già deceduti.

Il ricatto di Mancino e i dubbi sullo scontro Napolitano-Procura di Palermo

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Roma – Ho bisogno di aiuto. E lo dico senza alcuna vergogna. Ho bisogno che qualcuno mi aiuti a capire come funziona il sistema che tiene in equilibrio il potere istituzionale italiano. Perché io avevo sempre pensato che il Presidente della Repubblica avesse un determinato ruolo nel nostro ordinamento.

Adesso, invece, ho scoperto che un semplice ex ministro dalla memoria corta ed indagato per falsa testimonianza[1] può permettersi il lusso di trattare quella che dai libri di diritto rimane la più alta figura istituzionale a mo' di maggiordomo, imponendogli – dietro un non troppo velato ricatto – il suo volere. Come chiamare, se non “ricatto”, quella considerazione che Nicola Mancino fa al telefono con il magistrato Loris D'Ambrosio – tra i principali consiglieri di Giorgio Napolitano – denunciando di essere rimasto solo e, come tale, meritevole di protezione in quanto, in caso contrario «potrebbe chiamare in causa altre persone»[2]?

Un'altra cosa che non capisco è se questo potere che si arroga Mancino dipenda dal caso particolare o dal poco rispetto di alcuni esponenti politici verso le istituzioni. Mi spiego meglio: è fatto storico che le istituzioni di questo paese siano state utilizzate da più di un loro esponente per scopi che di istituzionale avevano ben poco, ma forse – come scriveva qualche giorno fa Valter Rizzo sul Fatto Quotidiano – il problema non è nelle istituzioni in quanto tali, ma negli individui chiamati a rappresentarle.
«sono personalmente convinto» - scriveva Rizzo[3] - «che entrambi [gli ex presidenti Einaudi e Pertini, ndr], di fronte a telefonate come quelle di Mancino avrebbero attaccato il telefono, mandando l’interlocutore a farsi benedire. Perché l’attuale inquilino del Quirinale non l’ha fatto?»

Veniamo così al punto centrale dello scontro tra Giorgio Napolitano e la Procura di Palermo, le intercettazioni. Ed anche qui arrivano i dubbi. Innanzitutto sulla ricostruzione fatta dal Quirinale, laddove si scomodano predecessori – Luigi Einaudi, appunto – a futura memoria, per evitare che possano crearsi pericolosi precedenti «grazie ai quali accada o sembri accadere che egli [Napolitano, ndr] non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce», come si legge nella nota ufficiale emessa.
Ragioniamoci un attimo: se io parlo al telefono non posso sapere se il mio interlocutore è intercettato o meno.

Dell'Utri, venti società utilizzate per frazionare il denaro di Berlusconi

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Palermo – Sarebbero circa venti le società, insieme ad un ancora imprecisato numero di prestanome, ad essere state utilizzate da Marcello Dell'Utri al fine di smistare i 40 milioni di euro versatigli negli ultimi dieci anni da Silvio Berlusconi per quella che – stando alla ricostruzione degli inquirenti – sarebbe stata la mediazione tra l'ex presidente del Consiglio dei Ministri e cosa nostra da parte del senatore.

All'accusa di estorsione[1], però, potrebbe presto aggiungersi anche quella per riciclaggio. Il procuratore aggiunto Antonio Ingroia ed il sostituto Nino Di Matteo – i due magistrati della Procura di Palermo che stanno indagando sul caso – stanno tentando di ricostruire la rete dei versamenti di denaro partendo da quanto già appurato durante l'inchiesta sulla società segreta denominata P3, della quale proprio Dell'Utri sarebbe una «figura centrale, anche se non era il vertice», come definito nell'ambito dell'inchiesta giudiziaria conclusasi nell'agosto dello scorso anno.

Oltre agli 11 milioni girati sul conto cifrato a Santo Domingo, sono già stati individuati altri due spostamenti di denaro verso la Svizzera e Cipro, trasferiti a quanto pare facendo attenzione ad evitare qualsiasi possibilità di tracciabilità.

L'Unità di analisi finanziaria della Banca d'Italia, che collabora da due anni con la Procura palermitana, avrebbe già individuato parte di questa rete, formata da circa settanta depositi aperti in diversi istituti bancari anche grazie all'appoggio di manager italiani e stranieri come lo spagnolo Giuseppe Donaldo Nicosia, titolare della “Tome Advertising” «che nel 2009 ha disposto svariati bonifici in favore di Dell'Utri per circa 400.000 euro», collegata a Publiespaña – la versione spagnola di Publitalia – attraverso Giovanni Rier, ex direttore generale del gruppo ed amico intimo di Nicosia stando a quanto scrive Periodista Digital[2]. Oltre a questa, nel mirino degli inquirenti ci sarebbe anche una triangolazione finanziaria, già segnalata dalla Deutsche Bank, presso una banca di Nicosia, giustificata ufficialmente nell'ambito di affari legati al mondo dell'arte, inerentemente un «libro rarissimo che riporta la lettera del 1492 scritta da Colombo a Isabella d'Aragona» pagato a Dell'Utri 1.178.204,00 euro da Marino Massimo De Caro, ex collaboratore dell'ex ministro dei beni culturali Giancarlo Galan, in una operazione che celerebbe il pagamento dell'interessamento dello stesso senatore per la costruzione dell'impianto solare di Gela

Scoperto a Mazara traffico di persone ed armi tra Francia, Sicilia e Libia

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Capo Feto (Trapani) – Dalla Francia alla Libia passando per la Sicilia. È questo il tragitto seguito dal Gruppo d'investigazione sulla criminalità organizzata di Genova e Palermo in una operazione – coordinata dai sostituti procuratori Dino Petralia, Francesca Rago e Sabrina Carmazzi della Procura di Marsala – che ha permesso di smantellare una organizzazione criminale transnazionale attiva sia nel trasporto di migranti dalle coste nordafricane che nel traffico di armi.

