Mafia e discariche, sedici condanne nell'operazione “Vivaio”

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Messina, 31 marzo 2012 – Sedici condanne e quattro assoluzioni. È quanto stabilisce la sentenza di primo grado della Corte d'Assise di Messina, presieduta da Salvatore Mastroeni, nell'ambito del processo “Vivaio”, volto a stabilire l'interesse della mafia barcellonese nella gestione dei rifiuti e delle discariche di Mazzarrà Sant'Andrea e Tripi.

Ad Aldo Nicola Munafò, accusato di essere l'esecutore materiale dell'omicidio di Antonino Rottino, avvenuto proprio nel territorio mazzarrese nel 2006, è stato comminato l'unico ergastolo. L'omicidio, hanno ricostruito gli inquirenti, si era reso necessario in quanto Rottino era venuto a conoscenza della contabilità del sito di Mazzarrà destinato allo smaltimento dei rifiuti e, per questo, doveva essere eliminato in quanto «sapeva troppo del business». Ventiquattro anni sono stati inflitti al boss dei “mazzarroti”, Tindaro Calabrese.

Condanna a dieci anni per Carmelo Bisognano, ex boss proprio del clan di Mazzarrà ed oggi collaboratore di giustizia, così come Alfio Giuseppe Castro, ritenuto il collegamento tra i clan del barcellonese e le famiglie di Catania, al quale sono stati inflitti quindici anni.

Il processo è scaturito da un'operazione del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri dell'aprile 2008 e che aveva portato all'arresto di quindici persone, accusate di associazione mafiosa finalizzata all'estorsione. Al centro delle indagini il sistema di controllo e gestione di appalti e subappalti da parte del clan, quali i lavori per la metanizzazione dei Nebrodi ed il raddoppio ferroviario della tratta Messina-Palermo. Proprio durante le indagini era venuto alla luce l'interesse diretto per le discariche di Mazzarrà e Tripi, in cui confluivano i rifiuti di molti comuni siciliani.

Operazione "Carte false", droga e truffa all'ombra del clan Laudani

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Catania, 31 marzo 2012 – Sgominato due notti fa, grazie ad un blitz congiunto dei carabinieri di Agrigento, Catania, Siracusa, Palermo ed Enna, un sodalizio criminale specializzato nel traffico di droga e nelle truffe a finanziarie. Cinquantadue, in tutto, le ordinanze di custodia cautelare emesse.
L'operazione arriva a conclusione di un'indagine, avviata nel 2009 dai carabinieri di Licata, grazie alla quale era venuta alla luce l'esistenza di tale sodalizio che riforniva le piazze di spaccio agrigentine di cocaina, hashish, marijuana, ecstasy ed anfetamine acquistate da “grossisti” catanesi vicini al clan Laudani e poi vendute in discoteche e locali notturni tra Catania, Taormina, Giardini Naxos, Rimini e Roma.
Oltre allo spaccio, le indagini hanno evidenziato un sistema di truffe a diverse finanziarie attraverso l'accurata falsificazione di documenti personali e buste paga (da qui il nome dell'operazione, “Carte false”) attraverso i quali sono stati acquistati beni di consumo per centinaia di migliaia di euro, che poi venivano rivenduti al mercato nero come forma di autofinanziamento per l'acquisto di nuove partite di sostanze stupefacenti.

Proprio l'ingresso del clan nelle indagini ha reso necessario l'intervento della Direzione distrettuale catanese, alla quale sono stati trasmessi gli atti per competenza.

L'ordinanza di custodia cautelare, emessa dal Giudice per le indagini preliminari Santino Mirabella su richiesta del sostituto della Direzione distrettuale antimafia catanese Lucio Setola, dispone l'arresto per ventisei indagati, gli arresti domiciliari per altri diciassette e l'obbligo di firma e di residenza nel proprio comune per altri nove più il sequestro di due automobili ed un bar di Licata.
I reati ipotizzati sono associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope; produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope in concorso; favoreggiamento personale; falsa identità personale in concorso; associazione per delinquere finalizzata alla falsificazione di documenti personali (anche di tipo militare, ndr), ricettazione.

Processo Iblis, imputazione coatta per Lombardo


Catania, 31 marzo 2012 – Tre giorni fa era arrivata la richiesta di archiviazione[1] presentata dalla Procura etnea, in base alla cosiddetta “sentenza Mannino”, in merito alla posizione di Raffaele ed Angelo Lombardo, accusati all'interno di uno specifico filone del procedimento “Iblis” di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio aggravato.

Luigi Barone, giudice per le indagini preliminari, a conclusione dell'udienza camerale tenutasi due giorni fa, non ha però accolto la richiesta disponendo invece l'imputazione coatta per entrambi i reati.

«Non sottoporrò la Regione al fango di un processo, se ci dovesse essere il processo mi dimetterò. Se ci sarà il rinvio a giudizio mi dimetto, non aspetterò né la Cassazione, né l'appello, né il primo grado», ha commentato il presidente della Regione nel corso dell'incontro tenutosi a Palazzo d'Orleans dopo la decisione, annunciando inoltre la volontà di scrivere un libro sulla vicenda.
La Procura di Catania – come previsto dal Codice di Procedura Penale – avrà adesso dieci giorni (otto mentre scriviamo, ndr) per formulare l'imputazione. Toccherà poi ad un altro giudice per le indagini preliminari fissare l'udienza.

La decisione del giudice Barone si basa sulla richiesta da parte dei due fratelli alla famiglia catanese di Cosa Nostra, facente capo al boss Vincenzo Aiello[2], di un aiuto elettorale per loro e per il Movimento per le Autonomie, durante le elezioni europee del 1999 e del 2004, per le provinciali del 2003, le regionali del 2006 e le elezioni nazionali, comunali e regionali del 2008. La conclusione del giudice è che sia impensabile che lungo questi dieci anni Cosa Nostra abbia appoggiato esponenti politici senza ottenere niente in cambio. Fino al 2006, comunque, il reato sarebbe prescritto.
Secondo pilastro su cui si basa la decisione riguarda la “messa a posto” della “Società appalti e forniture per acquedotti e bonifiche s.p.a.” (Safab s.p.a.)[3], società che si occupa di grandi appalti edili pubblici e privati, per i lavori del canale di gronda di Lentini, nel siracusano, vicenda già conosciuta nell'ambito del procedimento “Iblis” e riguardante il geometra Giovanni Barbagallo, che sarebbe intervenuto per sbloccare le autorizzazioni della società per un cantiere vicino Sigonella attraverso l'interessamento di Angelo Lombardo, come confermato anche da Paolo Ciarrocca, ex consigliere d'amministrazione della Safab arrestato nel 2009 dalla Procura di Palermo.

Corso dei Martiri, 50 anni dopo. Tutto in mano ai "Vicerè" di Catania


foto: cataniatoday.it
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Catania, 29 marzo 2012 – Lo scorso 18 novembre i catanesi avrebbero potuto festeggiare un avvenimento a suo modo storico. Con la firma dell'accordo tra il Comune ed alcune società private al Tribunale amministrativo regionale (Tar) etneo, infatti, veniva raggiunto «uno storico risultato, che consentirà la riqualificazione urbanistica di Catania e di creare delle occasioni positive per l'occupazione», come si affrettava a raccontare Giacomo Bellavia, vicepresidente della commissione Urbanistica. Dopo più di mezzo secolo, infatti, con un'operazione del valore di 250 milioni di euro, è stata posta fine alla “questione” Corso dei Martiri della Libertà nel quartiere San Berillo, centro storico del comune etneo.
“Avrebbero potuto festeggiare”, però, non è un refuso. Perché forse, da festeggiare, non c'è poi molto. Ma procediamo per gradi o, per meglio dire, per date.

Tutto parte addirittura nel 1950 quando si decide di attuare il “piano di risanamento” dell'Istituto immobiliare di Catania (Istica), istituito il 27 novembre con un capitale sociale di 55 milioni di euro, di cui le quote di maggioranza sono tenute dalla Società Generale Immobiliare di Roma di proprietà del Vaticano e dal Banco di Sicilia, ambedue con venti milioni di lire, ai quali si aggiungono i dieci della Cassa di Risparmio Vittorio Emanuele ed i 2,5, a testa, di Provincia e Camera di Commercio. Il compito dell'istituto era non solo quello di creare infrastrutture in una zona della città che non ne aveva, ma anche – e soprattutto – dare una grossa mano all'economia ed all'occupazione locali.

