Cosa Nuova. Il patto dell'ortofrutta

fonte:corriereortofrutticolo.it
Roma – Seconda parte dell'approfondimento “siciliano” su Cosa Nuova. Nella prima parte[1] ci siamo soffermati sul chi abbia portato, fin dagli anni Settanta, le famiglie di Cosa Nostra nella capitale e nel Lazio. Oggi, invece, spostandoci al post-Calò, ci soffermeremo sul come, partendo da quello che sembra essere stato un vero e proprio “patto dell'ortofrutta”.

Arance, mandarini, pomodori e kalashnikov. Uno degli interessi nevralgici di Cosa Nostra, nel Lazio, è il Mof, acronimo che sta ad indicare il Mercato Ortofrutticolo di Fondi, in provincia di Latina, considerato uno dei principali snodi – se non il principale – per il passaggio di frutta e verdura tra nord e sud Italia.
Nei mesi scorsi, però, gli inquirenti hanno scoperto un paio di cose interessanti, su quel mercato. Dopo una complessa indagine portata avanti dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli e dalla Squadra Mobile ed il Centro Operativo della Direzione Investigativa Antimafia della capitale in collaborazione con i loro omologhi napoletani e trapanesi, infatti, si è scoperto che a quei bancali di frutta e verdura si erano interessati anche i Casalesi di “Sandokan” Schiavone e Cosa Nostra (famiglia Riina-Messina Denaro, principalmente), che hanno rinsaldato la propria alleanza – sancita fin dai tempi di Bardellino e della “mafia pre-corleonese”[2] – tramite il controllo (o quanto meno il tentativo di controllare) il trasporto su gomma dei prodotti del mercato ortofrutticolo da e per la Sicilia, attraverso società quali la “Paganese Trasporti” di San Marcellino, nel casertano, il cui titolare – Costantino Pagano – sarebbe direttamente riconducibile a Francesco Schiavone e a Luigi Schiavone, detto “Cicciariello”, o la “Lazialfrigo” di Giuseppe, Luigi e Melissa D'Alterio (riconducibile anch'essa alla “Paganese Trasporti”). Anche loro riconducibili, secondo gli investigatori - che li hanno accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, violenza, minacce – ai Casalesi a cui sarebbero direttamente affiliati.

Tra un chilo di mandarini e un cesto di insalata, gli autoarticolati che uscivano dal Mof – dove è stato accertato la criminalità controllasse sei società utilizzate per lavare i proventi del narcotraffico – venivano caricati anche Ak-47, kalashnikov, mitragliatori pesanti Breda, lanciarazzi e migliaia di munizioni (materiale sequestrato dalla Mobile di Caserta nel 2006) il cui acquisto era fatto da Pagano per nome e conto dei Casalesi (ala-Del Vecchio) importate dalla Bosnia sfruttando la complicità di militari che prestavano servizio nel paese durante le nostre “missioni di pace”.

Intimidazione nel ragusano, la mafia cambia rotta?

foto: palermomania.it
Santa Croce Camerina (Ragusa) – Sarebbero da ricollegare all'intimidazione avvenuta nei giorni scorsi ad una ditta di costruzioni in legno i colpi di kalashnikov esplosi contro un'azienda di prodotti ortofrutticoli ed il ristorante della piazza di Punta Secca, località resa famosa da qualche anno dal regista Alberto Sironi, che l'ha scelta per ambientarci la trasposizione televisiva delle storie del commissario Salvo Montalbano.
Sentiti dai carabinieri, i titolari degli esercizi fatti oggetto di intimidazione hanno però escluso precedenti richieste di estorsione che potrebbero dare conferme a quella che sembra essere un primo accenno di escalation della criminalità locale.

È proprio alla luce di questa sensazione che il comandante provinciale dei carabinieri, Salvatore Gagliano, ha disposto una vasta operazione di controllo del territorio che ha coinvolto più di un centinaio di uomini tra Santa Croce Camerina, Comiso, Modica e Scicli, nei quali si sono riscontrati numerosi posti di blocco, controllo dei pregiudicati e varie perquisizioni domiciliari, operazioni che si sono concluse con gli arresti di Mario Caruso, 54 anni, residente a Ragusa ma originario di Noto, sorpreso a Comiso in possesso di sei chilogrammi di marijuana e per Fitouri Sokmani, 24 anni, arrestato a Santa Croce con addosso 18 grammi di hashish.

Due fori di proiettile e sei bossoli, sono stati trovati di fronte al ristorante dopo la segnalazione di due cittadini, presentatisi in caserma per denunciare gli spari sentiti la notte precedente.

La mafia, nel ragusano, c'è sempre stata, basti considerare l'importanza che, per le organizzazioni criminali, ricopre il mercato ortofrutticolo di Vittoria (rientrato nella più ampia inchiesta “Sud Pontino” che ha coinvolto anche il mercato ortofrutticolo di Fondi, a Latina) o lo scioglimento per infiltrazione mafiosa del comune di Scicli già nel 1993, ma fino ad ora si era sempre resa invisibile, alimentando maggiormente l'ala “affaristica” che non quella militare.
Capire il perché di questo cambio di rotta può essere il primo passo per bloccare l'escalation violenta sul nascere.

Processo Mori-Obinu, la deposizione di Mancino porta allo "scontro" tra ex ministri?

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Palermo - «Non ho mai avuto conoscenza di una trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra, nessuno me ne aveva mai parlato e se qualcuno lo avesse fatto mi sarei opposto e ne avrei parlato con il Presidente della Repubblica e con il Presidente del Consiglio e avrei chiesto un dibattito in Consiglio dei ministri». Non ha aggiunto niente di più di quel che ha sempre detto l'ex ministro dell'Interno (1992-1994, governi Amato e Ciampi) Nicola Mancino, chiamato venerdì a deporre nel processo al generale dei carabinieri Mario Mori ed al colonnello Mauro Obinu[1], accusati entrambi di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra.

Stesso discorso per la vicenda-Borsellino, dove l'ex ministro ha sempre detto di non poter escludere la possibilità di aver incontrato l'ex magistrato, ma di non averne certezza, «anche il giudice Aliquò (Vittorio Aliquò, che insieme a Paolo Borsellino raccolse la testimonianza di Gaspare Mutolo, della famiglia mafiosa di Partanna[2], ndr) che era con lui ha riferito che ci stringemmo la mano ma non parlammo».

Rispondendo alle domande di Basilio Milio, avvocato difensore di Mori e Obinu, Mancino ha anche detto di non aver mai sentito nominare il fantomatico “Signor Franco” (o “signor Carlo”, che secondo la ricostruzione del “Fatto Quotidiano”[3] sarebbe l'ex console onorario Moshe Gross), l'uomo dei servizi segreti che secondo le numerose ricostruzioni di Massimo Ciancimino sarebbe fin dal 1971 l'uomo di collegamento tra le istituzioni e Cosa Nostra ed il cui nome è finito, nel 2010, nel registro degli indagati delle procure di Caltanissetta e Firenze in merito alle bombe del 1993 identificato[4] in di una fotografia pubblicata all'interno di un articolo per la presentazione di una nuova automobile tenutasi in Vaticano, da un magazine romano a distribuzione gratuita.