I dettagli dell'operazione - che Petralia ha definito “strepitosa” - saranno presentati in una conferenza stampa fissata per domani. Quello che si sa al momento è che questa è partita in seguito ad uno sbarco di migranti avvenuto sulla costa di Capo Feto, a Mazara del Vallo. Indagando sugli scafisti gli inquirenti sono venuti a conoscenza anche del filone legato al traffico di armi, con il fermo da parte della Guardia di Finanza di un furgone partito qualche giorno fa da Marsiglia ed intercettato alla frontiera ligure. A bordo, oltre ad un cittadino tunisino e ad un marsalese, per il quale la Procura sta in queste ore accertando eventuali rapporti con le famiglie mafiose della zona, sono state trovate 110 armi tra lunghe e corte, gas tossici, munizioni, esplosivi ed un bazooka di piccole dimensioni. Una volta arrivate sulle coste siciliane, le armi avrebbero poi preso la via della Libia attraverso gli stessi uomini e gli stessi mezzi che nelle ore precedenti avevano trasportato i migranti.
Fondamentali per il buon esito dell'operazione, anche questa volta, si sono dimostrate le intercettazioni telefoniche, in aggiunta alla spavalderia del gruppo criminale che – senza naturalmente esserne a conoscenza – ha svelato i propri piani agli agenti in ascolto.

Ancora non è chiaro a chi fosse destinato il carico: se ai ribelli libici, agli uomini rimasti fedeli al regime di Gheddafi o se queste sarebbero poi passate attraverso altre frontiere come quella tunisina, dove due giorni fa – come scriveva l'agenzia AnsaMed[1] – un aereo dell'Aviazione tunisina ha distrutto tre automezzi carichi di armi provenienti dalla Libia e diretti in Algeria.

Da chiarire, infine, se il traffico internazionale interessi solo le mafie o se l'operazione che si sta concludendo in queste ore sia da inserire nella più ampia azione di contrasto al mercato nero delle armi, dove oltre alle organizzazioni criminali lavorano grandi industrie del settore[2] e governi. La storia recente che collega Trapani, i traffici internazionali e la mafia – con gli omicidi dei giornalisti Mauro Rostagno ed Ilaria Alpi[3] ed ancor prima del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto[4] – potrebbe da ieri avere un nuovo capitolo.

Note
[1] Tunisia: aereo esercito distrugge convoglio armi da Libia, AnsaMed, 21 giugno 2012;
[2] Libia: armi made in Germany. Kontraste: in mano ai ribelli fucili della tedesca Heckler & Koch di Pierluigi Mennitti, lettera43.it, 2 settembre 2011;
[3] Nuove piste sul caso Alpi - Somalia e morte di Riccardo Castagneri, La Voce delle Voci, 18 marzo 2010;
[4] Giangiacomo Ciaccio Montalto da "Blu notte - Misteri italiani"

Mafia&banche: rinviato a giudizio fondatore Arner Bank

foto: sconfini.eu
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Milano – Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Luigi Gargiulo, in accoglimento della richiesta fatta dal pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia milanese, Marcello Tatangelo, ha rinviato a giudizio Nicola Bravetti, tra i fondatori ed ex presidente della banca d'affari privata Arner, fondata nel 1994 con sede legale a Lugano e filiali a Nassau (Bahamas), Dubai (Emirati Arabi Uniti), Lussemburgo, San Paolo (Brasile) e a Milano.
Insieme a lui sono state rinviate a giudizio altre cinque persone – i costruttori siciliani Ignazio e Francesco Zummo, la moglie Teresa Macaluso, Laura Panno (parente degli Zummo) e l'avvocato Paolo Sciumé - accusate di intestazione fittizia di beni con l'aggravante del favoreggiamento a cosa nostra.

Secondo quanto sostiene l'accusa, gli Zummo (padre e figlio, indagati per mafia a Palermo con assoluzione in appello) avrebbero tentato di occultare 13 milioni di euro tramite la filiale di Nassau (Bahamas) della Arner Bank and Trust Limited attraverso conti intestati a Teresa Macaluso, denominati “Bynum”, “Bloomsville” e “Trailer”, “Coleron” e “Pluto”. Denaro di proprietà di Francesco Zummo, ritenuto prestanome di Vito Ciancimino proveniente «da delitti per associazione a delinquere di stampo mafioso», come li definì all'epoca la procura comasca e transitati «in vari valichi imprecisati del circondario di Como» tra il 2003 ed il 2007
Le indagini sui rapporti tra gli imprenditori, Bravetti e Sciumé partirono nel 2005 da Palermo dopo un'intercettazione telefonica nell'ambito di un'inchiesta portata avanti dalla Procura di Como in merito ai reati di riciclaggio e contrabbando di preziosi e nella quale è stata registrata la voce di Bravetti a telefono con un soggetto dall'accento palermitano, tale “signor Moro”, che poi si scoprirà essere Francesco Zummo. Due anni fa il trasferimento degli atti alla Procura milanese, allorché il giudice per le udienze preliminari di Palermo, Vittorio Anania, spostava il processo in base alla richiesta della difesa, la quale evidenziava come lo studio legale di Sciumé fosse nel capoluogo lombardo e, dunque, Milano aveva la competenza territoriale per proseguire il procedimento.

L'istituto bancario, peraltro, era già entrato in alcune inchieste della magistratura tra il 2008 – quando Bravetti venne messo ai domiciliari - ed il 2010, allorquando vennero riscontrate «gravi irregolarità nel governo societario, negli assetti organizzativi, nel sistema dei controlli e nei processi gestionali a causa delle carenze e delle violazioni riscontrate in materia di contrasto del riciclaggio», come denunciavano gli ispettori della Banca d'Italia chiamati ad indagare. Tale denuncia arriva in seguito alla constatazione della impossibilità di arrivare ai nominativi dei beneficiari economici di alcune società che hanno aperto un conto nella banca, nota per interessarsi solo a capitali di un certo rilievo, tra i quali – come evidenziava Paolo Mondani in un'inchiesta di Report del 2009 – Ennio Doris e la famiglia Berlusconi quasi al completo, con l'ex presidente del Consiglio dei Ministri titolare del conto numero 1 e che proprio attraverso la filiale milanese versò i 22 milioni di euro alla “Flat Point Development Ltd” per comprare le ville di Antigua[1].

Il processo inizierà il 14 dicembre prossimo.