Il piano però nasce già storto, in quanto il progetto era stato letteralmente donato a titolo gratuito all'Istica dall'architetto Brusa della Società Generale Immobiliare, nonostante le istituzioni locali valutino il tutto in sessanta milioni di lire, prontamente versati.
Il 3 marzo dell'anno successivo il piano viene approvato dal Consiglio comunale, che provvede anche alla creazione dell'Ist-Berillo, la società a cui è affidato il compito di realizzare un nuovo quartiere per i trentamila abitanti – che da quel momento qualcuno inizierà a chiamare “i deportati” - che si erano opposti al progetto. È, questo, lo “sventramento” di San Berillo, anno domini 1954.

Con i 380 milioni provenienti dalla casse di Roma ed i 400 in arrivo dalla Regione, il 16 maggio 1952 il “piano Istica” entra nel Piano regolatore generale, secondo il quale sui 240 mila metri quadrati dell'area si sarebbe potuto costruire per un totale di 1.800.000 metri cubi, espropriando – laddove necessario – entro e non oltre il febbraio 1960, così da consegnare il lavoro finito entro il 3 luglio 1969, data di “chiusura ufficiale” dei lavori.

Processo Rostagno, a confronto Carla Rostagno e "lo smemorato" maresciallo Cannas

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Trapani, 28 marzo 2012 – Udienza numero ventisei, quest'oggi, per il processo volto a stabilire la verità dei fatti sull'omicidio di Mauro Rostagno a Valderice, il 26 settembre 1988. Anche questa volta, come avvenuto per l'udienza di due settimane fa[1] è presente, nell'ambito del progetto legalità è presente una scolaresca. La scorsa udienza c'erano i ragazzi dell'istituto “D'Amico”, oggi – accompagnati dal professor Andrea Tilotta, docente di diritto – i ragazzi del liceo “Rosina Salvo” di Trapani.
Per questa udienza era stato programmato il confronto tra Carla Rostagno, sorella del giornalista, per la quale l'avvocato Vito Galluffo, difensore del boss Vito Mazzara ha chiesto la non compatibilità della sua presenza in aula, ed il maresciallo dei carabinieri Beniamino Cannas, che Chicca Roveri, compagna di Mauro Rostagno, sostiene essere stato una stretta “fonte” di Rostagno. «Carla Rostagno mi chiese se avevo davvero ottimi rapporti col fratello, confermai che era così, che ci si vedeva ogni tanto», ha risposto il maresciallo al pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Francesco Del Bene, in merito ad un suo incontro avvenuto quattro anni dopo l'omicidio proprio con Carla Rostagno la quale – ha continuato il teste - «mi esternò dubbi su Cardella (Francesco Cardella, cofondatore insieme a Rostagno della comunità di recupero per tossicodipendenti “Saman” a Trapani, ndr) dicendo che non fece nulla per evitare l'omicidio».
«Non ricordo» è stata invece la risposta data al procuratore Gaetano Paci in merito all'incontro tra Mauro Rostagno ed il boss di Campobello di Mazara Natale L'Ala, legato a Cosa Nostra attraverso i Badalamenti ed iscritto alla loggia massonica Scontrino (dunque Iside 2) che, secondo le ricostruzioni fatte dallo stesso – e riportate in aula a settembre dalla sorella del giornalista – avrebbe fortemente turbato Rostagno. Cannas poi, «non sa» se ci siano stati incontri tra Mariano Agate, boss di Mazara del Vallo appartenente anche alla massoneria e Licio Gelli, la cui presenza nel trapanese è però data per certa «da un rapporto giudiziario del 22 giugno '86 o '87».
Dopo essersi scagliato ripetutamente contro gli organi di stampa, accusati di averlo maltrattato ed ingiustamente attaccato ed aver attribuito la paternità delle indagini al maggiore Nazareno Montanti ed al maresciallo Bartolomeo Santomauro dato che lui non si occupò del delitto (pur avendo preso parte ai sopralluoghi, come testimoniava a settembre) il teste ha evidenziato come nell'ufficio corpi di reato fossero stati violati i sigilli delle scatole contenenti il materiale sulla Iside 2.

Cosa Nuova d'importazione. Organizatsya, dall'onore ai narco-rubli

foto: lavoce.cz
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Roma, 26 marzo 2012 – Seconda ed ultima parte (la prima potete leggerla qui) del nostro viaggio in “Organizatsya”, nome con cui si indica tutto quell'universo di organizzazioni criminali dell'area ex-sovietica che per semplicità chiamiamo “mafia russa”. Dopo aver conosciuto alcuni dei suoi uomini chiave, ed aver visto come e quando in Italia inizia ad esserci un serio “allarme”, in questa seconda parte – che rappresenta anche la fine del nostro approfondimento cominciato agli inizi di febbraio – vedremo quale è stata la storia di questa organizzazione e fin dove, ad oggi, i nostri inquirenti sono arrivati.

A creare – quanto meno in termini mediatici – la “mafija” russa, nel 1988, è il tenente colonnello Aleksander Gulov, che per la prima volta ne denuncia l'esistenza in un'intervista al settimanale “Literaturnaja Gazeta”. L'organizzazione, però, nasce già negli anni Venti del secolo scorso, all'epoca dei gulag staliniani, dove venivano inviati capi-banda, estorsori e traffichini vari, che si impossessavano della gestione delle poche risorse presenti nei campi, dove i gruppi criminali crearono una prima forma di struttura gerarchica nazionale ed un vero e proprio codice d'onore, che prevedeva l'impossibilità di relazionarsi con le autorità, sia all'interno che all'esterno del campo, il rifiuto della violenza – derogabile solo in caso di legittima difesa – e la risoluzione pacifica delle controversie che potevano nascere tra i gruppi e solo dopo parere favorevole dello “Skhodka”, un vero e proprio tribunale dell'organizzazione, al quale era affidato anche il compito di affiliare nuovi membri. Particolare, per quella forma di criminalità, era l'idea del denaro – che nei campi veniva acquisito per lo più attraverso estorsioni, saccheggi e gioco d'azzardo – il quale non doveva essere usato per l'arricchimento del singolo ma messo a disposizione dell'intera organizzazione attraverso una cassa comune, detta "Obshchak”, che doveva essere finanziata anche una volta usciti dal campo, così da trovare il necessario sostentamento per le famiglie degli internati (pratica che ben conosciamo attraverso i racconti fatti da esponenti della camorra campana, ad esempio).

Le uniche cose che verranno tramandate alla criminalità organizzata venuta a colmare il vuoto di potere ed economico derivante dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica saranno il culto dei tatuaggi, utilizzati per raccontare la storia criminale del singolo affiliato, e il “capitale mitologico” - come lo chiama Federico Varese, professore di criminologia ad Oxford ed autore nel 2001 di “The Russian Mafia. Private protection in a new market economy” - su cui gli affiliati basavano la propria morale.

Agrigento, Arnone è troppo antimafioso. Per questo il Pd punta su Pennica

foto: nentisapia.it
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Agrigento, 25 marzo 2012 – Se Palermo piange, Agrigento non ride, parafrasando il vecchio detto. Al centro, ancora una volta, le strane scelte del Partito Democratico nell'isola, che nel capoluogo si spacca pur di allearsi, trasversalmente, a Raffaele Lombardo e ad Agrigento, con un candidato interno di cui – al netto dei brogli elettorali – sarebbe già certa la vittoria a maggio, decide di puntare su un altro candidato.

Popolo della Libertà e Partito Democratico, infatti, si contendono Salvatore Pennica (nella foto), ex segretario di Calogero Mannino ed oggi vicino ad Angelino Alfano. È una ferrea legge della politica quella secondo la quale si è maggiormente candidabili quanto più si è conosciuti. Peccato che Pennica sia conosciuto per essere l'avvocato di importanti capimafia agrigentini, motivo che lo ha spinto a scrivere al Prefetto perché preoccupato che alcuni dei suoi clienti in libertà possano presenziare agli appuntamenti con i suoi elettori, facendogli fare non proprio una gran figura. «Continuerò a fare riunioni pubbliche nei quartieri di Agrigento» - ha detto Pennica a margine della conferenza stampa per presentare la lettera alle forze dell'ordine - «e siccome sono un conoscitore dei fenomeni processualmente della mafia, nei territori ove il fenomeno è stato indicato, prima di fare riunioni avvertirò le autorità di polizia, poiché esigo la massima vigilanza sul mio operato. Non sono nelle condizioni di promettere niente, quel poco che prometterò riguarda il programma». Più che sulla presenza alle riunioni pre-elettorali, dato il chiaro allarme, sarà probabilmente il caso di avere la stessa solerzia anche ad urne aperte, dove – come sappiamo – la presenza della criminalità organizzata si fa più interessata.