L'ex ministro ricorda invece molto bene l'incontro avvenuto con Calogero Antonio Mannino, all'epoca ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, pochi giorni dopo l'omicidio dell'europarlamentare democristiano Salvo Lima[5] (ucciso a Palermo il 12 marzo 1992) il quale, preoccupato dall'omicidio-Lima, disse a Mancino di essere il prossimo sulla lista degli omicidi politici di Cosa Nostra.
Lo stesso Mannino che, nei giorni immediatamente precedenti alla deposizione dell'ex ministro dell'Interno è stato raggiunto da un avviso di garanzia della Procura della Repubblica di Palermo, che lo ha indagato per «violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario» ipotizzando una serie di pressioni da parte dello stesso per alleggerire il regime del 41bis.

Quattro arresti in Spagna portano alla fine della mafia serba?

foto:newstimes.com
Valencia (Spagna) - «Con questa notizia siamo ad un passo dalla vittoria sul crimine organizzato». Ha commentato così il presidente della Repubblica serbo Boris Tadić l'arresto, avvenuto lo scorso 9 febbraio a Valencia, in Spagna, di quattro suoi connazionali sospettati di appartenere al clan di Zemun, uno dei più importanti clan della criminalità organizzata serba che – come per la mafia siciliana, dalla quale ha peraltro ripreso anche il nome (Naša Stvar) – prende il nome dal proprio “mandamento”.

Uno degli arrestati – Vladimir Milisavljević, detto “Vlada il matto” - è stato condannato in contumacia nei due più importanti processi al crimine organizzato portati a termine fino ad ora dalla Procura speciale per il crimine organizzato di Belgrado e che gli sono costati una condanna a 35 anni nel processo per l'omicidio del premier Zoran Djindjiić avvenuto il 12 marzo 2003, quando il premier venne ucciso da un cecchino del clan, Zvezdan Jovanović ed altri 40 anni per i crimini degli “Zemunci” (nome con cui sono conosciuti gli appartenenti al clan).

Le autorità spagnole erano sulle tracce del gruppo - capeggiato dal 2003 da Luka Bojović (nella foto), detto “il fornaio”, anch'egli arrestato a Valencia - da un anno e mezzo, periodo nel quale preziosa si è rivelata la collaborazione con i loro colleghi serbi ed olandesi. I quattro arrestati sono sospettati di furto, traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio di denaro sporto e numerosi omicidi.
Le perquisizioni nell'appartamento utilizzato dal boss hanno portato alla scoperta di un vero e proprio arsenale: tre fucili mitragliatori da assalto, nove pistole semiautomatiche, caricatori e munizioni, nonché mezzo milione di euro in contanti.

Legato politicamente al presidente del Partito radicale serbo Vojislav Šešelj – attualmente imputato all'Aja per crimini di guerra – il gruppo di Bojović era inserito nel traffico di droga, nella prostituzione e nei sequestri di persona. In Spagna il “fornaio” sarebbe accusato di essere dietro a due carichi di cocaina, provenienti dall'Argentina, sequestrati a maggio ed a novembre dello scorso anno i cui guadagni sarebbero probabilmente entrati anche nelle casse delle 'ndrine calabresi, che ai serbi hanno affidato l'intero indotto della distribuzione della polvere bianca.
Il suo arresto sarebbe però frutto anche di un “aiutino” arrivato dalle carceri olandesi, dove dalla fine del 2011 soggiorna Miloš Bata Petrović, considerato il reggente della mafia serba in Olanda.

Cosa Nuova. Il "nodo" Calò

foto: nottecriminale.wordpress.com
Roma – Ottavo capitolo del nostro viaggio nella guerra di mafie che sta insanguinando le strade romane da qualche mese. Dopo aver attraversato le rotte della camorra e della 'ndrangheta verso la capitale (i cui approfondimenti trovate a fondo pagina), scendiamo ancora più giù, attraversando lo Stretto di Messina per sbarcare in Sicilia. Ma partiamo, di nuovo, dalla Città Eterna.

29 marzo 1985. Quartiere della Balduina. Una Fiat Uno di colore bianco si è appena fermata in via Tito Livio[1] e Mario Aglialoro, il conducente – che abita in un attico al civico 76 - ne è appena sceso quando gli uomini della Polizia di Stato gli mettono le manette ai polsi. Non era la prima volta che le forze dell'ordine tentavano di arrestarlo. Ci avevano già provato – qualche tempo prima – appostandosi in via delle Carrozze, nelle vicinanze di piazza di Spagna dove Aglialoro, che di professione fa l'antiquario ed è un esperto giocatore nel mercato immobiliare, possiede un altro appartamento nel quale gli uomini delle forze dell'ordine hanno sequestrato trecento milioni di lire in contanti insieme a litografie di Renato Guttuso e tele di Pompeo Girolamo Betoni, pittore toscano della fine del '700 che valgono, ciascuna, intorno ai duecento milioni di lire. Ma di Aglialoro, in quell'appartamento, neanche l'ombra.
Si sente talmente sicuro, a Roma, che – raccontano le cronache – quando gli agenti lo arrestano, l'antiquario gli chiederà come abbiano fatto a trovarlo. Si sente sicuro come fosse a casa sua.
Per quanto Roma sia diventata già dagli anni Settanta la sua seconda casa, l'anagrafe lo vuole nato a Palermo, dove l'anno successivo all'arresto sarà implicato nel Maxi-processo.

Scontro al vertice. All'anagrafe palermitana, infatti, il signor Mario Aglialoro è registrato con un altro nome, Giuseppe, e con un altro cognome, Calò. Lo stesso Giuseppe Calò – detto Pippo – conosciuto nel mandamento di Porta Nuova come “La Salamandra” o “il cassiere di Cosa Nostra”. La mafia siciliana, infatti, non solo lo inserisce nella Commissione[2] – l'organo direttivo della Cupola – ma mette nelle sue mani l'ala finanziaria, inviandolo a Roma a lavare il denaro proveniente dai traffici illeciti e dalle prime partite di droga.
Da Porta Nuova con lo stesso compito, ma in direzione Buenos Aires, Argentina, è partito anche un altro dei futuri “grandi nomi” della mafia siciliana: Tommaso Buscetta, detto “il boss dei due mondi”, l'ex amico diventato il grande accusatore dell'intera organizzazione.

Le intercettazioni di "Iblis" entrano nel processo ai fratelli Lombardo

Catania – Esattamente una settimana fa[1] parlavamo di come la corte d'Assiste catanese, ritenendosi non competente a giudicare la maggior parte degli imputati nel procedimento ordinario, avesse di fatto diviso il processo denominato “Iblis” in quattro filoni.
Il procedimento, però, avrebbe anche un quinto “filone”, quello cioè legato ai fratelli Lombardo, la cui posizione nel procedimento venne stralciata e derubricata a settembre da concorso esterno in associazione mafiosa[2] in un'accusa per voto di scambio relativamente alle elezioni alla Camera del 2008 ed alla relativa campagna elettorale in favore di Angelo Lombardo, deputato nazionale del Movimento per le Autonomie.

