Inter Press Service, decolonizzare il mondo ribaltando l'informazione

La IPS è la prova che i miracoli esistono, purché siano umani: questo miracolo è il frutto dell'umana ostinazione dei naviganti che attraversano mari nemici, giorno dopo giorno, aprendo la strada all'informazione onesta e alla libertà di opinione.
Eduardo Galeano]
foto: antonella.beccaria.org

Roma – Quando si parla di sigle e giornalismo gli acronimi che per primi arrivano alla memoria sono quelli della Cable News Network (CNN) o della British Broadcasting Corporation, meglio nota come BBC. Meno quello della nostra Rai, che per chi non lo sapesse nasce come Radio Audizioni Italiane. Ancor meno vengono citate le iniziali della Inter Press Service (IPS) (qui il link all'edizione italiana), nonostante questa, da quando è stata fondata – l'anno è il 1964 – ricopra un ruolo fondamentale nel panorama giornalistico mondiale: ribaltare la direzione delle notizie tra Nord e Sud del Mondo.

«Sin dall'invenzione del telegrafo le agenzie di stampa internazionali hanno orientato la visione del mondo di ognuno di noi, contribuendo invariabilmente a condizionarla in base agli interessi geopolitici dei poteri forti» - si legge nella bandella del libro di Roberto SavioI giornalisti che ribaltarono il mondo. Le voci di un'altra informazione” edito da Nuovi Mondi nel 2011 - «Dopo la Seconda guerra mondiale, il 94% delle notizie dei giornali di tutto il mondo in materia di affari esteri proveniva da 4 agenzie, la AP, la UPI, la AFP e la Reuters. Una copertura che non lasciava spazio alla nuova realtà che stava nascendo dalla decolonizzazione e che accentuava gli schemi manichei della Guerra Fredda».

È da questo evidente disequilibrio che un gruppo di giornalisti guidati dall'italo-argentino Savio decide di creare la prima agenzia di stampa che ribalti il mondo. L'autore - che dell'agenzia è stato direttore fino al 2000 ed oggi è cofondatore e segretario generale di Media Watch Global – ha raccolto ben cento testimonianze di cosa sia stata la IPS nel tempo. Varie sono quelle che evidenziano i problemi legati al lavorare “contro il sistema precostituito”, introducendo tematiche oggi comprese nell'agenda setting ma che negli anni Sessanta erano assolute novità, come il racconto dei paesi del Terzo Mondo fuori dall'ottica dei soli interessi occidentali, i diritti umani (in un'epoca nella quale le dittature venivano usate dal Primo Mondo quasi come strumento di politica estera), le tematiche ambientali o quelle di genere. La peculiarità del modo di raccontare i fatti della IPS è sempre stato quello di non limitarsi a raccontare il semplice avvenimento

"Siria 2.0" di Amedeo Ricucci: la guerra nell'obiettivo (di uno smartphone)

Clicca sull'immagine per visualizzare il video
Roma – In un intervista concessa ad InfoOggi.it (giornale on-line con cui lavoro) lo scorso luglio[1], Amedeo Ricucci aveva raccontato di limitarsi «a raccontare quello che vedo, senza caricarlo di troppi significati». Martedì sera ne abbiamo avuto la prova nei 53 minuti di “Siria 2.0: la battaglia di Aleppo” (che vedete qua sopra), andato in onda per “La storia siamo noi”. 53 minuti di reportage da Aleppo, per raccontare la guerra siriana direttamente dalle strade dove questa si svolge. Perché oggi, citando il Robert Fisk di qualche tempo fa, di guerra se ne parla tanto ma se ne vede sempre meno. È stato questo il primo merito del lavoro realizzato da Ricucci, Stefano Varanelli, Cristiano Tinazzi e il fotografo Elio Colavolpe: l'aver rimesso al centro la guerra in un periodo dove questa viene presentata attraverso il numero di morti o dei missili lanciati, dimenticandosi che a pagarne i costi effettivi è sempre la popolazione, come la famiglia che ha ospitato la troupe, costretta a traslocare di casa in casa per evitare di entrare a far parte di quella “conta”.
Raccontarla in questo modo, la guerra in Siria, ha permesso inoltre una piccola ma fondamentale lezione di autonomia giornalistica. In un paese dove troppo spesso ci si affida ad una filosofia embedded, la troupe, pur viaggiando insieme all'Esercito Siriano Libero, è stata in grado di mostrarci non solo il punto di vista dei ribelli, ma anche la loro versione meno spendibile di una giustizia di guerra di fatto sommaria, rifiutando il romanticismo di una certa visione occidentale spesso eccessivamente buonista.
Infine la grande lezione di giornalismo, fatta attraverso il racconto classico pensato direttamente per il web – sfruttando la redazione romana della trasmissione e la tecnologia offerta da un semplice smartphone – per una serie di video diventati poi quei 53 minuti messi in onda, a riprova che non sono le grandi strumentazioni tecnologiche (gli “effetti speciali”, li chiamerebbe qualcuno) a fare la differenza, ma chi ci mette «l'onestà, la passione, la competenza, la curiosità», quei “Ferri Vecchi” che danno il titolo al blog di Amedeo Ricucci e chi no.
Note
[1] Giornalismo come scelta civica e non come esercizio di stile. Intervista ad Amedeo Ricucci di Giulia Farneti, InfoOggi.it, 19 luglio 2012;