Dall'altro lato Giuseppe Arnone, anch'egli avvocato, consigliere comunale dei democratici e noto militante di Legambiente, da sempre impegnato in prima persona contro la criminalità organizzata. Un curriculum praticamente perfetto per un partito che per mesi ha parlato di “questione morale”. «Pennica ed io rappresentiamo due storie professionali dell'avvocatura siciliana molto significative ma molto diverse» - ha scritto in una nota Arnone nei giorni scorsi - «Totò Pennica è uno dei migliori avvocati in assoluto della realtà siciliana della nostra generazione ed essendo uno dei migliori a lui si rivolgono i “potenti” con problemi con la giustizia, cioè esponenti della politica e della mafia accusati di reati. Io, invece, per scelta professionale difendo le vittime dei reati e le vittime delle ingiustizie e non accetto difese di persone accusate di mafia né di potenti politici».

Eppure tutti appoggiano Pennica, che inizialmente era il candidato di una larghissima coalizione che andava dai democratici al Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo passando per Futuro e Libertà e Grande Sud. Tra i partiti maggiori, nell'isola, all'appello mancava in pratica solamente il Popolo della Libertà, che Pennica – sulla falsariga del “tradimento” di Massimo Costa a Palermo[1] - ha pensato bene di coinvolgere nella sua corsa elettorale, dando il via al valzer delle polemiche.

Arnone, per il quale peraltro ad Agrigento si è rinunciato anche alle primarie per evitare una sua facile vittoria (sarebbe infatti ben cinque punti sopra il sindaco uscente Marco Zambuto), quando l'accordo Pd-Pennica sembrava cosa fatta ha scritto direttamente a Pierluigi Bersani, grande assente nel caos vissuto dal partito in queste ultime settimane nell'isola.
Sarà interessante, a maggio, capire come il segretario nazionale giustificherà una eventuale sconfitta del suo partito in Sicilia. Ma forse, come per Palermo, lascerà parlare la dirigenza regionale.

Note
[1] http://www.infooggi.it/articolo/palazzo-delle-aquile-movimenti-a-destra/25546/

Trapani, sorvegliato speciale con poltrona da presidente della commissione lavori pubblici

foto: a.marsala.it
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Alcamo (Trapani), 25 marzo 2012 – Ieri parlavamo[1] dello scioglimento per mafia del Comune di Salemi, dove forte era stato l'interessamento dei commissari verso l'operato di Pino Giammarinaro, “deus ex machina” della politica cittadina nonostante non avesse alcun ruolo istituzionale.

Mentre i riflettori dei media principali sceglievano Salemi, a Trapani Pietro “Pitrinu” Pellerito, 53 anni – che come raccontava due giorni fa Rino Giacalone[2] entra ed esce dagli atti giudiziari che si occupano di mafia fin dal 1988 - veniva raggiunto dalla notifica della misura di sorveglianza speciale per due anni e premiato con il mantenimento del ruolo di presidente della commissione lavori pubblici del Consiglio provinciale, carica che ricopre dal luglio 2010.
Il provvedimento, al quale si aggiunge l'obbligo di soggiorno per due anni ad Alcamo, dove Pellerito risiede, era stato proposto già nel 2010 dal questore di Trapani a seguito della «elevata e qualificata pericolosità sociale di Pellerito» e notificato dalla divisione anticrimine diretta dal dottor Giuseppe Linares, in quanto da un'indagine della Procura antimafia di Palermo Pellerito ruoterebbe nell'orbita mafiosa dei fratelli Niccolò, detto “Cola”, a capo della consorteria criminale alcamese fedele a Matteo Messina Denaro e Diego Melodia, rispettivamente 88 e 76 anni, in lotta tra loro per la spartizione di appalti, estorsioni e politica.

Pellerito, ex Unione di centro – partito che abbandonò quando fu coinvolto nell'operazione antimafia “Dioscuri” del 2009[3] – oggi consigliere provinciale a Trapani per Alleati per il Sud, è stato condannato a sei anni in un processo dove fu accusato di aver fatto sparire la certificazione medica in merito ad un incidente sul lavoro di un operaio assunto in nero dalla “Medi Cementi”, riconducibile all'imprenditore alcamese Liborio “Popò” Pirrone, condannato a dieci anni di reclusione nell'ambito dell'inchiesta “Cemento libero”.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/03/salemi-la-regia-occulta-esiste-il.html;
[2] Mafia: consigliere provinciale condannato per falso e sorvegliato speciale, non si dimette e diventa presidente della commissione lavori pubblici di Rino Giacalone, antimafiaduemila.com, 23 marzo 2012;
[3] Alcamo, i «nonni» e le «donne» della mafia di Rino Giacalone, liberainformazione.org, 3 novembre 2009

Continua il tentativo di scarcerare il gotha di Cosa Nostra. Aiello torna a Bagheria per favismo

foto: ienesiciliane.it
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Palmermo, 25 marzo 2012 – Prima Totò “'u curtu” Riina, sottoposto a perizia psichiatrica agli inizi di febbraio[1], poi Bernardo Provenzano[2], per il quale era stata chiesta identica perizia. In entrambi i casi, però, il tentativo di utilizzare le perizie come arma di scarcerazione – sul cui utilizzo ha scritto Corrado De Rosa ne “I medici della camorra” - non era andato a buon fine, così che nessuno dei due sia stato scarcerato.
Ora tocca al “re mida di Palermo”, Michele Aiello, che si è scoperto – dopo un anno e due mesi di detenzione – essere affetto da favismo, cioè l'intolleranza a fave e piselli, di fatto l'unica costante nella dieta dei detenuti aquilani.

«Il vitto carcerario non ha consentito un'alimentazione adeguata del detenuto, risultando dal diario nutrizionale la presenza costante di alimenti potenzialmente scatenanti una crisi emolitica e assolutamente proibiti». Con queste parole il Tribunale di sorveglianza aquilano ha chiesto per Michele Aiello, il re della sanità siciliana condannato a quindici anni e sei mesi per associazione mafiosa in quanto ritenuto l'alter ego di Bernardo Provenzano nella sanità siciliana e condannato nell'ambito del processo, relativo all'indagine “Talpe in Procura”, che ha portato a Rebibbia l'ex presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro

Al carcere di Sulmona, dove Aiello è attualmente detenuto, il menù quotidiano sarebbe sempre a base di legumi, potenzialmente dannosi per la salute dell'ex re delle cliniche che – come hanno evidenziato anche Brigida Galletti ed Antonello Colangeli, periti chiamati dal Tribunale – in questo modo rischierebbe la vita. Da qui la decisione di differire la pena, per un anno, e farlo tornare a Bagheria, ai domiciliari.

L'articolo 9 dell'ordinamento penitenziario prevede che vi sia «un'alimentazione sana e sufficiente, adeguata all'età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima», da qui anche il commento di Nino Di Matteo, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e pubblico ministero del processo di primo grado contro Aiello, che si è chiesto «cosa abbia impedito di cambiare il menù o la dieta di Aiello oppure che cosa non abbia consentito di valutare la possibilità di un trasferimento in una struttura penitenziaria in cui si potessero curare i suoi problemi di salute».

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/01/riina-da-u-curtu-u-pazzu.html;
[2] Provenzano ha una grave forma di demenza senile? Disposta perizia, Rosalio.it, 18 gennaio 2012;

Cosa Nuova(d'importazione). Organizatsya apre la lavanderia Italia

foto: it.novopress.info
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Roma, 25 marzo 2012 – Sasha lo ritrovano strangolato nei boschi intorno ad Atene, il 2 febbraio 1997. Un mese dopo la polizia italiana fa irruzione nel suo lussuoso appartamento di via Gregorio VII, a Roma, dove in un armadio a muro, tra pantofole di Gucci e camicie di Pal Zileri vengono rinvenute due mitragliette Skorpion, due kalashnikov, dieci pistole di calibro vario, silenziatori, qualche centinaio di munizioni, pugnali, binocoli di precisione, radiotrasmittenti, parrucche, documenti falsi e, naturalmente, i puntatori laser che per anni hanno segnato gli ultimi attimi di vita dei boss russi rivali. Perché Sasha, prima di ritrovarsi morto in un bosco nei pressi di Atene, faceva il killer.