Ieri il giudice monocratico della quarta sezione catanese Michele Fichera ha dichiarato ammissibili tra le prove del processo – la cui ripresa è prevista per il prossimo 6 marzo - anche le intercettazioni telefoniche ed ambientali inizialmente inserite nel fascicolo di “Iblis”, accogliendo così le richieste dell'accusa, composta dai procuratori aggiunti Michelangelo Patanè e Carmelo Zuccaro e rigettando quanto richiesto dagli avvocati difensori.
Tra le tante intercettazioni, della cui trascrizione si occuperà il perito Lucio Antonino Tamburello, che dunque verranno messe a disposizione, saranno soprattutto una decina quelle su cui si concentrerà il dibattimento. In una in particolare, stando a quanto sostenuto dal procuratore Zuccaro durante l'ultima udienza, si sentirebbe il boss di Ramacca Rosario Di Dio sostenere «di non voler più sostenere Raffaele Lombardo in altre campagne elettorali, dopo alcuni suoi comportamenti». Al perito, a partire da ieri, sono stati messi a disposizione trenta giorni per effettuare il lavoro.

Nella prossima seduta saranno poi sentiti anche altri tre imputati, per un reato connesso al voto di scambio, tra cui tre collaboratori di giustizia – il gelese Saverio Maurizio La Rosa, il nisseno Francesco Ettore Iacona e l'ex capomafia agrigentino Maurizio Di Gati – che, stando a quanto riferito dal procuratore aggiunto Michelangelo Patanè, si cercherà di ascoltare in aula e non in videoconferenza. Sarà analizzata in un'udienza a porte chiuse – calendarizzata per il prossimo primo marzo – la posizione dei due fratelli in rapporto con il procedimento “Iblis”, in quanto il giudice per le indagini preliminari Luigi Barone non ha accolto la richiesta di archiviazione in merito al reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/02/catania-i-quattro-filoni-del-processo.html;
[2] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/09/lombardo-non-fu-concorso-esterno-per.html

Cosa Nuova. L'industria dei sequestri di persona

Roma – Seconda ed ultima tappa (la prima la trovate qui) sul modo in cui la 'ndrangheta è arrivata a Roma, influenzandone – insieme alle altre mafie, italiane e straniere – le bande criminali più o meno organizzate. Ieri ci siamo concentrati sulla prima fase, quella cioè relativa ai sequestri ed ai primi “contatti” con il mondo romano. Oggi invece ci occuperemo del passaggio successivo, quando cioè le 'ndrine iniziano ad avere una struttura per i sequestri di persona più strutturata, passo che ha permesso poi alla 'ndrangheta di diventare la principale organizzazione criminale italiana e tra le più importanti al mondo.

Il Raccordo (calabro)anulare. Quando la 'ndrangheta rapisce Paul Getty III nessuno – né il giornalismo, né gli inquirenti – ne capiscono l'importanza. D'altronde, è il pensiero generale, una banda che invia una lettera in cui chiede il pagamento del riscatto dove tutte le lettere “h” sono scritte nei posti sbagliati non può avere una struttura poi così organizzata alle spalle.
Eppure, in quegli anni – gli anni Settanta – di gruppi organizzati che si danno da fare nel campo dei sequestri ce ne sono parecchie. Se fossero tutti “cani sciolti”, probabilmente, a lungo andare inizierebbero a pestarsi i piedi. Nel solo triennio 1979-1981, nella capitale, sono quattordici i sequestrati che tornano liberi. Capita anche che nello stesso territorio vengano gestiti più sequestri contemporaneamente, come accade con la banda di Laudovino De Sanctis, detto Lallo Lo Zoppo, che però è davvero poco organizzata.

La prima volta che si inizia a parlare di 'ndrangheta nella capitale è l'estate del 1975, quando – nella notte tra il 29 e 30 giugno - viene rapito l'armatore Giuseppe D'Amico, erede di una dinastia del salernitano che faceva affari nella capitale già ai tempi del Papa Re. Dagli anni Trenta trasportano legname dalla Russia, anche se dalla loro dichiarazione dei redditi il business non sembra andare poi così bene. La 'ndrangheta, quando sequestra l'armatore – portandolo a bordo di una betoniera nella “fortezza aspromontana” - chiede inizialmente otto miliardi di lire, scontati quasi immediatamente fino alla comunque ragguardevole cifra di tre miliardi.
Alla fine ,secondo i giornali, la famiglia paga un miliardo di lire, anche se i D'Amico negano tutto. Sta di fatto che il 12 agosto Giuseppe D'Amico torna ad essere un uomo libero.
I giornali, in quei giorni, hanno iniziato a parlare di una “mafia” calabrese che sarebbe dietro al sequestro. Dicono ci sia addirittura Gerolamo Piromalli, detto “Momo”, uno dei capi assoluti di quella “mafia”. Interrogato dal capo della squadra Mobile, il dottor Elio Cioppa, Piromalli nega tutto, naturalmente.

Chi invece sembra esserci aver partecipato al sequestro “oltre ogni ragionevole dubbio” è Tiberio Cason, detto “il boss di Centocelle”. Gli inquirenti che stanno lavorando al caso D'Amico sono talmente convinti che ci sia lui dietro il rapimento che nel luglio 1978 accusano Francesco Pagano di concorso in sequestro di persona. Ma Pagano, a quel tempo, fa il direttore al carcere di Regina Coeli, lo stesso carcere in cui sarebbe detenuto Cason durante il periodo del sequestro. Secondo la ricostruzione dei magistrati di Vibo Valentia Cason sarebbe uscito – con il beneplacito di Pagano – compiuto il sequestro e poi sarebbe tornato tranquillamente in cella, come se nulla fosse.
La storia finisce con Pagano interrogato, inutilmente, per trenta ore (alle quali vanno annessi almeno un paio di anni di sospetti comunque non supportati da prove concrete) e Cason morto, insieme al fratello Lorenzo, il 4 novembre del 1983, quando vengono uccisi nell'area del Tuscolano. Tiberio Cason, peraltro, era già stato “avvertito” nei mesi precedenti, quando – come avviene oggi – era stato gambizzato, utilizzando così un metodo che non passa mai di moda. Come nel caso di Flavio Simmi[1] , peraltro noto dalle parti dell'antimafia per essere in rapporti non solo con il gruppo di Michele Senese[2] ma anche con i catanesi, in particolare con Francesco D'Agati, noto – tra le altre cose – per essere stato il cassiere dell'”ambasciatore romano di Cosa Nostra” Pippo Calò).