Note
[1] Antigua, Berlusconi vende le sue ville. Già nel 2010 chiese aiuto a Ennio Doris di Franz Baraggino e Davide Vecchi, Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2012

HSBC, la banca che lava il denaro di cartelli della droga e terroristi

foto: mexicalia.wordpress.com
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Città del Messico (Messico) – HSBC Holdings, Hongkong & Shanghai Banking Corporation. È la più grande banca europea per valore di mercato. Sede a Londra e 7.200 filiali sparse in 80 paesi, «l'unica banca locale presente in tutto il mondo» - come recita la sua pubblicità – ed un utile netto che lo scorso anno si è attestato a 16,8 miliardi di dollari.

Peccato che in quei 16,8 miliardi siano compresi i 600.000 travelers cheques quotidiani giapponesi, firmati in maniera illegibile e poi girati a commercianti russi del settore dell'auto o il denaro frutto degli affari con la Al Rajhi Bank, istituto che la Cia ha più volte accusato di finanziare il terrorismo islamico tra Indonesia, Afghanistan e Pakistan.
Ma, soprattutto, ci sono gli oltre 7 miliardi di dollari che tra il 2007 ed il 2008 sono stati “lavati” dai cartelli della droga messicani nei conti della HBMX, filiale locale del gruppo o attraverso Bital[1], istituto bancario acquistato nel 2002 dal gruppo londinese ed interessato da un'operazione - denominata “Casablanca” - che ha coinvolto la Drug Enforcement Administration, l'Fbi ed il Tesoro americano.

«Quello della HSBC» - evidenzia Tom Coburn, membro della Commissione d'inchiesta permanente del Senato americano in un articolo pubblicato da Claudio Gatti sul Sole24Ore[2] - «non è una, seppur grave, anomalia. Perché Citybank, Bank of America (dove un conto era riferibile al cartello dei Los Zetas, che riciclava il denaro attraverso la compravendita di cavalli, utilizzando l'istituto come banca d'appoggio, ndr[3]), Wachovia, Western Union ed altri istituti finanziari sono stati recentemente oggetto delle autorità federali per possibili attività di riciclaggio di denaro».

«Ci rendiamo conto che in passato abbiamo talvolta mancato di rispettare gli standard che i regolatori e i clienti si aspettano da noi. Ci scusiamo, ci rendiamo conto di questi sbagli, siamo pronti a rispondere delle nostre azioni e ci impegniamo a raddrizzare ciò che è andato storto» - scrive in una nota la banca che attraverso David Bagley – direttore dal 2002 dell'organo di controllo interno – ha di fatto dato l'ufficialità al necessario cambio ai vertici dal quale però le autorità di vigilanza americane non sono così convinte, considerando che segnalazioni che la banca fosse attiva nel campo del riciclaggio sono arrivate da alcune agenzie di vigilanza e dalla Federal Reserve nel 2003 e nel 2010.

Se è certa la responsabilità delle filiali nel riciclaggio – sottolineata nelle 345 pagine del suo rapporto finale - la Commissione d'inchiesta ha di fatto parlato di una responsabilità diretta anche dei vertici londinesi, che per anni hanno concesso l'apertura presso la filiale delle isole Cayman (dove ci sarebbero 51 mila clienti, zero uffici e zero dipendenti) di oltre duemila conti a società anonime e con azioni al portatore, «un classico strumento utilizzato da evasori fiscali e riciclatori di denaro», ricorda Gatti.

«In un'era di terrorismo internazionale, di violenza per droga per le strade e al confine e di crimine organizzato» - ha detto il senatore Carl Levin, responsabile della Commissione d'inchiesta - «è imperativo fermare i flussi di quel denaro che fomenta queste atrocità».

Note
[1] Bital incurrió en operaciones de lavado antes de ser vendido di Israel Rodríguez J., La Jornada, 20 luglio 2012;
[2] La ragnatela di Hsbc tra narcos e terroristi di Claudio Gatti, Il Sole24Ore, 21 luglio 2012;
[3] Usaron Los Zetas a Bank of America para lavar dinero: The Wall Street Journal, historiasdelnarco.com, 9 luglio 2012

Dell'Utri, il denaro di Santo Domingo frutto di estorsione a Berlusconi?

foto: globalist.it
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Palermo – Silvio Berlusconi viene convocato dai pubblici ministeri di Palermo ma – seguendo una prassi ormai consolidata da tempo - non si presenta, causa «legittimo impedimento» relativo alla sua presenza ad una riunione con alcuni economisti a Villa Gernetto, la sua residenza di Lesmo, nella provincia di Monza.
Secondo alcuni la convocazione dell'ex presidente del Consiglio dei ministri e della figlia Marina avviene come persone informate dei fatti nell'ambito della inchiesta sui rapporti tra Stato e mafia, ipotesi però smentita dai diretti interessati.
La seconda ipotesi è che Berlusconi sia stato convocato come persona offesa nell'ambito di una nuova inchiesta della procura palermitana nei confronti di Marcello Dell'Utri, passato dal ruolo di mediatore con cosa nostra (fino al 1992, in accordo con quanto accertato dal processo) a quello di estorsore nei confronti del premier.

Attraverso nuove indagini di natura bancaria, infatti, i magistrati sono venuti a conoscenza del fatto che negli ultimi dieci anni l'ex premier ha versato a Dell'Utri 40 milioni di euro, dei quali 15 come pagamento per l'acquisto della villa sul lago di Como, vendutagli da quest'ultimo per 21 milioni di euro – operazione realizzata il giorno prima della sentenza della Cassazione sulla condanna a 7 anni in appello per concorso in associazione mafiosa, forse per paura di un possibile sequestro dei beni – nonostante nel 2004 la villa sia stata valutata intorno ai 9 milioni. I restanti 6 milioni sarebbero andati poi a coprire i mutui bancari accesi dal senatore.
I 15 milioni sono poi finiti sul conto di Miranda Anna Ratti, moglie del senatore. Da qui 11 milioni sono stati girati ad un conto di un istituto bancario di Santo Domingo. Proprio la stranezza di questa operazione ha dato il via alla nuova indagine.

Le ipotesi al vaglio degli inquirenti – in attesa delle rogatorie internazionali – sono due. Da un lato i magistrati ipotizzano che questo denaro sia stato utilizzato come pagamento di Berlusconi a cosa nostra, con Dell'Utri a fare da intermediario. L'ipotesi al vaglio degli inquirenti è che, con la morte di Vittorio Mangano e Tanino Cinà, possa essere ora il senatore a svolgere il ruolo di intermediazione.
L'altra ipotesi prevede che il denaro abbia comprato il silenzio di Dell'Utri sui presunti rapporti tra Berlusconi e la mafia. Gli inquirenti vogliono capire se, come ipotizzano, lo scorso 8 maggio – data in cui la Cassazione ha annullato con rinvio il processo – il senatore si trovasse proprio a Santo Domingo dove, con il denaro di Berlusconi, avrebbe potuto trascorrere una tranquilla latitanza.