Conosciuto anche come “il Macedone” o “il Grande”, quando torna a Kurgan – la cittadina della Siberia sud-occidentale che gli dà i natali nel 1960 – lo chiamano Aleksandr. Che è poi il suo nome di battesimo. Aleksandr Viktorovich Solonik, passato attraverso la lotta libera nella Lokomotiv ed una carriera nell'Armata Rossa (o forse, come narra la leggenda, nei reparti speciali Omon, fondati nel 1979 in vista delle olimpiadi moscovite, per evitare una nuova “Monaco 1972”[1]) interrotta per motivi mai realmente chiariti per poi diventare uno dei pochi cecchini a saper sparare con entrambe le mani.
Due anni prima, nel 1995, si era reso protagonista di una rocambolesca fuga – considerando anche il fatto che al momento del suo arresto un proiettile gli ha bucato un rene - dal carcere moscovita Matrosskaja Tishinà, dove qualche giorno prima era entrato in servizio il sergente Sergeij Menshikov, nome farlocco dietro cui si cela l'uomo che lo fa evadere, scalando la parete del carcere attraverso una serie di chiodi da roccia precedentemente fissati.
In carcere, Sasha ci arriva come capo della Brigata Kurganskaja, un centinaio di affiliati in tutto, tra i principali clan che partecipano alla guerra di mafia russa della prima metà degli anni Novanta, dove il suo puntatore laser lascia a terra personaggi come “Kalina”, al secolo Viktor Nikiforov, considerato dalla polizia uno dei più potenti criminali della città od il georgiano Otari Kvantrishvili, uno dei boss più potenti della storia russa. Tra un omicidio e l'altro, il gruppo si dedica alle estorsioni, al riciclaggio ed ai traffici internazionali, in particolare di armi e stupefacenti. Ci sarebbero proprio loro, dicono gli inquirenti italiani, dietro al traffico di persone sordomute costrette all'accattonaggio a Prato, nel 2000[2].

Processo Mori-Obinu, la testimonianza lacunosa del generale Ganzer

foto: dazebaonews.it
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Palermo, 24 marzo 2012 – È salito sul banco dei testimoni come comandante del Raggruppamento operativo speciale dell'Arma dei carabinieri il generale Giampaolo Ganzer (nella foto), nei mesi scorsi condannato in primo grado a quattordici anni «aver costituito un'associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso ed altri reati», chiamato a deporre al processo contro il generale Mario Mori ed il colonnello Mario Obinu in merito alla mancata cattura di Bernardo Provenzano[1].

Evidenziando come non fosse a conoscenza di una trattativa tra organi dello Stato e Cosa Nostra, la difesa ha incentrato le sue domande sull'applicazione del regime carcerario del 41bis, chiedendo al generale Ganzer di spiegare il suo rapporto e gli argomenti trattati nei diversi incontri – formali ed informali, come ha sottolineato il teste - con Francesco Di Maggio, nel 1993 vicedirettore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (il Dap) e da sempre molto vicino ai Servizi, deceduto nell'ottobre 1996. Al centro dei colloqui, naturalmente, quegli attacchi verso i quali «non bisognava dare segnali di cedimento», che invece arriveranno con le mancate proroghe a 334 provvedimenti di carcere duro. Secondo la ricostruzione di Ganzer, però, nei colloqui si parlava esclusivamente di come avvicinare gli esponenti di Cosa Nostra in carcere per farli collaborare.
Ai colloqui – ha continuato il generale nella sua deposizione – oltre a lui c'erano il già citato Di Maggio e Umberto Bonaventura, colonnello del Sismi deceduto nel 2002. Di Mario Mori neanche l'ombra.

La prima falla nella ricostruzione si apre proprio sulla posizione di Mori che, secondo la ricostruzione del responsabile della sicurezza di Di Maggio, era invece presente, come testimonierebbe peraltro un appunto datato 22 ottobre 1993 dell'agenda del generale oggi sul banco degli imputati.
Otto giorni dopo il Dap manderà una lettera alla procura di Palermo, anticipando la mancata proroga del regime del 41bis.

La prossima udienza del processo, prevista per il 30 marzo, vedrà la testimonianza dell'ex presidente del Consiglio dei Ministri Giuliano Amato alla quale seguiranno, in data ancora da definire, le deposizioni dell'ex direttore del Dap, Nicolò Amato – che dovrà essere ascoltato a Roma, in un'apposita udienza, per motivi di salute – dell'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso e dell'ex dirigente del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Adalberto Capriotti.

Note
[1] Processo a Mauro Obinu e Mario Mori, Radio Radicale;

Salemi, la "regia occulta" esiste. Il Consiglio dei ministri scioglie il Comune

foto: belicenews.it
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Salemi (Trapani), 24 marzo 2012 - Il dossier sulla cittadina trapanese fino a qualche mese fa amministrata da Vittorio Sgarbi era sul tavolo della ministra dell'Interno Anna Maria Cancellieri da febbraio, da quando cioè gli ispettori della commissione d'accesso – inviati da Roberto Maroni su richiesta del prefetto trapanese Marilisa Magno – dopo aver studiato bene i documenti avevano proposto lo scioglimento del Comune.

Parte della relazione è stata destinata ad una vera e propria critica sui metodi scelti per la gestione del comune, dove prassi consolidata era divenuta quella di affidare consulenze esterne per migliaia di euro senza – dall'altro lato – essere in grado di onorare i debiti contratti con i fornitori.

Conferme, nella relazione, vengono poi per quanto prospettato nell'ambito dell'operazione della Polizia e della Guardia di Finanza denominata “Salus Iniqua”, e cioè che l'ex democristiano Pino Giammarinaro, assolto tempo fa da un'accusa per mafia ma interessato da varie indagini nel contesto della criminalità organizzata, pur non avendo un ruolo ufficiale all'interno delle gerarchie burocratiche cittadine, fosse tenuto in forte considerazione allorquando vi era la necessità di risolvere problemi di natura politica. Proprio il ruolo ricoperto dall'ex andreottiano ed ex cuffariano, sottoposto a regime di sorveglianza speciale per quattro anni, aveva portato alle dimissioni del fotografo Oliviero Toscani, scelto da Sgarbi nel 2008.

Con l'applicazione del decreto di scioglimento approvato ieri, vengono posticipate di diciotto mesi le elezioni previste per il 6 e 7 maggio prossimi. Nel frattempo al magistrato Guglielmo Serio – che ha fin qui svolto il ruolo di commissario straordinario, non senza polemiche dato che il suo primo atto fu quello di andare ad omaggiare l'ex sindaco Sgarbi – subentreranno tre commissari individuati dal Consiglio dei ministri, che ieri, oltre alla cittadina trapanese, ha deliberato lo scioglimento anche per i Consigli comunali di Pagani (Salerno), Gragnano (Napoli), Bova Marina e Platì (Reggio Calabria) e Racalmuto (Agrigento).

Note
[1] Salus Iniqua: Sanità e appalti di Rino Giacalone, Malitalia.it, 21 maggio 2011

Catania, il clan dei Carateddi voleva uccidere il pm Pasquale Pacifico

foto: soniaalfano.it
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Catania, 22 marzo 2012 - È stato scoperto nei giorni scorsi dai carabinieri il progetto di un attentato ai danni del sostituto procuratore Pasquale Pacifico, in servizio presso la Direzione distrettuale antimafia catanese, che coordina le inchieste sui clan Cappello e Laudani e che nei mesi scorsi ha coordinato l'operazione della Squadra Mobile di Catania, denominata “Revenge”, contro il gruppo emergente dei “Carateddi”, una delle frange del clan Cappello il cui capo – Sebastiano Lo Giudice – è attualmente detenuto.

L'attentato, come emerso dalle indagini, sarebbe stato uno dei primi episodi della faida con cui il gruppo voleva sfidare la famiglia dei Santapaola per la spartizione del territorio catanese e degli affari illeciti, in particolare per quanto riguarda il traffico di sostanze stupefacenti.

È toccato invece ai carabinieri del Comando provinciale di Messina – la cui Procura è competente sui reati che riguardano i loro colleghi catanesi – notificare un'ordinanza di custodia cautelare in carcere al catanese Orazio Finocchiaro, 40 anni, esponente dei “Carateddi”, detenuto al Nord per altri fatti, considerato il mandante dell'attentato.
Secondo le ricostruzioni, Finocchiaro nella seconda metà dell'anno scorso avrebbe inviato una serie di lettere, intercettate dalla Mobile catanese, ad un altro affiliato al clan – che ha poi deciso di collaborare con la giustizia – nelle quali scriveva che i kalashnikov per uccidere il procuratore fossero già pronti.
Finocchiaro, peraltro, sarebbe tornato in libertà tra qualche tempo, e secondo gli inquirenti, data la sua caratura all'interno dell'organizzazione, avrebbe fin da subito cercato di assumere il controllo della cosca.

«Quando decidi di fare il magistrato antimafia, metti nel conto anche queste cose. Io sono tranquillo, sereno e continuo a fare il mio lavoro», ha commentato il procuratore Pacifico.

Giovanni Spampinato, omicidio in quattro silenzi

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Ragusa, 21 marzo 2012 - «Questa non è una cronaca. Questo è un omicidio collettivo».
Sono gli anni Settanta. Gli anni dei Salazar in Portogallo, dei colonnelli in Grecia e del tentativo di spostare a destra l'asse politico europeo.
In Italia, mentre la gente canta “I giorni dell'arcobaleno” di Peppino Di Capri, che aveva trionfato quell'anno al festival della canzone italiana, vengono uccisi l'imprenditore Giangiacomo Feltrinelli (per il quale mai è stato chiarito se si tratti di omicidio o di semplice errore nella progettazione delle bombe), il commissario Luigi Calabresi e lo studente anarchico Franco Serantini. Tre anni prima, il 12 dicembre 1969, alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano, una bomba aveva dato il via alla strategia della tensione.