La famiglia Simmi, dunque, fa parte di quell'immenso indotto che permette alla criminalità organizzata di riciclare e reinvestire il denaro di provenienza illecita. Quel denaro che, ad esempio, ha permesso alla 'ndrina degli Alvaro di appropriarsi del prestigioso Café de Paris[3], compiendo di fatto l'intero processo di maturazione criminale che ha portato le 'ndrine dai tempi dell'”Anonima” e dei sequestri a quella dei contratti d'appalto legali passando attraverso la gestione, in compartecipazione con i cartelli messicani, di una vastissima parte del mercato della droga.


(7 – Continua)

Note
[1] Uomo ucciso a Roma, giallo sulla valigetta, TgCom24, 7 luglio 2011;
[2] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/02/michele-senese-il-puparo-con-laccento.html;
[3] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/02/roma-aperto-il-laboratorio-cosa-nuova_05.html

Cosa Nuova. L'Aspromonte, l'ottavo colle di Roma

Roma – Nuovo appuntamento con il nostro approfondimento sulla guerra che in questi mesi si sta combattendo tra le mafie nella capitale (a fondo pagina l'elenco delle puntate già pubblicate).
Partiamo, innanzitutto, da quella che appare come una vera e propria conferma a quello che ipotizzavamo nel primo articolo di questo lungo approfondimento[1] quando ci chiedevamo se, per i trentatré morti ammazzati del 2011 – ai quali vanno già aggiunti più di dieci morti in questa manciata di giorni del 2012 – si dovesse parlare di criminalità di basso profilo, di “cani sciolti” come li chiamava qualcuno o se, al contrario, quei morti facessero parte di una guerra “organizzata” tra le organizzazioni criminali presenti sul territorio romano. La conferma di quest'ultima ipotesi, dicevamo, è arrivata nei giorni scorsi non solo dai grandi media (Presa Diretta di Riccardo Iacona su tutti[2]) ma anche a livello istituzionale, con il trasferimento dei due uomini che in questi ultimi quattro anni hanno tentato di tagliare la testa alla “Piovra” calabrese, cioè Renato Cortese, ex capo della Mobile di Reggio Calabria e, soprattutto, il giudice Giuseppe Pignatone, sul quale pende una duplice ipotesi: da un lato quella della “promozione” per il lavoro svolto a Reggio in questi anni, dall'altro il trasferimento in altra sede di chi, quel lavoro, lo stava facendo troppo bene (sul modello della decisione del Csm tra i giudici Antonino Meli e Giovanni Falcone[3]). Per capire quale delle due ipotesi sia quella valida, non resta che aspettare di conoscere il nome del suo sostituto.

B come...sequestro. Nell'attesa ci spostiamo da Roma e dalla Calabria per trasferirci in Sicilia, precisamente a Catania, terra di “cavalieri”[4], di mafia e di Pippo Baudo. Cosa c'entra Baudo con l'arrivo delle mafie a Roma? «Un giorno un tizio di Platì mi offrì un miliardo per partecipare al sequestro del noto presentatore televisivo Pippo Baudo. Io dovevo portarlo al primo benzinaio dell'autostrada Reggio Calabria-Salerno». A parlare, di fronte ai giudici (come poi riporteranno nei giorni successivi i giornali[5]) è Claudio Severino Samperi, pentito ed affiliato al clan dei Santapaola, conterranei del presentatore. Sarebbero stati proprio loro, con il boss Nitto in testa, ad opporsi al suo rapimento da parte di quella che, all'epoca dei fatti – i primi anni Novanta – veniva chiamata ancora “Anonima sequestri”. «Dopo aver interrotto i rapporti con Berlusconi neanche avrei potuto pagare», dirà il presentatore in un intervista rilasciata per il quotidiano “La Sicilia” del suo amico e socio Mario Ciancio Sanfilippo, da tempo ormai considerato uno di quegli uomini che, nel catanese, ha raccolto l'eredità di personaggi come Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo, che Giuseppe Fava, in un articolo pubblicato sulla rivista “I Siciliani” aveva ribattezzato “I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa”[6].

Insomma, Baudo è intoccabile. Stando almeno alle ricostruzioni di pentiti e giornalisti all'epoca. Ma quello, per l'”Anonima” non è solo un sequestro. O, quanto meno, non è un sequestro come gli altri. Più che un sequestro, infatti, quella è un'autorizzazione a procedere. Ma i catanesi dicono che no, la Sicilia non è terra di rapimenti. Quello è l'Aspromonte, in Calabria. È da lì che parte la 'ndrangheta. Sono più di duecento, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, i sequestri di 'ndrangheta (su un totale di oltre cinquecento sequestri fatti in quel periodo in Italia[7]). In quegli anni arrivano più di quattro miliardi dal rapimento dell'industriale napoletano Carlo De Feo[8], rapito agli inizi del 1983 a Casavatore e rilasciato nelle campagne di Oppido Mamertina, Reggio Calabria, nel febbraio dell'anno successivo; altri cinque arrivano dal sequestro di Carlo Celadón[9], allora ventenne vicentino tenuto in ostaggio per quasi due anni. Con i soldi del rapimento di John Paul Getty III[10], nipote di Jean Paul Getty, fondatore della compagnia petrolifera americana “Getty Oil” a Bovalino, a Reggio Calabria, ci tirano su direttamente un quartiere. “Quartiere Paul Getty” lo chiamano, con non poco disprezzo, i reggini.

Con quei soldi le 'ndrine iniziano a creare il loro impero. Droga, edilizia, movimento terra, pale meccaniche, betoniere. Nella capitale ci erano già andati per il rapimento di Paul Getty III, ma è con questi mezzi che le 'ndrine iniziano a modificare il loro accento, passando dal calabrese al romano.

(6 - Continua)

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/02/roma-finita-la-pax-di-cosa-nuova.html;
[2] MalaRoma, Presa Diretta, 5 febbraio 2012;
[3] Antonino Meli 14 voti, Giovanni Falcone 10. (19/1/1988: il resoconto della seduta del Consiglio superiore della magistratura), http://digilander.libero.it/inmemoria/;
[4] I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Giuseppe Fava, I Siciliani, 1 gennaio 1983;
[5] I boss volevano arruolare Baudo , di Alfio Sciacca, Corriere della Sera, 29 dicembre 1993;
[6] Ma è possibile liberarsi dalla mafia a Catania?, di Mimmo Cosentino, terrelibere.org, 4 giugno 2007;
[7] Il triangolo di Platì, di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, tratto da "Metastasi";
[8] Una nuova cosca ha rapito De Feo di Pantaleone Sergi, La Repubblica, 13 giugno 1984;
[9] Celadon, ostaggio dimenticato, La Repubblica, 31 dicembre 1989;
[10] http://it.wikipedia.org/wiki/John_Paul_Getty_III

Pignatone trasferito a Roma. La "prova del nove" che nella Capitale è in corso una guerra di mafie

fonte:siciliainformazioni.com
Roma - Renato Cortese e Giuseppe Pignatone (quest'ultimo nella foto). Uno è stato fino a pochi giorni fa il capo della squadra Mobile, l'altro il procuratore capo di Reggio Calabria. Entrambi, da qualche giorno, sono stati trasferiti nella capitale. Da una terra di 'ndrangheta alla Capitale, a riprova ulteriore che quella che sta avvenendo oggi per le sue strade non è più una guerra di mafie solo per alcuni organi di informazione.