Il nucleo Valutario della Guardia di Finanza di Roma, nell'ambito dell'inchiesta sulla Loggia P3 poi confluita in quella dei magistrati palermitani, ha evidenziato in una informativa anche un'altra serie di passaggi di denaro dall'ex premier a Dell'Utri. Tra questi ci sarebbero 1.035.000 euro di bonifico dell'ex premier che il senatore ha poi girato il 15 marzo dello scorso anno alla società “Nessi&Maiocchi”, relativamente ai lavori di ristrutturazione della villa poi acquistata da Berlusconi, per un totale di 8 milioni di euro nei quali rientrano anche i 38.000 euro per le spese per la Florida Institute of Technology l'università americana della figlia minore del senatore ed i 62.000 per una casa editrice di libri antichi, nota passione di Dell'Utri nonché il milione e mezzo di euro utilizzato il 22 maggio 2008 per diminuire parte dello scoperto di 3.150.134 euro di quest'ultimo verso Monte dei Paschi di Siena S.p.A.

Reato elettorale, il giudice è incompetente. Da rifare il processo Lombardo

foto: sudpress.it
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Catania – È ufficiale: i due processi che vedono coinvolti il presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo e suo fratello Angelo, deputato nazionale del Movimento per le Autonomie – cioè quello per voto di scambio e per concorso esterno in associazione mafiosa – verranno a breve accorpati in un unico processo, nel quale ai due verrà contestato ancora il reato di voto di scambio al quale viene aggiunta l'aggravante mafiosa.

L'idea di accorpare i processi era, peraltro, caldeggiata sia dai magistrati che dalla difesa, che ha però definito «assurdo ricominciare da capo quando il processo era ormai quasi finito» anche perché, come ha spiegato Guido Ziccone – che insieme ad Alessandro Benedetti difende il governatore – la procura non sarebbe più in tempo per chiedere al giudice di rivedere la propria competenza.
«Il giudice si dichiara carente nel poter sindacare la contestazione circa l'articolo 7 [articolo 7 della legge 203/91, cioè l'aggravante mafiosa, ndr[1]] poiché il reato rientra nella competenza del tribunale collegiale. Dispone quindi la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Catania, ritenendo che non sia stata svolta nessuna attività istruttoria dal momento della contestazione fino alla nuova udienza di oggi». Con queste parole il presidente del tribunale monocratico e giudice nel procedimento, Michele Fichera, si è detto incompetente di fronte a questa nuova ipotesi accusatoria, restituendo gli atti alla Procura catanese, che a sua volta dovrà interpellare il giudice per le indagini preliminari al quale spetterà il compito di decidere se convalidare tale ipotesi, dando il via al processo per voto di scambio aggravato dal favoreggiamento alla mafia relativamente alle elezioni politiche del 2008 (stessa accusa mossa ai due per le elezioni regionali di quell'anno) o se archiviare tutto.

Lunedì prossimo, 23 luglio, davanti al giudice per le udienze preliminari, Marina Rizza, si terrà la nuova udienza – ultima prima dell'interruzione estiva – relativamente alle elezioni regionali di quattro anni fa, allorché gli avvocati difensori di Lombardo potranno controinterrogare il maggiore Lucio Arcidiacono.

Il Lombardo furioso. Durante le pause, Raffaele Lombardo ci ha tenuto a dire la sua sugli ultimi accadimenti, regionali e non. «La Sicilia in default? Noi stiamo come Umbria e Veneto, ci sono difficoltà ma la realtà è che lo Stato italiano ci deve 1 miliardo di euro, e poi come le agenzie di rating dimostrano stiamo meglio di Regioni come il Piemonte»[2]. In merito alle pressioni della politica nazionale, alla quale si è aggiunto anche il presidente del consiglio Mario Monti, Lombardo ha sottolineato come «qualcuno pretende che io non mi dimetta perché il sistema dei partiti nazionali che hanno usato la Sicilia come merce di scambio e bottino da incassare, e mi riferisco in particolare all'Udc, impazziscono se pensano ad elezioni anticipate». «Con le elezioni anticipate in Sicilia» - ha concluso il governatore - «il loro progetto di beccarsi la presidenza della Regione in cambio di qualcosa che otterranno a Roma va a gambe all'aria».

Note
[1] Legge 12 luglio 1991, n.203
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa
, http://www.comune.jesi.an.it/;
[2] Sicilia bocciata dopo aver superato 3 esami. Il default dei cannibali, siciliainformazioni.it, 19 luglio 2012

Operazione "Alba di Scilla 2", arrestati 'ndranghetisti-sindacalisti sulla Salerno-Reggio Calabria

foto: narcomafie.it
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Reggio Calabria – Che le 'ndrine, in partnership con la camorra, abbiano da tempo messo le mani sulla Salerno-Reggio Calabria è ormai un fatto che dalla cronaca è passato direttamente alla storia. Si sa, ad esempio, che «nel tratto Falerna-Pizzo spadroneggiano gli Iannarazzo, mentre da Pizzo a Serre i Mancuso» o che «dall'uscita Serre a Rosarno i Pesce, sche si danno la staffetta fino a Palmi con i Piromalli», come scrive Andrea Amato ne “L'impero della cocaina”[1].
Quello che – forse – ancora non si sapeva, è che le 'ndrine sono riuscite a mettere le mani anche sul sindacato.

È quanto emerge dall'ultima parte dell'inchiesta “Alba di Scilla” della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, che a fine maggio aveva portato all'arresto di dodici presunti affiliati alla 'ndrina dei Nasone-Gaietti ed al quale si è aggiunto un nuovo capitolo nei giorni scorsi, con l'arresto di sei persone. Tre di queste, però, avevano un “doppio impiego”: da un lato affiliati alla 'ndrangheta, dall'altra sindacalisti molto attivi sul territorio e che facevano l'interesse delle 'ndrine più che quello dei lavoratori, sfruttando questo doppio ruolo sia nell'ambito delle assunzioni pilotate di parenti e amici sia per il pagamento del pizzo per le ditte che lavorano sulla A3 (il “costo sicurezza”, che sull'autostrada è stato fissato nel 3% dell'importo dei lavori di ciascuna impresa).