Feltrinelli, Calabresi, Serantini, Piazza Fontana. Era di questo che parlavano le prime pagine dei giornali dell'epoca. Era questo il centro della scena.

E la periferia? Cosa succedeva nella periferia (geografica e mediatica)?
In periferia succedeva, ma lo si scoprirà solo qualche tempo dopo, che Junio Valerio Borghese, il “Principe Nero” della X Mas chiedesse – come raccontato da alcuni collaboratori di giustizia – la collaborazione di Cosa Nostra per il suo tentativo di destabilizzare l'ordine democratico attraverso un colpo di Stato. Ma anche l'eversione nera, Cosa Nostra e la strategia della tensione erano notizie da prima pagina.

Sigarette ed opere d'arte. Queste, invece, erano notizie “periferiche”, di quelle a cui oggi si dedicherebbero solo poche righe, e forse nemmeno tanto approfondite.
È di questo, del contrabbando di sigarette e di opere d'arte, che si parla in quegli anni a Ragusa, Sicilia Orientale. Anche lì, come a Milano, ci sono le bombe fasciste, che magari scelgono le sedi dei sindacati “rossi” piuttosto che le banche, ma sempre di bombe si parla.

«Aprite! Aprite! Ho appena ucciso un uomo. Sono Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale di Ragusa».
Quando si costituisce, ancora sporco di sangue e con la pistola in mano, Roberto Campria è ancora in stato confusionale. Ma d'altronde c'è chi dice che quello sia il suo normale stato mentale. Era la notte tra il 27 ed il 28 ottobre 1972.

Ha appena ucciso un uomo, Campria. Si chiama Giovanni Spampinato, 26 anni. In quegli anni fa il giornalista per il quotidiano “L'Ora” di Palermo e per “L'Unità”, ed è anche molto bravo, dato che molti dei suoi articoli vengono pubblicati in prima pagina.

Catania, dopo Salvi in Procura torna Amedeo Bertone. Inizia una nuova stagione antimafia?

foto: vivienna.it
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Catania, 18 marzo 2012 - È di qualche giorno fa la nomina da parte del Consiglio Superiore della Magistratura di Amedeo Bertone (al centro nella foto) come Procuratore aggiunto a Catania, dove nello stesso ruolo è stato confermato Michelangelo Patanè.

Per Bertone, 61 anni, negli ultimi anni al fianco del Procuratore Sergio Lari a Caltanissetta, dove in questi giorni aveva firmato le richieste sulla strage di via D'Amelio, si tratta di un ritorno. Tra i fondatori della Direzione Distrettuale Antimafia catanese, proprio a Bertone si devono varie indagini sul clan Santapaola, in particolare il procedimento denominato “Orsa Maggiore” - la più importante operazione sui fiancheggiatori della famiglia mafiosa portata avanti dalla magistratura catanese – e, soprattutto, a lui si deve la condanna dei responsabili dell'omicidio del giornalista Pippo Fava, ucciso il 5 gennaio 1984.
Borsista della cattedra di Diritto privato dell'università etnea, entra in magistratura come pretore a Crema nel 1979. Nel 1985 viene chiamato a Catania, come sostituto procuratore. Cinque anni dopo entra a far parte del Pool antimafia catanese e, nel 1991, della Direzione distrettuale antimafia.

Dopo l'arrivo di Giovanni Salvi come procuratore capo ad ottobre[1] e distintosi per essere stato il primo procuratore ad aver presenziato[2] alla commemorazione dell'omicidio del giornalista di Palazzolo Acreide,, il ritorno di Bertone – entrambi peraltro appartenenti a Magistratura Democratica, la corrente di sinistra della magistratura - si sta per chiudere, finalmente, la stagione delle ombre sulla Procura catanese?

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2011/11/procura-di-catania-eletto-lo-straniero.html;
[2] Fava, storica visita del procuratore capo
Rinascono intanto I Siciliani. Ma Giovani
di Clauda Campese, CtZen.it, 6 gennaio 2012

Palermo, arrestate due "maman" dopo la denuncia di una connazionale

foto: migrantitorino.it
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Palermo, 18 marzo 2012 - Sono state arrestate ieri dalla squadra mobile di Palermo in esecuzione di ordinanza del giudice per le indagini preliminari palermitano Guglielmo Nicastro, Mary e Joustine Irriah, 29 e 32 anni, accusate di tentata estorsione e lesioni personali verso una loro connazionale, costretta dalle due a prostituirsi.

La vittima era arrivata in Lombardia qualche anno fa e poi chiamata a Palermo da un'amica con la possibilità di un posto come badante. Arrivata nel capoluogo siciliano, però, era stata costretta a prostituirsi, anche per la necessità di inviare denaro alla famiglia, rimasta in Nigeria. Da qui l'avvicinamento delle due “maman”, alle quali doveva corrispondere quattrocento euro al mese per la concessione del pezzo di marciapiede dove la donna veniva fatta prostituire.

Al suo rifiuto è stata sfregiata al viso con una bottiglia di vetro rotta, picchiata, ustionata con olio bollente e minacciata.
Da qui la decisione di lasciare la Sicilia, non prima di aver denunciato le due donne, residenti nel quartiere Ballarò, dove è stata arrestata una delle due sorelle. L'altra è stata raggiunta dai carabinieri poco prima che salisse su un autobus in direzione Trapani.

Parco commerciale Barcellona Pozzo di Gotto, quindici indagati per abuso d'ufficio

foto: rifondazionecomunistasicilia.it
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Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), 18 marzo 2012 - Sono in tutto quindici gli indagati nell'ambito dell'inchiesta giudiziaria aperta dalla Procura barcellonese in merito al Parco commerciale di contrada Siena, la cui proprietà e gestione – attraverso la Dibeca sas – sarebbe riconducibile a Rosario Pio Cattafi, avvocato definito nel 2005 dalla stessa Procura «capo di una consorteria criminale» in azione sul territorio barcellonese[1]. Il reato contestato loro dal sostituto procuratore Francesco Massara è quello di abuso d'ufficio in concorso determinato dall'altrui inganno.

Nel procedimento sono stati iscritti lo stesso avvocato Cattafi, la legale rappresentante pro-tempore della società, Ferdinanda Corica, moglie di Stefano Piccolo, dottore commercialista legato all'avvocato di cui parla una relazione del Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata della Guardia di Finanza di Firenze in merito ai rapporti tra Cattafi e la famiglia mafiosa catanese dei Santapaola nonché Nicoletta Di Benedetto in Cattafi ed i figli Maria ed Alessandro, soci dell'immobiliare “Dibeca”.

Avviso di proroga di indagine anche per l'ingegnere Orazio Mazzeo, responsabile unico del procedimento con il quale è stato approvato il piano regolatore particolareggiato del Parco commerciale e presidente della Commissione edilizia urbanistica comunale ed i progettisti del Piano regolatore, gli architetti Mario e Santino Nastasi.
Tra gli indagati, infine, il presidente pro-tempore della Grande Distribuzione Meridionale Piergiorgio Sacco, la cui società è sottoposta a Milano a procedura di concordato preventivo, il tecnico di fiducia della società, geometra Filippo Leopatri ed i cinque componenti della Commissione edilizia urbanistica comunale insediatasi il 25 ottobre del 2007 e che, con la seduta del 3 giugno 2008, avrebbe portato al termine l'esame del Piano regolatore particolareggiato.