«Sono combattuto fra l'attesa di andare a Roma dove mi aspettano non solo un incarico importante allo Sco (il Sistema Centrale Operativo della Polizia di Stato, ndr) ma anche gli affetti familiari, e il dispiacere di lasciare il gruppo di lavoro che mi ha affiancato in questi anni». Ha voluto commentare così il suo trasferimento Renato Cortese. Pignatone, invece, ci ha tenuto a sottolineare che, finché la sua nomina non sarà effettiva continuerà a lavorare per Reggio Calabria. Dopo il voto unanime ricevuto dalla Commissione per gli incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura – un evento molto raro e che dunque dà l'idea di come negli anni il procuratore abbia saputo svolgere al meglio i compiti di volta in volta assegnatigli – mancano ora il parere consultivo del Guardasigilli, Paola Severino, e la ratifica del Consiglio superiore. Pura formalità, salvo imprevisti dell'ultima ora.

Il motivo del loro trasferimento è chiaro: cercare di replicare il lavoro fatto contro la 'ndrangheta calabrese in questi ultimi quattro anni, quando tutte le 'ndrine della città sono finite nel mirino del duo, che ha messo a segno molti colpi importanti non solo nell'ambito delle indagini sull'ala militare ma anche sul versante dei rapporti tra le 'ndrine, la politica e l'economia più o meno legale, tra i quali il “re dei videopoker”, Gioacchino Campolo o l'arresto dell'ex assessore del Comune reggino, Giuseppe Plutino, operazione che ha di fatto dato il via all'iter per la richiesta dell'invio dei commissari[1] e, successivamente, per lo scioglimento del Comune di Reggio Calabria, che potrebbe diventare il primo capoluogo ad essere colpito da tale provvedimento.
Il procuratore, soprattutto, è stato “attenzionato” dai clan, che gli hanno fatto rinvenire un bazooka vicino al Palazzo di giustizia (il 5 ottobre 2010) e più di un ordigno esplosivo nei pressi dello stesso edificio.

Il loro trasferimento, comunque, non significa certo che il lavoro a Reggio sia finito. Tutt'altro. «Non c'è una sola fetta sociale vergine e i rischi di contagio sono costanti» - aveva detto proprio il procuratore all'apertura dell'anno giudiziario - «Ciò è essenzialmente dovuto al crescente ruolo degli enti locali, agli appalti, alle assunzioni, alla fornitura dei servizi, nel quadro del controllo del territorio che le cosche perseguono. Interfacciarsi con i politici, per la 'ndrangheta, significa governare la clientela che aumenta il suo potere e il suo “riconoscimento sociale”».
È questa l'eredità (pesante) che Pignatone lascia al suo successore calabrese, sperando che possa solo migliorare. Sono in molti, peraltro, a vedere nella nomina anche un aspetto del lungo periodo: la successione del procuratore a Piero Grasso alla Procura nazionale antimafia. Ma questo avverrà solo nel 2013.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/01/reggio-calabria-arriva-la-commissione.html

Catania, i quattro filoni del processo "Iblis"

fonte:catania.blogsicilia.it
Catania – In linea teorica dovrebbe essere una tra le più importanti indagini volte a svelare gli intrecci in quel pericoloso triangolo dei rapporti tra politica, criminalità organizzata (Cosa Nostra, nello specifico) ed imprenditoria.
Quello che però si vede guardando all'operazione denominata “Iblis”, diventa sempre meno chiaro. Dopo uno stralcio (la posizione dei fratelli Raffaele ed Angelo Lombardo), un patteggiamento ed un rito abbreviato, infatti, da ieri un nuovo capitolo si è aperto nella storia di questo processo.

La corte d'Assise catanese ha infatti deciso che non è competente a giudicare la maggior parte degli imputati nel procedimento ordinario, dando così di fatto inizio a quattro procedimenti diversi. Quattro procedimenti nuovi che significano, anche, quattro nuovi giudici che dovranno studiare nuovamente tutto da capo, rallentando l'iter giudiziario quanto meno di alcuni mesi.

L'unico filone ancora nelle mani della corte d'Assise rimane quello legato al duplice omicidio di Angelo Santapaola e Nicola Sedici, gli altri filoni verranno invece inviati in tribunale. «In corte d'Assise» - ha spiegato Carmelo Peluso, che nel processo difende l'ex deputato regionale dei Popolari Italia Domani Fausto Fagone - «sono presenti sei giudici popolari, certamente non competenti su questioni tecniche. Il rischio era che il giudizio venisse influenzato da valutazioni emotive».
Da rivedere poi la posizione delle varie associazioni che hanno chiesto di costituirsi parte civile e che, con la decisione presa dalla corte, dovranno fare nuova richiesta ai nuovi giudici.

La perizia conferma: Totò Riina è ancora "u curtu"

fonte: nottecriminale.it
Caltanissetta – Quando ne avevamo parlato, alla fine del mese di gennaio[1], avevamo concluso chiedendoci se non fosse necessario cambiare il soprannome di Totò Riina da “'u curtu” a “'u pazzu”. Luca Cianferoni, avvocato del boss, aveva chiesto una perizia psichiatrica per il suo assistito, ritenuto incapace di intendere e di volere e dunque non più compatibile con la situazione carceraria in cui si ritrova ormai da anni e non più giudicabile all'interno dei processi a suo carico.

I periti Vito Milisenna (medico legale), Pasquale Guzzo (psichiatra) e Felice Di Buono (psicologo) sono stati ascoltati giovedì mattina, 9 febbraio, dalla Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta presieduta dal giudice Andreina Occhipinti – all'interno del processo per alcuni delitti commessi nel territorio ennese da Cosa Nostra tra il 1982 ed il 1992 – confermando che, per quanto malato del morbo di Parkinson e di problemi cardiaci, Riina è capace di intendere e di volere e dunque ancora processabile.

Il perito sparito. All'interno della vicenda c'è anche spazio per un “piccolo” giallo. Si sono infatti perse le tracce di Paolo Procaccianti, il medico legale nominato per la perizia del 23 gennaio nel cui curriculum si annoverano perizie per i casi di Roberto Calvi, Giulio Andreotti, Marcello Dell'Utri, Peppino Impastato ed altri. Le strade che possono essere intraprese per tentare di capire questa sparizione sono tante, almeno quanto le domande.

L'unica domanda a cui, dopo la perizia, si può dare risposta è quella con cui abbiamo iniziato: Totò Riina, per ora, rimane solamente "'u curtu".