I tre arrestati con il doppio impiego sono Francesco Spanò, rappresentante sindacale della Federazione Italiana Costruzioni e Affini della Cisl; Giuseppe Piccolo, responsabile della sicurezza sui cantieri e Francesco Alampi, caposquadra. Estorsione e furto con l'aggravante di aver favorito la 'ndrangheta – nella fattispecie il gruppo riferibile a Francesco Nasone – i reati loro contestati. Tutti e tre erano dipendenti della “Santa Trada”, vincitrice dell'appalto per il tratto tra Monacena e punta Paci poi subappaltato alla “Ediltecnica s.r.l.”. I tre, stando a quanto emerso dalle indagini, estorcevano denaro alla ditta appaltante anche attraverso furti e danneggiamenti perpetrati durante il fine settimana, quando il cantiere era vuoto.
Denunciare il tutto, naturalmente, era fortemente sconsigliato.

Stando a quanto ricostruito dalle indagini – affidate al procuratore aggiunto Michele Prestipino ed ai pubblici ministeri Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane – i tre avrebbero chiesto al capocantiere della Ediltecnica – la cui quota di “messa in sicurezza” era fissata in 600 euro mensili, da aggiungere al canone di locazione per gli appartamenti usati dagli operai – se avesse messo in regola la società al fine di poter continuare i lavori. «Mi giunsero delle strane richieste tramite un operaio neo-assunto. Mi fece sapere che avrei dovuto versare 600 euro di tangente attraverso il pagamento dell'affitto presso la struttura dove alloggiamo», ha raccontato il capocantiere.

Va sottolineato, comunque, che gli arresti – e l'operazione investigativa che ne è alla base – non sarebbero stati effettuati senza la collaborazione degli imprenditori, che hanno permesso di dare il via al tutto. «Ci aspettiamo» - aveva detto Prestipino dopo i dodici arresti di maggio - «che tutti gli imprenditori facciano la loro parte». Grazie alla loro collaborazione, ha evidenziato il procuratore «è possibile infliggere colpi durissimi al fenomeno delle tangenti, che arricchisce i clan e mette in ginocchio l'economia».

Note
[1] L'impero della cocaina, Newton Compton editori

L'ombra del clan Madonia su Expo2015

foto: milanomia.com
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Milano – Mantovani S.p.A., Socostramo s.r.l., Consorzio Veneto Cooperativo S.C.p.A., Sielv, S.p.A. Ventura S.p.A. Sono queste le società che fanno parte del raggruppamento temporaneo di imprese aggiudicatosi in via provvisoria l'appalto per la costruzione della piastra – cioè l'urbanizzazione di base comprendente opere idrauliche, percorsi interni, opere di sistemazione paesaggistica – del sito dove sorgeranno i padiglioni di Expo2015.

La scelta – come scriveva nei giorno scorsi Radio Lombardia[1] – è avvenuta secondo il principio dell'offerta economica più vantaggiosa, che ha visto vincere l'offerta di 165.130.000 euro del raggruppamento, Iva esclusa ma comprendente 16.200.000 euro per gli oneri di sicurezza, non soggetti a ribasso.

C'è, però, un problema. Grosso. La “Mantovani S.p.A.” - o “Ing.E.Mantovani S.p.A.” - è entrata nel racconto di Carmelo Barbieri, nome importante della famiglia mafiosa dei Madonia che per Giuseppe Madonia, detto “Piddu”, curava gli affari a Gela e nell'intera provincia di Caltanissetta. Il collaboratore, nell'ambito dell'inchiesta “Doppio Colpo 3”[2], ha infatti definito «pericolosi» i rapporti tra alcuni responsabili della “Mantovani”, società con sede legale a Mestre impegnata tra le altre anche nel Porto Isola di Gela, e Giuseppe Laurino, capo-area della “Calcestruzzi S.p.A.” per la Sicilia - appartenente alla multinazionale bergamasca “Italcementi S.p.A.” - ed appartenente alla famiglia mafiosa dei Cammarata di Riesi, divenuto collaboratore di giustizia nel novembre scorso[3].

Secondo quanto ricostruito da Barbieri, la “Mantovani” non si sarebbe limitata solo alle forniture mafiose di materiale da costruzione – cemento depotenziato soprattutto, utilizzato da Laurino per mantenere attivo il sistema dei fondi neri e le casse della famiglia – ma avrebbe accettato anche il sistema delle assunzioni imposte dai Cammarata nei cantieri gelesi, come quella di Francesco Lombardo, nipote del boss “Piddu”. Tra le due società, inoltre, stanti i rapporti personali tra Laurino ed i responsabili della società veneziana, vi sono state anche operazioni di assegnazione di subappalti.

Alla società veneziana, una delle aziende leader nel settore, con cantieri aperti un po' in tutta Italia, come ha ricordato Giulio Cavalli[4] era stato ritirato il certificato antimafia.

«Regione Lombardia è disponibile ad offrire alla società Expo 2015 la collaborazione del proprio “Comitato per la trasparenza degli appalti e la sicurezza dei cantieri”, del quale fa parte il delegato alla trasparenza Presidente Grechi, organismo che già opera con molto rigore relativamente alla trasparenza degli appalti regionali, monitorando il rispetto delle norme che riguardano i contratti per lavori, servizi e forniture e investimenti pubblici» ha dichiarato il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, dettosi inoltre preoccupato per il «ribasso d'asta del 41% che si avvicina molto alla soglia di anomalia calcolata nel 43%».
D'accordo che Formigoni, in queste settimane, avrà forse qualche preoccupazione in più rispetto al solito[5], ma non sarebbe il caso di far intervenire tali organi prima e non dopo l'assegnazione di un appalto?