L'”affaire-Parco commerciale” - la cui area è stata posta sotto sequestro dalla Procura distrettuale antimafia messinese, lo scorso anno, in quanto bene riconducibile a Cattafi – era stato inserito nel dossier con cui il 24 novembre la ministra dell'Interno Anna Maria Cancellieri ha firmato il decreto di accesso agli atti del Comune, necessario per «verificare la procedura adottata dall'amministrazione comunale per la localizzazione del parco commerciale e ciò per stabilire possibili condizionamenti della criminalità organizzata nell'attività amministrativa del Comune di Barcellona».
Proprio sul lavoro dell'amministrazione comunale è nato un piccolo “giallo”: l'abuso d'ufficio contestato agli indagati indica nel 16 novembre 2009 la data in cui il reato sarebbe stato commesso, giorno nel quale il Consiglio comunale approvò, con un solo voto contrario, la delibera numero 59 riguardante il Piano regolatore del Parco commerciale. Allo stato degli atti notificati agli indagati, però, non risultano componenti del consiglio comunale. Era stato lo stesso sindaco Candeloro Nania, nella memoria difensiva inviata alla Commissione interforze di accesso agli atti che, riferendosi proprio alla delibera numero 59, aveva evidenziato come «il Consiglio comunale, quando non è in discussione un tema che attiene all'indirizzo politico, non può che tener conto della regolarità o meno dell'atto posto alla sua attenzione, secondo i pareri e le proposte degli organi tecnici competenti valutando la conformità della proposta all'interesse pubblico».
Decade, con questi arresti, quella che qualcuno ha definito come "teoria del complotto", volta a screditare il lavoro del giornalista Antonio Mazzeo e dell'associazione antimafia "Rita Atria", primi a denunciare quello che stava avvenendo all'ombra del Parco commerciale.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/02/barcellona-pozzo-di-gotto-la-trattativa.html

Operazione "Sistema 2", due anni a Borella ma senza l'aggravante mafiosa

foto: liberainformazione.org
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Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), 16 marzo 2012 – Tre giorni fa parlavamo[1] di quanto richiesto durante l'udienza preliminare dell'operazione “Sistema 2”, volta a far luce sul sistema di estorsioni della famiglia mafiosa barcellonese verso alcuni imprenditori di Messina. Due anni e mezzo erano stati richiesti per Carlo Borella, ex presidente dell'associazione costruttori messinese e tre anni e due mesi per Alfio Giuseppe Castro, appartenente alle famiglie barcellonesi e considerato il loro contatto con Cosa Nostra di Catania. Il giudice per le udienze preliminari Giovanni De Marco ha deciso in modo diverso.

Due anni, infatti, sono stati inflitti all'ex presidente dell'associazione costruttori messinese a giudizio con rito abbreviato per favoreggiamento aggravato di associazione mafiosa per aver negato di aver pagato il pizzo ai clan barcellonesi. Il giudice ha però escluso l'aggravante mafiosa.
Con lo stesso rito era imputato il collaboratore di giustizia Alfio Giuseppe Castro, a cui sono stati inflitti quattro anni senza alcun beneficio per la collaborazione.

Rinviati a giudizio invece Biagio Raffa, geometra della Demoter, Tindaro Calabrese, boss della famiglia dei “Mazzarroti” e Carmelo D'Amico. Per loro una nuova udienza è prevista per il prossimo 24 maggio.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/03/operazione-sistema-2-laccusa-chiede-due.html

Processo Rostagno, in aula le incertezze di Marino Mannoia e Di Carlo

foto: salvatoreloleggio.blogspot.com

Trapani, 15 marzo 2012 – Le porte dell'Aula Falcone del Tribunale trapanese si sono aperte, ieri, per la venticinquesima udienza del processo per l'omicidio di Mauro Rostagno, ucciso a Valderice il 26 settembre 1988.
Prima di addentrarci nella cronaca di quanto avvenuto, è bene sottolineare un aspetto “a margine”. Per la prima volta, infatti – come segnalato anche nel gruppo facebook che tiene aggiornati gli interessati sul processo – ad assistere al dibattimento c'era, accompagnato dai docenti, anche un gruppo di studenti dell'istituto “Biagio D'Amico” di Trapani, a riprova che non servono grandi prove di coraggio o “eroi” per tenere viva la memoria e la cultura antimafia.

Venendo alla cronaca dell'udienza, il primo a salire sul banco dei testimoni dalla Corte d'Assise di Trapani – seppur in maniera indiretta, essendo collegato in videoconferenza da una località segreta – è stato Francesco Marino Mannoia, detto “Mozzarella” o “'U dutturi” essendo, all'epoca della sua militanza nella famiglia di Santa Maria di Gesù (facente riferimento al “Principe di Villagrazia” Stefano Bontade) uno dei pochi a saper raffinare l'eroina e pentitosi – a seguito dello sterminio parte della sua famiglia, come avvenuto per Tommaso Buscetta - nel 1989, dal febbraio 2010 per la giustizia italiana è un uomo libero.
La sua audizione è andata a rilento in quanto, a seguito dell'ampio lasso di tempo trascorso tra questa testimonianza e lo svolgimento dei fatti, il teste non è riuscito a ricordare con certezza vari fatti di cui aveva parlato in precedenza. In merito alla vicenda, pur nell'incertezza, Mannoia ha raccontato che il lavoro giornalistico di Rostagno veniva spesso commentato all'interno di Cosa Nostra, dove forte era interesse di Mariano Agate, boss di Mazara del Vallo, nel volerne mettere a tacere le denunce. «Non posso dire che Mariano Agate è coinvolto nell'omicidio, sebbene all'interno dell'organizzazione il semplice manifestare un malumore stava a significare che quella persona andava eliminata», ha concluso il collaboratore di giustizia.

È stata poi la volta di Francesco Di Carlo, entrato nei primi anni settanta nella famiglia di Altofonte, appartenente al mandamento di San Giuseppe Jato e dunque in quegli anni “giurisdizione” corleonese attraverso Bernardo Brusca, capomandamento e padre del più noto Giovanni detto “lo scannacristiani”. È proprio il sangue versato dal gruppo dei viddani – l'anno è il 1982 – che fa “dimettere” Di Carlo dal suo ruolo di capofamiglia all'interno di Cosa Nostra per trasferirsi a Londra per volere di Totò “u curtu” Riina, in una sorta di vero e proprio esilio. A Trapani, negli anni Settanta, al vertice della famiglia c'era Salvatore Minore, a cui successe proprio quel Vincenzo Virga oggi seduto sul banco degli imputati come mandante dell'omicidio.
Nella capitale inglese Di Carlo ci rimane fino al 1996, passando la maggior parte del suo soggiorno in carcere, a seguito di una condanna a venticinque anni per traffico internazionale di stupefacenti. Con il ritorno in Italia arriva anche la decisione di collaborare con la giustizia.

Durante il soggiorno londinese, comunque, oltre ai familiari Di Carlo è in contatto anche con Benedetto Capizzi e Giovanni Caffri – ucciso nel 1996 e cognato di Andrea Di Carlo, fratello del collaboratore – ai quali avrebbe chiesto informazioni sull'omicidio di Mauro Rostagno, avendo così la conferma che l'idea si sviluppò all'interno di Cosa Nostra e non, come dicevano i giornali, in altri ambienti (come quel filone che voleva l'omicidio maturato all'interno di Lotta Continua a seguito dell'omicidio Calabresi[1]). «Mauro Rostagno» - ha detto Di Carlo - «dava fastidio a Mariano Agate per le sue continue denunce in televisione. Lo stesso Agate ebbe a lamentarsi dei continui attacchi di Rostagno[2]. «Con questo» - ha concluso - «non voglio dire che Mariano Agate è coinvolto nel delitto»

Prima di concludere l'udienza è stata sciolta la riserva sulle dichiarazioni rese da Rosario Spatola. Prossima udienza prevista tra due settimane, 28 marzo, quando saranno ascoltati il maresciallo dei carabinieri Beniamino Cannas e Carla Rostagno, sorella di Mauro.

Note
[1] Mauro Rostagno e l’onore di Lotta continua. Alcune paginette ingiallite riemerse in aula a Trapani di Paolo Brogi, brogi.info, 18 febbraio 2011
[2] http://www.infooggi.it/articolo/omicidio-rostagno-sbagliata-la-pista-trapanese/21285/;

La Dia: il porto di Palermo è Cosa Nostra. Scattano i provvedimenti preventivi

foto: palermo.repubblica.it
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Palermo, 14 marzo 2012 – Quello dei porti – Gioia Tauro e la 'ndrangheta sono lì a testimoniarlo[1] – è uno dei principali interessi coltivati dalla criminalità organizzata.
Prima della parziale vendita avvenuta lo scorso anno, alla società “New Port”, operante nell'area del porto palermitano, era stata chiesta una vera e propria “bonifica” da individui che la mettevano a serio rischio infiltrazioni. Quaranta dei 157 soci, infatti, avevano precedenti per mafia. La cessione di alcuni rami d'azienda alla “Portitalia srl” ed alla “Tcp srl”, a cui sono affidate la distribuzione delle merci, i trasporti e la logistica all'interno dell'area era parsa però solo un'operazione di facciata, come ha sottolineato il procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia palermitana Vittorio Terresi, che ha poi precisato come questo sia di fatto un provvedimento preventivo «che ha la durata di sei mesi, rinnovabile per altri sei» e che potrebbe portare anche ad un nulla di fatto. «Se non si ravviseranno le paventate infiltrazioni i beni saranno restituiti agli originari amministratori» - ha concluso il procuratore - «Se invece si riscontra effettivamente l'infiltrazione, le società e i beni potranno essere sequestrate e confiscate» come prevede il nuovo codice antimafia.