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2012/01/riina-da-u-curtu-u-pazzu.html

Barcellona Pozzo di Gotto, la trattativa all'ombra del Parco

fonte: enricodigiacomo.org
Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) – La criminalità organizzata, Cosa Nostra in particolare – come insegnano sia la biografia dell'organizzazione che la moltitudine di libri e film realizzati sull'argomento – ha una vera e propria passione per la terra, essendo nata nelle masserie di proprietà dell'alta borghesia dell'isola agli inizi del diciannovesimo secolo. Oggi, con quell'epoca ormai alle spalle quello stesso “sentimento” viene declinato in cose come il movimento terra o il lavaggio del denaro di provenienza illecita attraverso la penetrazione di economie legali come quella edile.
Un altro dei “primi amori” di Cosa Nostra – ma anche delle altre organizzazioni criminali, come inchieste giornalistiche e giudiziarie ci raccontano sempre più spesso – è la politica, e tenendo fede al vecchio e ben noto detto, ambedue sono “amori” che non si scordano.

Quando si uniscono, però, abbiamo una situazione come quella di contrada Siena, in provincia di Barcellona Pozzo di Gotto (nel messinese) dove – come scrive Antonio Mazzeo in un recente articolo su “I Siciliani giovani”[1] - un terreno che nel luglio 2007 era valutato 28 euro al metro quadrato diciannove mesi dopo ne valeva 85, cosa che porterebbe, ad esempio, ad una plusvalenza di circa il trecento per cento se quel terreno fosse messo in vendita.

Ma nessuno ha intenzione di venderlo, anzi. Perseguendo la più bipartisan delle politiche italiane – quella del cementificare in ogni modo ed in ogni luogo possibile - l'idea è quella di trasformare un'area agricola in un mega parco commerciale di 18,4 ettari attorno al quale sviluppare l'industria alberghiera, quella della ristorazione e quella del divertimento.
Letto dall'altro lato, questo significa aggiungere cemento in una regione che già soffre di un eccessivo problema di cementificazione. Anche se quello del cemento, per quanto riguarda contrada Siena, non sembra essere il problema più grosso.

Innanzitutto perché a fine novembre 2011 la ministra dell'Interno Anna Maria Cancellieri ha firmato – insieme al prefetto di Messina Francesco Alacci – il decreto di accesso agli atti che istituisce la commissione di indagine sulle eventuali infiltrazioni della criminalità organizzata nel comune barcellonese. Un lavoro d'indagine della durata di novanta giorni. A breve, quindi, si saprà se quello barcellonese sarà un altro dei già troppi Comuni sciolti per tale motivo.
Uno dei nodi chiave dell'inchiesta verterà proprio sul progetto del Parco di contrada Siena e sulle numerose anomalie «che hanno condizionato l'iter progettuale», come hanno più volte denunciato le associazioni antimafia “Rita Atria” e “Città Aperta”

Michele Senese, il "puparo" con l'accento napoletano

Roma – Seconda ed ultima parte del viaggio nella genìa camorristica di Cosa Nuova. Nella precedente puntata (a fondo pagina le parti fin qui pubblicate) siamo partiti dalla “Bella società riformata” per fermarci nel pieno della guerra tra i cutoliani e il cartello della Nuova Famiglia. Mentre a Napoli, a Caserta e nelle altre città campane si sparava, a Roma piano piano si formava un clan il cui potere è ancora intatto, nonostante gli arresti del 2009 che l'hanno di fatto decapitato. È questa la storia del clan Senese.

Michele Senese – detto anche lui, come Zaza, “'O Pazzo” - durante la prima guerra di camorra fa il killer. Nel 1982 molti collaboratori di giustizia assoceranno il suo nome ad almeno tre omicidi: quello di Alfonso Capatano, ucciso a Nola a gennaio e quelli di Raffaele e Vincenzo Ferrara a Casoria nel mese di settembre.
Senese aveva iniziato qualche anno prima con le rapine, insieme al cognato Antonio Gaglione, appartenente ai clan dell'area di Caivano-Marcianise, Antonio Balsamo e Gennaro Tuccillo.

Il primo a mettere gli occhi addosso al gruppo è il clan Moccia, appartenente alla galassia della Nuova Famiglia che oggi, sotto la guida di Anna Mazza, controlla la zona nord-est di Napoli, tra cui la famigerata piazza di spaccio di Parco Verde (di cui scrivevo a settembre[1].
Senese nel clan fa presto carriera, tanto da potersi presto sedere allo stesso tavolo con boss del calibro di Carmine Alfieri, Pasquale Galasso e Angelo Moccia (di cui Senese è uomo di fiducia). Sono proprio questi a mandarlo a Roma, insieme al suo gruppo, alla ricerca di Enzo Casillo.

È a questo punto che “'O Pazzo” inizia a frequentare sempre di più la capitale, tanto da insediarvisi definitivamente sul finire degli anni Ottanta, quando agli omicidi ed all'attività estorsiva – pratiche da “manovalanza” - aggiunge quelli che diventeranno i suoi passatempi preferiti, cioè traffico internazionale di stupefacenti (hashish e cocaina in particolare), gestione del gioco d'azzardo, acquisto di attività commerciali come strumento di reimpiego dei capitali illeciti e controllo del banco dei pegni. Di lì a qualche anno – anche con l'ausilio dei grandi importatori come il clan Gallo o quello degli Abate – non c'è grammo di droga a Roma che non sia passato prima tra le mani del gruppo di Senese.
Più aumenta il potere, per i Senese, più si avvicina anche per loro il “battesimo della faida”, che avviene nel 1996, quando Michele Senese decide di appoggiare il clan dei Belforte (appartenenti alla galassia dei Casalesi) nella guerra con i Piccolo per il controllo dell'area di Marcianise, nel casertano.

Cosa Nuova. Canta Napoli e Roma risponde (col botto)

Roma – Quarto appuntamento con la storia della guerra di mafie che, da mesi, sta insanguinando le strade della capitale (in fondo al post trovate i link per le puntate precedenti). Iniziamo oggi un viaggio nella cronologia di “Cosa Nuova”, cercando di capire attraverso nomi, fatti e circostanze, come è stato possibile creare quella che per importanza criminale è ormai assurta a quinta mafia. Questo nostro viaggio parte da chi, per questioni principalmente territoriali, a “Cosa Nuova” è vicino: la camorra.

Camorra alla sbarra. Di mala napoletana, nel Lazio, si inizia a parlare addirittura agli inizi del secolo scorso. Nel 1911, infatti, viene celebrato a Viterbo (per cercare di eliminare quanto più possibile eventuali “interessamenti” della criminalità verso la corte) il primo processo di camorra, che allora si chiamava “Bella società riformata”. Cinque anni prima, nel 1906, a Torre del Greco venne rinvenuto il corpo senza vita di Gennaro Cuocolo, la testa fracassata a suon di bastonate ed il corpo martoriato da quaranta colpi di coltello e stiletto. A poche ore da quel ritrovamento, anche il corpo della moglie, Maria Cutinelli, fu rinvenuto privo di vita a Napoli. Oltre ad essere noti per furti negli appartamenti, i due, erano anche basisti della camorra. Il processo – che all'epoca ebbe una vastissima enfasi mediatica e, si scoprirà in seguito, fu viziato da una quantità indefinibile di manipolazione delle prove – porterà l'anno successivo ad una condanna complessiva di 354 anni di reclusione. Ad Enrico Alfano e Giovanni Rapi – boss il primo, maestro elementare ed usuraio il secondo – che la sera prima dell'omicidio erano stati visti cenare proprio con Cuocolo, vengono comminati trent'anni di carcere, a Gennaro Abbatemaggio detto “'O Cucchierello”, confidente della polizia e “pentito” sulle cui dichiarazioni si basò tutto il processo, di anni ne dettero cinque.