Note
[1] Expo, aggiudicata gara per la piastra, Radio Lombardia, 16 luglio 2012;
[2] Operazione Doppio Colpo 3, condannati in 3, TeleRadioCanicattì, 25 aprile 2012;
[3] Riesi, nuovo pentito. Dovrebbe fare luce sui rapporti fra i boss e le grandi aziende del nord, Omicron - Osservatorio milanese sulla criminalità organizzata al nord, 10 novembre 2011;
[4] Mafia e EXPO: cosa c’entrano i Madonia con i cantieri di Giulio Cavalli, 17 luglio 2012;
[5] Formigoni, tutti i regali di Daccò: 20 milioni tra villa, barca e cene, Libero, 19 luglio 2012

Diciannove ordinanze contro il clan Carateddi, c'è anche un medico compiacente

foto: ienesicule.it
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Catania – Sono in tutto diciannove le ordinanze di custodia cautelare emesse nei giorni scorsi nell'ambito di un'operazione antidroga contro esponenti del clan catanese dei Cappello-Bonaccorsi-Carateddi. Tra queste, cinque riguardano soggetti già in stato detentivo, cioè Alessandro Bonaccorsi, Filippo Crisafulli, Orazio Finocchiaro, Giovanni Musumeci e Roberto Scrivano. Proprio Bonaccorsi – in carcere dal 2010 – è considerato il reggente della famiglia dei Carateddi dopo l'arresto del boss Sebastiano Lo Giudice avvenuto nel marzo di due anni fa.

Affetto da una grave pancreatite per una ferita da arma da fuoco, Bonaccorsi avrebbe simulato un aggravarsi della situazione clinica al fine di evitare il carcere, trovando alleanza – dietro il corrispettivo di “regalie varie” - nella dottoressa Maria Costanzo, dirigente medico dell'ospedale Vittorio Emanuele ed attualmente agli arresti domiciliari. A lei vengono contestati i reati di falso in atto pubblico e corruzione in atti giudiziari. Dalle indagini è emerso come la dottoressa si sia reiteratamente prestata a richiedere esami specifici ed un intervento operatorio necessario solo all'ottenimento degli arresti domiciliari, interventi – come ha spiegato il procuratore aggiunto Amedeo Bertone (al centro, nella foto) - «che Bonaccorsi puntualmente non effettuava, ma che gli consentivano di uscire dal carcere. Tutto questo a rischio e pericolo della propria salute».
Alla base della necessità di uscire dal carcere, come ha spiegato il procuratore Pasquale Pacifico - fatto oggetto, a marzo, di un progetto omicida ideato da Orazio Finocchiaro[1] - il controllo dei traffici di droga.

L'operazione – iniziata nel marzo 2010 e da intendersi come un naturale epilogo dell'operazione denominata “Revenge” conclusasi nell'ottobre 2009 – ha permesso di trovare conferma dell'estensione del traffico degli stupefacenti in mano al clan Cappello permettendo al contempo il monitoraggio dei tentativi di riassetto interni al gruppo in seguito all'operazione “Revenge” da parte degli inquirenti, che hanno definito come fondamentale l'apporto delle intercettazioni ambientali, in particolare quelle utilizzate verso Maria Bonnici, Emilia Anastasi, Bruna e Daniela Strano, mogli, sorelle e compagne degli arrestati incaricate di mantenere i rapporti con l'esterno e per questo accusate di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

Gli arrestati. Emilia Anastasi, 33 anni; Rocco Anastasi, 56 anni; Maria Bonnici, 53 anni; Concetto Antonino Bonvegna, 61 anni; Filippo Bonvegna, 34 anni; Salvatore Bonvegna, 32 anni; Salvatore Bracciolano, 30 anni; Maria Costanzo, 63 anni; Paolo Ferrara, 38 anni; Massimo Leonardi, 40 anni; Marco Rapisarda, 35 anni; Bruna Strano, 29 anni; Daniela Strano, 38 anni; Marco Strano, 30 anni. Raggiunti dall'ordinanza in carcere Alessandro Bonaccorsi, 34 anni; Filippo Crisafulli, 50 anni; Orazio Finocchiaro, 40 anni; Giovanni Musumeci, 40 anni; Roberto Scrivano, 48 anni.


Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/03/catania-il-clan-dei-carateddi-voleva.html

Prodotto Interno Mafia

Nel mondo delle nuove tecnologie le organizzazioni criminali si sono adeguate ed evolute molto velocemente, seguendo l'odore del nuovo business globale. Da Nord a Sud, la geografia di un' ''Impresa'' che, approfittando della crisi economica e finanziaria, è arrivata ad infiltrarsi con molto agio nel mondo della politica e degli affari e a fatturare centinaia di miliardi all'anno.

con: Serena Danna, Mario Forenza, Flaviano Masella, Giovanni Tizian, Federico Varese. Festival Internazionale del giornalismo di Perugia, 26 aprile 2012

Inchiesta "Grandi Eventi", ecco come si assegnavano gli appalti per le manifestazioni sportive in Sicilia

foto: livesicilia.it
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Palermo – A parlarne per primo già qualche mese fa era stato, dal mensile “S”, Antonio Condorelli (“Macché partecipare, l'importante è spendere” il titolo dell'articolo).
«La Regione Sicilia ha messo in bilancio 34 milioni in tre anni per le manifestazioni sportive» - scriveva nell'articolo Condorelli - «Ma dei rendiconti non c'è traccia. La Regione non sa quanto si sia speso realmente e quale sia stata la ricaduta turistica».
Tra il 2010 ed il 2011 i fondi destinati alle manifestazioni sportive avevano registrato una vera e propria impennata, passando dagli 8 milioni del 2010 ai 23.324.259 del 2011. Circa il 300% in più. Tra gli 8 milioni del 2010 ed i circa 23 del 2011, però, manca un aspetto fondamentale: i documenti necessari a giustificare le spese ed a rendere visibile il modo in cui i fondi sono stati utilizzati.

È proprio all'interno di questa impennata che gli uomini della Guardia di Finanza hanno ritenuto necessario indagare, essendo difficilmente spiegabili – date grandezza degli eventi e riscontri turistici – molte delle cifre ufficiali, come i 2,2 milioni spesi per i 75 atleti senior del Sicilian open golf.
Dodici eventi in tutto, dalla visita del Papa a Palermo ai mondiali di scherma a Catania, realizzati tra il 2010 ed il 2011 e per i quali la Regione ha sborsato un sacco di denaro pubblico. Nel mirino degli inquirenti, oltre alla visita papale, sono finiste anche il Festino di Santa Rosalia del 2011; i XV Giochi delle Isole (23-29 maggio 2011); il Palermo fashion night tenutosi al Deposito delle locomotive a dicembre; la rassegna Inycon di Menfi e la Cous cous fest di San Vito Lo Capo del 2011. E poi la settimana tricolore di ciclismo tenutasi a giugno tra Messina, Catania e Siracusa; il Sicily modern penthatlon di ottobre (Messina e Catania); il Sicilian ladies open di golf tenutosi a Castiglione di Sicilia; i campionati mondiali di scherma di Catania e il Taormina Fashion Award. Gli uomini della Finanza stanno inoltre indagando sulla gestione dell'area ristoro del teatro di Verdura.