Proprio grazie alla scoperta dei “rappresentanti” di Cosa Nostra portate avanti dalla Direzione Investigativa Antimafia e dalla prefettura di Palermo è stato possibile sospendere l'amministrazione delle tre società ed al sequestro dei beni di quattro soci della “New Port”, società nella quale si trovavano gli esponenti delle famiglie. A far partire le indagini è stato il fatto che la New Port «diventata una scatola vuota», come dice il colonnello Giuseppe D'Agata, capocentro della Direzione Investigativa Antimafia palermitana, «abbia ceduto i rami d'azienda alle altre due società oggetto della sospensione dell'amministrazione. Ci sono gli stessi soci, gli stessi organi direttivi, i rami d'azienda sono stati acquisiti nella stessa data, hanno la stessa sede e, soprattutto, hanno programmato un pagamento molto comodo (216 rate mensili, ndr) che non considera nemmeno gli interessi».

Ma chi sarebbero, potenzialmente, gli esecutori di questo nuovo “tavolino”?

Per il mandamento di Porta Nuova c'erano Girolamo Buccafusca, 55 anni, accusato di associazione e traffico di droga, destinatario dell'obbligo di soggiorno per quattro anni e sottoposto al sequestro dei beni, diventato effettivo nel 2008, ed il cugino, omonimo ma nato sei anni dopo.

Operazione "Sistema 2", l'accusa chiede due anni per Borella per favoreggiamento aggravato

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Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), 14 marzo 2012 – Ha chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato l'imprenditore Carlo Borella, ex presidente dell'Associazione nazionale costruttori edili (Ance) Messina, per poter rispondere dell'accusa di favoreggiamento aggravato di associazione mafiosa. Stessa richiesta per Alfio Giuseppe Castro, uomo di raccordo tra le famiglie catanesi di Cosa Nostra e quelle barcellonesi, oggi collaboratore di giustizia.

È questo il risultato dell'udienza preliminare dell'operazione “Sistema 2”, con la quale sono stati portati alla luce una serie di estorsioni da parte della famiglia mafiosa di Barcellona ad imprenditori di Messina.
Le indagini scattarono dopo le dichiarazioni di un imprenditore costretto a pagare il pizzo al clan. Da lì venne di fatto scoperto un vero e proprio sistema con il quale uomini del clan imponevano la “messa a posto” a chi vinceva le gare per l'assegnazione degli appalti pubblici nella zona, come nel caso della “Mediterranea Costruzioni”, impegnata nei lavori per il centro commerciale di Milazzo, il cui titolare versava al clan trentamila euro, divisi in tre tangenti da pagare a Natale, Pasqua e Ferragosto.

Due anni e mezzo per Borella e tre anni e due mesi per Castro, al quale sono state assegnate le attenuanti per la collaborazione, sono le richieste del pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Messina Giuseppe Verzera, che ha chiesto il rinvio a giudizio anche per Carmelo D'Amico, reggente del clan, e Biagio Raffa, geometra della Demoter, società di proprietà di Borella al quale viene contestata l'emissione di false fatturazioni per ventimila euro.
Stralciata invece la posizione del capo dei “Mazzarroti” Tindaro Calabrese, che però è soggetto ad altri procedimenti nell'ambito delle indagini antimafia.

Avrebbe riciclato soldi per Messina Denaro, la Dia chiede la fine dell'impero Valtur

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Palermo, 14 marzo 2012 – I collaboratori che lo accusano hanno nomi pesanti, anzi pesantissimi: Nino Giuffré, detto “Manuzza”, ex capo mandamento di Caccamo e tra i più fidati uomini di Bernardo Provenzano, Angelo Siino, autore del “tavolino” con cui Cosa Nostra si spartiva gli appalti negli anni Ottanta e conosciuto per questo come il ministro dei Lavori Pubblici dell'organizzazione siciliana e Giovanni Ingrasciotta, profondo conoscitore dei segreti della famiglia Messina Denaro.
L'accusato è il 78enne cavaliere castelvetranese Carmelo Patti, dal 1998 patron di Valtur, la più famosa azienda italiana del turismo, commissariata da alcuni mesi a seguito del pesante indebitamento di oltre 300 milioni di euro l'anno[1].

Gli accusatori sono gli uomini della Direzione Investigativa Antimafia di Palermo, che negli ultimi mesi hanno setacciato il patrimonio del cavaliere riscontrando «una inquietante sperequazione fra redditi e investimenti», per la quale era stato richiesto il sequestro immediato dei suoi beni, tra cui una ventina di villaggi turistici, abitazioni e terreni tra le provincie di Trapani e Pavia per un valore totale di cinque miliardi di euro. Il Tribunale delle misure di prevenzione trapanese, però, ha ritenuto necessario fissare un procedimento in camera di consiglio, prevista per il prossimo 20 aprile.
Passato dall'indotto Fiat alla gestione del colosso del turismo, secondo il rapporto della Dia la sua carriera sarebbe iniziata proprio grazie ai Messina Denaro, da qui l'accusa di esserne un prestanome.

Il nome di Patti – come confermerebbe la ricostruzione di Siino, che ha sostenuto di aver preso parte ad un incontro tra lo stesso Patti e Francesco Messina Denaro, padre di Matteo ed ex capomandamento di Castelvetrano – due anni fa è entrato anche nell'operazione contro la famiglia belicina denominato “Golem 2”[2], allorquando i magistrati vollero capire perché tra i più stretti collaboratori di patti ci fosse Michele Alagna, fratello della compagna dell'”inafferrabile” Matteo Messina Denaro.

Note
[1] Valtur con 300 milioni di debiti a rischio fallimento, si studia piano salvataggio Il Mattino, 6 ottobre 2011;
[2] Operazione Golem 2. Giuseppe Linares svela i retroscena, Malitalia.it, 16 marzo 2010

Processo Iblis, la Procura vuole confermare la richiesta di archiviazione dei fratelli Lombardo

Catania, 13 marzo 2012 – La Procura di Catania, tramite i procuratori aggiunti Michelangelo Patanè e Carmelo Zuccaro, sulla base della “sentenza-Mannino” ha confermato al giudice per le indagini preliminari Luigi Barone la richiesta di archiviazione per il presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo e per il fratello Angelo, parlamentare nazionale del Movimento per le Autonomie, in merito all'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Richiesta alla quale si sono naturalmente aggiunti anche i collegi degli avvocati difensori.

Intanto il giudice Barone ha richiesto l'acquisizione delle testimonianze dei tre collaboratori di giustizia sentiti in video-conferenza durante l'udienza del 6 marzo scorso di fronte al Tribunale monocratico, cioè Maurizio Di Gati, Francesco Ercole Iacona e Maurizio La Rosa, che si è avvalso della facoltà di non rispondere[1].
L'udienza camerale è stata aggiornata al 28 marzo.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/03/processo-iblis-parlano-gli-ex-uomini.html

Quei 13 milioni su cui litiga l'antiracket siciliano

foto: narcomafie.it

Palermo, 11 marzo 2012 - Tredici milioni e quattrocentomila euro. A tanto ammonta il finanziamento che il ministero dell'Interno ha concesso alla Federazione delle Associazioni Antiracket (Fai), ad Addiopizzo ed a Confindustria Sicilia per portare avanti le proprie attività contro il racket e l'usura.
Assieme al finanziamento, però, sono arrivate anche le polemiche. La Rete per la Legalità – che comprende quarantaquattro associazioni, non solo siciliane – ha denunciato come siano poco chiari i criteri con i quali sono stati selezionati i beneficiari, dato anche il fatto che questi sono stati scelti senza bando pubblico. Per questo la Rete ha chiesto un incontro alla ministra Cancellieri al fine di esporre le proprie perplessità e proposte. «Costituiremo a breve un osservatorio sulla trasparenza dove metteremo tutti gli atti pubblicati in materia di finanziamenti al settore. L'obiettivo è quello di far sapere a tutti e in maniera trasparente quanto accade nel mondo dell'antiracket e antiusura. A questo si aggiungerà un monitoraggio continuo di tutti gli elementi attuativi del Fondo», ha detto Lino Busà, presidente di Sos Impresa, durante la conferenza stampa tenutasi in Senato lo scorso 7 marzo.
Analizzando l'iter con cui si è arrivati al finanziamento, Busà ci ha tenuto a sottolineare di non contestare lo scopo, ma di voler evitare che si crei un movimento antiracket di serie A e uno di livello più basso, «principio che indebolisce il senso stesso della nostra azione di contrasto alle mafie e di tutela agli imprenditori e ai collaboratori che denunciano».

In attesa dei fondi, comunque, non si ferma il lavoro dell'antimafia sociale. Quella politico-giudiziaria, invece, sembra essersi presa una piccola pausa dopo gli ultimi avvenimenti[1].