Il baule. Durante le perquisizioni domiciliari, comunque, i carabinieri trovarono del materiale decisamente interessante e che, dissero, se divulgato avrebbe fatto tremare i polsi a più di un notabile, a Napoli come a Roma, come le cambiali rilasciate a noti cravattari della camorra da funzionari e magistrati. Ci sarebbe anche un baule, sequestrato a Ciro Vittozzi, prete e boss a tempo perso (o viceversa) che conterrebbe le prove dei legami tra la criminalità e le istituzioni. Ma questo, guarda caso, sparisce. E nessuno lo trova più.
I primi sentori di camorra, nella capitale, erano comunque arrivati una decina di anni prima, nel 1901.

Diplomazia criminale firmato Cosa Nuova

Roma - Terzo appuntamento con il nostro approfondimento sulla guerra di mafie romana[1][2]. Prima di andare ad approfondire le “biografie da emigrazione” delle organizzazioni, è bene porsi una semplice, quanto fondamentale, domanda: cosa ha spinto fin dagli anni Settanta le organizzazioni criminali a spingersi verso la Capitale?

Le organizzazioni criminali, in maniera diretta o indiretta – come nel caso delle mafie estere attraverso “delegazioni diplomatiche” - nella capitale e nella regione ci sono tutte. I primi insediamenti di camorra, 'ndrangheta e Cosa Nostra si devono alle latitanze, come nel caso dei Bardellino, che consideravano il Sud-Pontino nient'altro che una continuazione del loro territorio, o con i soggiorni obbligati, che hanno permesso, ad esempio, alla criminalità di mettere le mani sul mercato ortofrutticolo più grande del Sud Italia, cioè quello di Fondi, in provincia di Latina, dove sembra sia avvenuta una vera e propria spartizione della merce: le arance a Cosa Nostra, i pomodori alle 'ndrine, le mele annurche alla camorra.
È stato proprio partendo da questo che, in maniera più o meno voluta, le cosche si sono ritrovate con un'intera regione di cui poter usufruire, utilizzandola anche come “territorio neutro” sul quale dipanare le loro controversie, interne o esterne che fossero.

Estrapolare i boss dai loro territori – era questa l'idea alla base dei soggiorni obbligati al centro e al nord Italia – ha avuto però più lati negativi che positivi. Non solo infatti, come le cronache giudiziarie hanno più volte raccontato, i boss continuavano a comandare anche da lontano, ma slegarli dal loro contesto di riferimento in termini territoriali e soprattutto dal retaggio simbolico-culturale, ha permesso la nascita di alleanze trasversali, come avvenuto tra calabresi e campani per il mercato della droga sul litorale romano e nel Basso Lazio. Sul fronte transnazionale, invece, nigeriani e colombiani si occupano – in partnership con la 'ndrangheta (soprattutto con la 'ndrina dei Gallace, come evidenziato dall'operazione “Appia-Mithos”) – del trasporto della cocaina sul territorio, delegando poi ad algerini e marocchini lo spaccio al dettaglio e quello della cannabis, così come “patti della coca” sono stati rilevati con i serbi e con gli albanesi, alleatisi con la camorra, in particolare con il clan dei Gallo-Cavaliere di Torre Annunziata.
Fiumicino con l'aeroporto nonché Viterbo e Civitavecchia per il traffico via mare costituiscono le porte d'ingresso della droga nella regione.

Roma, aperto il "laboratorio Cosa Nuova". Dagli anni Settanta

foto: nottecriminale.wordpress.com
Roma - Continuiamo il nostro approfondimento su quella che sempre più sembra essere una vera e propria guerra di mafie[1]. Prima di entrare nello specifico, andando a guardare come le mafie – italiane ed estere – si siano insediate nella Capitale fin dagli anni Settanta, è necessario prima fare il punto su cosa sia e quanta forza – criminale ed economica – abbia oggi quella che l'associazione “Libera” nel suo dossier[2] ha chiamato “Cosa Nuova”.
Un bar ed una corda. È da qui che riparte la nostra storia.

Eravamo quattro amici (degli amici) al bar. L'anno è il 2009, siamo a luglio. La Città Eterna si sveglia con uno dei tanti blitz della Guardia di Finanza che mette i sigilli a una decina di locali – valore totale sui 200 milioni di euro - tra cui il “Café de Paris” di via Veneto, uno dei locali più in vista della città che da solo vale poco più di un quarto del sequestro. È qui, tra questi tavoli, che Federico Fellini crea – almeno nel nome – i “paparazzi”, quelli che poi si vedranno spaccare le macchine fotografiche in una storica rissa con le guardie del corpo di Frank “The Voice” Sinatra.
Oggi, passata quell'epoca e con il bar in amministrazione giudiziaria, da quegli stessi tavolini si ordinano quotidianamente l'olio coltivato nella Piana di Gioia Tauro, il vino corleonese o la pasta casertana. Tutti prodotti che arrivano dalle terre confiscate alla criminalità organizzata attraverso il circuito di Libera[3].
Tra “The Voice” e i prodotti dell'organizzazione, infatti, nel bar c'è passata la 'ndrangheta. 'Ndrina degli Alvaro, “ramo” Testazza, per l'esattezza[4]. Il bar, come hanno appurato gli inquirenti, è stato venduto nel 2005 a Damiano Villari, barbiere calabrese trasferitosi nella capitale e diventato il più importante dei prestanome della 'ndrina per il numero di intestazioni fittizie e l'elevato spessore delinquenziale, come si legge nell'ordinanza di arresto in seguito all'operazione “Rilancio”, avviata dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri nel 2007 e culminata, appunto, nel blitz del 2009. Villari – insieme ad altri ventisette prestanome – era il braccio, la mente era invece il boss Vincenzo Alvaro, considerato il capo cosca a Cosoleto (comune del reggino sciolto nel 1997).