Le indagini dei pubblici ministeri Maurizio Agnello e Gaetano Paci, coordinati dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci, ruotano intorno alla figura del project manager Fausto Giacchetto che – stando a quanto emerso – sarebbe assurto al ruolo di intermediario tra la Regione e gli imprenditori che si aggiudicavano le gare d'appalto da questa aperte. Secondo l'accusa Giacchetto si sarebbe mosso in maniera illecita, tanto che vengono mosse contro di lui le accuse di corruzione e turbativa d'asta.

In tre giorni portate a termine tre importanti operazioni contro la criminalità pugliese

foto: corrieresalentino.it
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Lecce - “Cinemastore”, “Shopping Mall” e “The Wall”. Tre operazioni concluse dagli uomini dell'antimafia pugliese contro la criminalità locale, di cui le prime due contro la Sacra Corona Unita.

Lunedì 9 è stato infatti arrestato Pasquale Briganti, detto “Maurizio”, 43enne leccese a capo di uno dei nuovi clan della Sacra corona unita insieme ai fratelli Giuseppe e Roberto Nisi.
La sua latitanza durava dallo scorso gennaio, quando tutti e tre riuscirono a sfuggire all'operazione “Cinemastore”, con la quale la Direzione distrettuale antimafia, in collaborazione con la Mobile di Lecce, inferse un duro colpo all'organizzazione pugliese.

Briganti è stato arrestato a Capilungo, una delle marine di Alliste, dove faceva il turista. Lungo è stato il lavoro con il quale le forze dell'ordine sono riuscite ad arrestarlo, forti di un sistema di pedinamenti che aveva interessato tutta la rete di parenti ed amici che ruotava intorno al boss.

Secondo gli investigatori, il gruppo capeggiato da Briganti aveva il controllo – attraverso la gestione delle bische clandestine – del gioco d'azzardo, la riscossione del “punto” (la tassa che gli spacciatori non affiliati devono pagare ai clan) ed il traffico di stupefacenti da e verso la Puglia. A loro, inoltre, spettavano le nuove affiliazioni. Proprio Briganti era diventato di fatto il garante della pace tra i vari clan che formano l'organizzazione pugliese.

«Il fatto che Briganti sia riuscito a spostarsi sul territorio così frequentemente e senza tante difficoltà vuol dire, in primo luogo, che disponeva di ingenti risorse finanziarie e che poteva evidentemente contare sull'appoggio di diverse persone» – ha evidenziato il procuratore capo Cataldo Motta, che si è detto comunque soddisfatto dell'arresto. «Con la cattura di Briganti», ha concluso il procuratore, «abbiamo preso un esponente di grosso spessore della gestione del traffico di sostanze stupefacenti, estorsioni e bische clandestine. A questo punto posso dire che l'operazione “Cinemastore” è conclusa».

Conclusa, inoltre, anche l'operazione denominata “Shopping Mall”, iniziata il 4 maggio del 2011 con il sequestro di circa 360 chili di marijuana nascosti nella parte superiore del rimorchio-frigo di un autoarticolato proveniente dall'Albania e fermato nel porto di Brindisi. In quell'indagine furono inoltre trovati cellulari ed agendine con informazioni definite molto utili dagli inquirenti per il prosieguo dell'attività investigativa

Sequestrati 7 milioni in beni ai fratelli Sfraga, garanti del patto tra cosa nostra e i Casalesi

foto: corrieredisicilia.it
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Trapani - Sarebbero stati loro i garanti del “patto dell'ortofrutta”[1], l'accordo tra gli uomini di Matteo Messina Denaro ed il clan campano dei Casalesi basato – anche – sul controllo dei mercati ortofrutticoli siciliani e quello di Fondi, uno dei pilastri del potere criminale italiano. Il loro nome, inoltre, compare nell'inchiesta legata alle estorsioni nella quale è coinvolto anche Gaetano Riina, fratello di Totò “'u curtu”.

Nei giorni scorsi, in esecuzione dell'ordinanza del Tribunale delle misure di prevenzione, la Direzione investigativa antimafia ha sequestrato in beni l'equivalente di 7 milioni di euro ai fratelli Antonio e Massimo Sfraga, originari di Petrosino, centro agricolo del trapanese.

Sarebbero stati loro, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, ad aver preso il posto nella gerarchia economica dell'organizzazione criminale di Giuseppe Grioli, ex gestore dei punti vendita Despar nella parte occidentale della Sicilia condannato a 12 anni di carcere nel gennaio dello scorso anno[2].

Il Tribunale, oltre al sequestro dei beni, ha anche applicato la misura della sorveglianza speciale verso gli Sfraga, che per questo non potranno allontanarsi dal loro Comune di residenza per i prossimi quattro anni e due mesi. Tra i beni sequestrati cinque immobili adibiti a scopo abitativo situati tra Marsala e Mazara del Vallo; cinque appezzamenti di terreno di cui uno con annesso fabbricato rurale situati tra Marsala e Castelvetrano; le ditte omonime operanti nel settore del commercio all'ingrosso di prodotti ortofrutticoli, con sede a Strasatti di Marsala, per le quali è stato sequestrato anche il patrimonio aziendale; quote societarie; conti depositati verso vari istituti di credito e sedici tra autocarri e autovetture.

L'importanza che i due avevano nell'organizzazione è emersa già con l'operazione della Procura distrettuale antimafia di Napoli denominata “Sud Pontino”[3], con la quale erano stati entrambi condannati – per poi patteggiare – a tre anni di reclusione con l'accusa di concorrenza con minaccia e violenza sia come referenti delle famiglie dei Riina e dei Provenzano che, in concorso con altri, come referenti del clan campano dei casalesi, che è bene ricordare essere affiliati ai siciliani fin dagli anni Ottanta, quando Antonio Bardellino – affiliato direttamente all'organizzazione – aveva stretto legami con la mafia dei Buscetta, dei Badalamenti e dei Bontade. Rapporti poi ripresi con i trapanesi di Messina Denaro.