“Pizzo sei morto”, hanno urlato i bambini di Brancaccio in questi giorni, in una manifestazione organizzata da Addiopizzo e dall'associazione antiracket Libero Futuro, che tra venerdì e ieri ha visto, oltre alla “sfilata” attraverso corso dei Mille o viale Picciotti anche l'allestimento di due gazebo informativi in piazza Torrelunga. «Brancaccio», hanno detto gli organizzatori, «rimane ancora una zona molto resistente, ma ci sono anche dei segnali positivi, a cominciare dalle nuove generazioni che oggi hanno fatto sentire la loro voce».

Mentre a Brancaccio le nuove generazioni sono scese in strada contro il pizzo, chi la mafia la combatte da tempo – come Ignazio Cutrò, testimone di giustizia o associazioni come quella delle “Agende Rosse” di Agrigento o “Ad Est” - hanno organizzato una scorta civica per Salvatore Vella, sostituto procuratore che in passato si è occupato di delicate inchieste sulla mafia tra Sciacca, Marsala e Palermo e che ora, in servizio ad Agrigento, si è visto revocare l'auto blindata. «Il nostro ruolo», hanno spiegato i portavoce della scorta, «sarà cercare di far capire alle Istituzioni che siamo in un momento delicato e bisogna fare di tutto per salvaguardare l'incolumità dei magistrati antimafia. Lanciamo un appello alla politica agrigentina, come al solito insensibile a questi temi, affinché si attivi in fretta per risolvere la questione.»

Note
[1] Palermo, i giorni della faida(elettorale), InfoOggi.it, 10 marzo 2012

Traffico di hashish, smantellata rete di trafficanti ispano-siciliana


Trapani, 11 marzo 2012 - Smantellata un'organizzazione internazionale ispano-siciliana dedita al traffico di stupefacenti che dalla Spagna introduceva ingenti quantità di hashish nel trapanese, punto d'approdo l'aeroporto Trapani-Birgi.
L'operazione era iniziata lo scorso giugno, quando proprio all'aeroporto gli uomini della Guardia di Finanza, grazie ai cani antidroga, avevano arrestato due “muli” spagnoli provenienti da Girona (Barcellona) di 34 e 38 anni, che avevano ingerito complessivamente due chili di droga attraverso l'ingerimento di 310 ovuli (da qui il termine “mulo”) per un valore commerciale di trenta mila euro.

Dopo l'arresto i due hanno iniziato a collaborare con le autorità italiane, consentendo loro di scoprire l'intero organigramma della rete di trafficanti e permettendogli di arrestare il palermitano Vincenzo Affronti, 53 anni, ed i trapanesi Andrea Iraci, 61enne e Nino La Torre, di 43 anni, ritenuti i vertici dell'organizzazione. I tre sono stati quindi raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere.[MORE] Nel corso delle perquisizioni delle loro abitazioni sono stati sequestrati altri 52 grammi di hashish, in parte già pronti per essere ingeriti.

Chiuse le indagini del procedimento "Gotha-Pozzo 2". Smantellata la mafia barcellonese

Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), 10 marzo 2012 – Nei mesi di giugno e luglio dello scorso anno, una serie di arresti di boss, affiliati e fiancheggiatori aveva apportato seri danni a Cosa Nostra barcellonese. Iniziavano così le operazioni “Gotha” e “Pozzo 2”, considerate le più importanti operazioni antimafia compiute nel messinese negli ultimi anni.
Nei giorni scorsi Angelo Cavallo, Fabio D'Anna, Vito Di Giorgio e Giuseppe Verzera, sostituti procuratori della Direzione Distrettuale Antimafia hanno chiuso le indagini, facendole confluire in un unico procedimento che coinvolge trentuno indagati – i ventinove arrestati del blitz più due indagati a piede libero - per associazione mafiosa finalizzata ad omicidi, occultamento di cadaveri, estorsioni, detenzione di armi, minacce e danneggiamento.

Con le operazioni di giugno il Reparto operativo speciale (Ros) dei carabinieri aveva di fatto smantellato la famiglia mafiosa barcellonese – la più potente di Messina ed unica a poter intessere rapporti con le famiglie di Palermo, al cui vertice era arrivato il boss Tindaro Calabrese, dopo la “promozione” di Salvatore Lo Piccolo a capo delle famiglie palermitane – e sequestrato beni per un valore di circa 150 milioni di euro, colpendo così anche la “costola” di Mazzarrà Sant'Andrea e dando il via ad una vera e propria esondazione di pentiti, in particolare da parte del boss dei “mazzarroti” Carmelo Bisognano e di Alfio Giuseppe Castro, ritenuto il referente messinese delle famiglie di Catania, le cui rivelazioni hanno permesso di ricostruire sia l'organigramma militare che quello economico-finanziario della famiglia, retto dal pregiudicato Carmelo D'Amico e per il quale è stata accertata l'esistenza di un cartello di imprese che in questi anni è riuscito a mettere le mani sul raddoppio del tratto ferroviario Messina-Patti, il tratto del metanodotto San Pietro Clarenza-San Giovanni La Punta, la riqualificazione di una parte del lungomare di Milazzo o la realizzazione di alcune strade ad Oliveri attraverso il sistematico utilizzo della turbativa d'asta finalizzato al controllo degli appalti pubblici, che ha portato all'arresto ed alla confisca dei beni per gli imprenditori Giuseppe Isgrò, Giovanni Rao, Filippo Barresi, Salvatore “Sem” Di Salvo, Mario Aquilia e Francesco Scirocco. Questi ultimi due avrebbero peraltro utilizzato operazioni di sovrafatturazione e contabilizzazione di operazioni inesistenti per giustificare il pizzo richiesto agli altri imprenditori.

Bisognano e Santo Gullo, collaboratore del boss entrato a far parte anche lui della lunga schiera di “pentiti” barcellonesi, hanno poi raccontato dell'esistenza di un vero e proprio “cimitero mafioso“ a Mazzarrà Sant'Andrea, nel quale furono seppelliti alcuni degli scomparsi durante la guerra di mafia degli anni Novanta.

Dell'Utri. Dopo 18 anni arriva la sentenza che non c'è

Palermo, 10 marzo 2012 – Durante i giorni che precedevano l'udienza in Cassazione, gli organi di stampa avevano evidenziato come per l'ex senatore Marcello Dell'Utri l'arresto fosse più di un'ipotesi. Per questo, quando la corte ha espresso il suo giudizio per più di qualcuno la sorpresa è stata molta, dato che in pochi probabilmente si aspettavano che, come fosse una partita del gioco dell'oca, la Suprema Corte rimandasse tutto direttamente al via, riportando il processo ad un nuovo appello che dovrà celebrarsi con una nuova corte non oltre il 2014, anno in cui il reato andrà in prescrizione. I legali dell'ex senatore, comunque, assicurano di non volersene avvantaggiare.

Difesa e Accusa dalla stessa parte (più o meno). Il procuratore generale Francesco Iacoviello, già nei giorni precedenti alla sentenza aveva chiesto di accogliere il ricorso presentato dalla difesa di Dell'Utri - mettendosi così accusa e difesa dalla stessa parte - e rigettare l'inasprimento della pena richiesto dalla Procura di Palermo. La quinta sezione della Suprema Corte, dove molte sono state le polemiche legate al presidente Aldo Grassi, fedelissimo di Corrado Carnevale, detto “l'ammazza sentenze”, ha accolto in pieno la richiesta del procuratore, che ha basato quella che per qualcuno è diventata una vera e propria arringa difensiva sul fatto che descrivere Marcello Dell'Utri come il terminale politico di Cosa Nostra sia un buon modo per vendere giornali ma che «non significa nulla» in quanto nella sentenza d'appello non sarebbe precisato il «contributo specifico dato dallo stesso al sistema mafioso».

In attesa di conoscere il testo della sentenza, fugando così ogni dubbio, le ipotesi che hanno potuto portare a questa decisione – al di là dell'aspetto dottrinale sull'uso del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” - riguardano o un vizio processuale, cosa che impone un nuovo processo, oppure un difetto nella motivazione della sentenza del grado precedente, che impone il ritorno in Corte d'appello per un nuovo giudizio nel merito.

Mettendo in discussione non tanto lo specifico processo, ma soprattutto l'essenza stessa del concorso esterno, «un reato indefinito al quale ormai non crede più nessuno», potrebbe crearsi un pericoloso precedente per i tantissimi altri processi basati su questo reato, dando il via ad una sorta di vero e proprio “libera tutti”.

Il concorso esterno. «Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono eventualmente realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericoloso quanto più subdole e striscianti, sussumibili, a titolo concorsuale, nel delitto di associazione mafiosa». Fu con queste parole che nel 1987, data in cui si celebrava il processo maxi-ter a Cosa Nostra, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino crearono il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.