Roma, finita la pax di "Cosa Nuova"?


foto: nottecriminale.wordpress.com

ROMA - Dicono che Roma non sia Palermo. Ed è un po' come quella vecchia storia che la mafia, in certi posti, è solo un'invenzione dei media. Eppure a Roma, nel 2011, ci sono stati più morti che a Palermo, a Napoli o a Reggio Calabria. Trentatré morti violente. Trentatré morti ammazzati. Troppi per una città che, dicono, sia semplicemente una città allo sbaraglio, una città che – con il passaggio politico da Veltroni ad Alemanno – ha perso in sicurezza. Trentatré morti ammazzati li trovi nei resoconti dei telegiornali da posti come Baghdad, Kabul o il Kosovo degli anni Novanta. Ma quelli sono – o sono stati – paesi in guerra. In tempo di guerra trentatré morti ammazzati basta un attentato per farli. Ma in tempo di pace no, in tempo di pace è più difficile.
Eppure quei trentatré morti ammazzati ci sono. Come ci sono stati a Palermo, a Napoli e a Reggio Calabria. Ma quelli nemmeno erano tempi di pace. Anche Palermo, Napoli e Reggio Calabria hanno conosciuto le loro guerre. “Faide” le chiamano, come se ammazzarsi tra clan sia meno importante. Anche perché, lo abbiamo sentito dire tutti almeno una volta, «finché si ammazzano tra di loro...».

È proprio in quei momenti, quando iniziano ad “ammazzarsi tra di loro”, che bisogna alzare il livello di attenzione, ancor più di quanto non si stia attenti nei periodi in cui la criminalità organizzata si siede ad un tavolo a trattare e non sceglie la via delle armi. Dato il livello di penetrazione dei clan in molti settori dell'economia legale, comunque, l'attenzione – giudiziaria, giornalistica, civile – è evidentemente ancora troppo bassa. Perché quando quel tavolo salta e piuttosto che gli stradari cittadini con cui si spartiscono le città qualcuno inizia a posarci sopra un kalashnikov o una pistola vuol dire che qualcosa di lì a poco cambierà. È successo con le vecchie famiglie siciliane e i Corleonesi, con la guerra tra i cutoliani e la Nuova Famiglia prima e con quella tra i Casalesi e gli Scissionisti dopo a Napoli o con i Libri-Tegano e i Condello-Serraino a Reggio Calabria. “Guerra di mafia” scrivevano i cronisti a Palermo, a Napoli o a Reggio Calabria quando in redazione arrivava la chiamata che ce n'era stato un altro, di morto ammazzato.
E ad ogni morto ammazzato per le strade siciliane, campane o calabresi c'era qualcuno – da qualche altra parte – a cui tremavano i polsi. Come i parlamentari comprati a suon di voti scambiati a Roma, ad esempio. O come tutti quei piccoli o grandi imprenditori che, a Roma come a Milano come a Reggio Emilia, con la criminalità organizzata ci hanno sempre campato, e anche bene.

Capita, però, che anche in queste altre città si facciano dei morti ammazzati. Forse ha ragione Luigi De Ficchy, procuratore capo di Tivoli, sul fatto che dietro ad ognuno di quei trentatré morti ammazzati nella capitale non ci debba per forza essere la criminalità organizzata. Eppure ad andare un po' più in profondità, a grattar via quella patina da “semplice città insicura” che media e politica hanno scelto per Roma, si può leggere una storia un po' diversa. Una storia che, da Palermo, da Napoli, da Reggio Calabria così come dall'estero porta – memore di quel vecchio detto – nella capitale. Insieme alla via della droga, delle armi e del denaro da lavare.
Qualcuno lo sarà davvero un omicidio “casuale”. Ma capire che oggi, a Roma, si assiste ad una nuova guerra di mafie – al plurale, e non è un refuso – può essere il primo passo per bloccare l'ascesa dei nuovi corleonesi, dei nuovi scissionisti o della nuova 'ndrangheta. Perché, è evidente a volerlo leggere, con la caduta di un sistema di potere – quello berlusconiano – non è solo il sistema degli equilibri politici che si sta riorganizzando. C'è anche, e soprattutto, il riequilibrio di quel sistema criminale che, con il voto, mette propri afferenti in Parlamento, nei consigli regionali o in quelli comunali.

È alla luce di queste considerazioni che credo utile provare a raccontare – in maniera comunque non definitiva, dato che mentre scriviamo per le strade della capitale si continua ad uccidere, rapinare e gambizzare - proprio quella storia che in pochi, ammaliati dai riflettori del governo tecnico e delle polemiche che si porta dietro, sembra vogliano (o abbiano la possibilità di) raccontare.
Perché per qualcuno – a livello politico e mediatico – Roma oggi è semplicemente preda di un gruppo di “cani sciolti” che si sono messi a sparare. Senza apparente motivo. Per qualcun altro, invece, a Roma da un po' di tempo è stato aperto un laboratorio. Il “laboratorio Cosa Nuova”.

Tra i pomodorini finto-italiani, blitz della Finanza al mercato ortofrutticolo di Vittoria

Vittoria (Ragusa) – Commissari ortofrutticoli, commercianti, componenti della Commissione mercato ed impiegati comunali. In tutto sono 74 le persone denunciate dalla Guardia di Finanza al termine di un lavoro di indagine durato due anni e volto a monitorare il movimento di denaro dei commercianti e dei commissari al mercato ortofrutticolo – tra i più grossi di tutto il Sud con un volume di circa 2,5 milioni di quintali di prodotti destinati ai mercati del Nord Italia ed europei – che ha portato a far emergere redditi non dichiarati per 18 milioni di euro, derivanti dalla creazione di un mercato parallelo delle concessioni dei box (una ventina quelli interessati).
I reati ipotizzati vanno dalla frode in commercio alla bancarotta fraudolenta, passando per truffa, turbativa d'asta, abuso d'ufficio, peculato, falso e favoreggiamento reale, inseriti in un dossier di 229 pagine consegnato al procuratore della Repubblica di Ragusa Carmelo Petralia.

Gli accertamenti hanno anche permesso l'individuazione di una frode alimentare commessa da tre operatori del settore, che avrebbero messo in commercio nei mercati del Nord Italia circa 27 tonnellate di pomodorini prodotti ufficialmente in Italia ma di provenienza tunisina, attraverso il passaggio tra varie aziende gestite dagli indagati, necessari a rendere più difficili i controlli sulla filiera. Le indagini si sono concentrate in particolare su molti casi di doppia attività dei commissari, che non solo svolgevano il loro compito di intermediazione ma si inserivano nella filiera anche come compratori – direttamente o attraverso società esterne a loro collegate - riuscendo così ad abbassare i prezzi pagati ai produttori. Da accertare, inoltre, il numero di licenze di concessionario ortofrutticolo rilasciate a persone che non ne avrebbero avuto i requisiti previsti dalla legge.
Ancora aperto il filone d'inchiesta volto ad individuare eventuali infiltrazioni della criminalità organizzata.

«Se le responsabilità saranno accertate» - commentano dalla Coldiretti - «all'inganno nei confronti dei cosumatori italiani che pensavano di acquistare pomodorini siciliani, si aggiunge il danno gravissimo provocato all'economia siciliana e ad uno dei suoi prodotti più tipici». È anche per effetto dei pomodorini tunisini spacciati per italiani, dicono dalla Coldiretti, che la produzione locale è crollata di oltre un terzo dallo scorso anno, costringendo alla chiusura molte aziende.