I fratelli Sfraga, stando a quanto emerso dalle indagini, operavano attraverso l'imposizione della Paganese Trasporti s.n.c., nelle disponibilità dell'organizzazione, per il trasporto merci nei mercati ortofrutticoli siciliani di Catania e Gela nonché in quelli di Fondi, Aversa e Giugliano.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/02/cosa-nuova-il-patto-dellortofrutta.html;
[2] Mafia, condannato Grigoli. Era il re dei supermercati, palermo.repubblica.it, 31 gennaio 2011;
[3] Operazione "Sud Pontino", 68 arresti di Antonio Turri, liberainformazione.org, 11 maggio 2010;

Operazione “Broken Wings”, tangenti sulla via del vento

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Trapani - Tutto è partito dalla denuncia di Salvatore Moncada, uno dei nomi “pesanti” da spendere quando si parla del mercato delle energie rinnovabili. A lui erano stati chiesti 70 mila euro per la progettazione di 7 parchi eolici. Senza quei soldi, naturalmente, i problemi burocratici sarebbero stati insormontabili ed il progetto non sarebbe mai stato portato a termine.

A richiedere i soldi Vincenzo Nuccio, funzionario del Genio militare arrestato durante l'operazione “Broken Wings”. Questi – stando a quanto emerge dalle indagini – sarebbe in affari con Vito Nicastri, il 55enne “signore del vento” tra i più importanti imprenditori del settore degli impianti eolici, il cui lavoro consiste proprio nella creazione di parchi eolici da rivendere.
Quest'ultimo avrebbe versato 150 mila euro a Nuccio in tangenti – giustificando la cessione di denaro come consulenza, in realtà mai effettuata – affidata all'ingegnere Francesco Nuccio, figlio di Vincenzo ed assunto da Nicastri finito anch'egli tra gli arrestati dell'operazione.
Gli altri due indagati, accusati di tentata concussione, corruzione, emissione ed utilizzo di falsa fatturazione sono il palermitano Claudio Sapienza e l'ennese Alberto Adamo, rispettivamente socio ed amministratore delegato – seppur solo nominalmente - della “Esp eolica service s.r.l.”. A controllare realmente l'azienda, secondo quanto scoperto dalla Guardia di Finanza, era proprio Nicastri, personaggio interessato più volte da indagini ed arresti. Prima di quello palermitano, infatti, l'imprenditore – definito nelle indagini in cui è incappato sempre come un “potente” - venne arrestato dalla Procura di Avellino nel 2009, quando venne accusato di indebita percezione di contributi pubblici nell'ambito dell'operazione “Via col vento”[1]. Proprio in quell'occasione il suo nome venne accostato a quello di Matteo Messina Denaro, di cui sono noti gli interessi nel settore dell'economia “verde”.

Oltre agli stretti legami politici – necessari per non perdere affari in un sistema iper-burocratizzato come quello della green-economy italiana, come quello con l'attuale presidente della Provincia di Trapani, Mimmo Turano – prima dell'arresto dei giorni scorsi sono stati accertati una serie di contatti con uomini di cosa nostra, come quelli con Mario Giuseppe Scinardo, imprenditore legato alla famiglia di Sebastiano Rampulla, ritenuto il rappresentante messinese dell'organizzazione. Nicastri e Scinardo, inoltre, sono in affari a Catania per la costruzione di un altro parco eolico a Vizzini, come ha raccontato anche dal colonnello Gaetano Scillia della Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta durante la sua deposizione nell'inchiesta “Iblis”[2]. La “Callari”, società riferibile a Scinardo, tra il 2005 ed il 2006 ha ricevuto 3.280.000 euro come contributo a fondo perduto dalla Regione Sicilia, per poi essere acquisita – otto giorni dopo – dalla società con sede in Lussemburgo Lunix, che vede tra i soci proprio Nicastri. A sua volta, questa cedette parte delle quote societarie ad una società quotata in borsa, la Alerion, rendendo ancor più difficile tracciare il percorso di quel denaro.

Oltre ai rapporti con cosa nostra, stando a quanto fin qui emerso Nicastri intratterrebbe anche rapporti con la 'ndrangheta, in particolare con le 'ndrine del cosiddetto “triangolo della morte” Platì-San Luca-Africo.
Proprio ieri, peraltro, gli uomini del Gruppo d'Investigazione sulla criminalità organizzata di Catanzaro, in collaborazione con i militari del Comando provinciale di Crotone, hanno sequestrato beni per un valore di circa 350 milioni di euro – in particolare il parco eolico “Wind farm Isola Capo Rizzuto”, da cui l'operazione ha preso nome – indagando a vario titolo 31 persone in esecuzione di un decreto di sequestro preventivo emesso dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, che sta indagando sulla presunta gestione della 'ndrina degli Arena, egemone nel territorio di Isola Capo Rizzuto[3].

«Al fine di diminuire la corruzione sarebbe opportuno semplificare e rendere meno oneroso l'iter burocratico che gli imprenditori devono percorrere per poter costruire opere pubbliche nel settore delle energie rinnovabili [nel caso dei parchi eolici i passaggi burocratici sono ben 26, ndr]» - ha spiegato il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo. «L'operazione appena portata a termine evidenzia come l'eolico, e in generale l'intero settore delle energie rinnovabili, mobiliti grandi quantità di risorse, con profitti abbastanza consistenti per le aziende» - ha aggiunto il procuratore - «Desta quindi gli appetiti della criminalità organizzata e di imprenditori senza scrupoli che di volta in volta ottengono autorizzazioni e facilitazioni con mezzi non legali».


Note
[1] Ad Alcamo arrestato «il signore del vento» di Rino Giacalone, liberainformazione.org, 11 novembre 2009;
[2] Iblis, l’accusa dell’imprenditore antiracket: «Usuraio mi invitò a votare per Lombardo» di Salvo Catalano, CTZen.it, 5 luglio 2012;
[3] Le mani della 'ndrangheta sull'eolico, 31 indagati, antimafiaduemila.com, 13 luglio 2012