Dentro l'M23. Il quadro internazionale (3/3)

In migliaia hanno lasciato la città di Sake, Thousands flee the town of Sake, 26 km a ovest di Goma a seguito degli scontri nelle città orientali della Repubblica Democratica del Congo.
Foto: Phil Moore/AFP/Getty Images

Goma (Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo) - Paul Kagame contro Joseph Kabila. Guardando “con occhio (agli interessi) occidentale” quello che sta avvenendo nell'area dei Grandi Laghi, dopo il ruolo giocato dalle preziosissime riserve minerali lo scontro tra i due presidenti potrebbe essere una delle chiavi di lettura con cui poter spiegare l'”M23”.
Uno scontro che porta direttamente nelle stanze di Washington – di cui, in qualche modo, ambedue sono referenti nell'area – e delle principali cancellerie del mondo, incluse quelle dei consigli d'amministrazione di quelle società che hanno interessi diretti sulla Repubblica Democratica ed il cui operato è stato definito dalle Nazioni Unite come un vero e proprio “saccheggio sistematico”[1]. Le diplomazie affaristico-politiche occidentali infatti, si ritrovano in una posizione delicata (da qui anche l'immobilismo dei caschi blu, ormai da tempo trasformatisi in esercito al servizio del Primo Mondo).
Il 40enne Joseph Kabila, infatti, considerato “persona non grata”[2] dai suoi stessi cittadini, viene visto dall'Occidente come un “investimento più sicuro” rispetto al suo più importante contendente interno, il 79enne Étienne Tshisekedi wa Mulumba, leader dell'Unione per la Democrazia ed il Progresso Sociale (uno dei movimenti politici più importanti del paese) che - pur perdendo alle contestate elezioni dello scorso dicembre[3] - è riuscito a portare dalla sua parte la popolazione attraverso scioperi generali e le caratteristiche peaceful Christian marches, le marce pacifiche con le quali negli anni Novanta fu tra gli artefici della caduta DI Mobutu Sese seko.
Ma anche i santi hanno i loro scheletri nell'armadio però, e stando al libro dello scrittore belga Ludo De Witte "L'assassinio di Lumumba" Tshisekedi avrebbe partecipato all'omicidio del per ora unico leader realmente indipendente che la Repubblica Democratica - o in qualunque altro nome sia stata contraddistinta fino ad ora - abbia prodotto: Patrice Émery Lumumba (qui una biografia[4]).

La geo-politica degli aiuti internazionali. Dall'altro lato del fronte Paul Kagame, anch'egli passato dal fronte anti-Mobutu e dall'addestramento statunitense[5], entrato nelle grazie occidentali per essere il più capace “maneggiatore di aiuti umanitari del continente”, tra i quali i 125,5 milioni di dollari provenienti dalla Gran Bretagna che negli ultimi 5 anni hanno permesso ad un milione di rwandesi di uscire dalla povertà, facendo registrare il più veloce tasso di riduzione della stessa mai raggiunto in Africa.

Dentro l'M23. Il network dei minerali insanguinati (2/3)

la mappa delle risorse naturali nella Repubblica Democratica del Congo.
Fonte:
http://www.bbc.co.uk/news/world-africa-15722799

Goma (Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo) - In Bosco Ntaganda Joseph Kabila – eletto presidente in RDC nel 2001 dopo l'assassinio del padre – aveva riposto le speranze per la buona riuscita dell'operazione “Amani Leo” (“Pace oggi”, in swahili) del 23 marzo 2009, con la quale si tentò di pacificare l'area anche attraverso un'amnistia verso gli esponenti del CNDP.
Le Nazioni Unite e diverse organizzazioni non governative che lavorano nell'area descrivono “Terminator” come il classico signore della guerra africano che utilizza il suo rango militare per scopi personali come la creazione di un esercito personale con il quale difendere i propri interessi nei traffici transfrontalieri con il Rwanda (come quello delle armi, violando l'embargo), nel controllo delle miniere e sui racket che – stando ad un report confidenziale delle Nazioni Unite e ripreso in parte dall'agenzia Reuters (qui ripreso dalla BBC[1]) - costituiscono una importante fonte di finanziamento del movimento ribelle (15.000 dollari a settimana) del quale però stanno godendo maggiormente gli alti ufficiali.
Il fattore finanziario, infatti, è uno dei motivi principali che hanno portato alla creazione dell'”M23”, noto anche come Esercito Rivoluzionario Congolese nato nella primavera scorsa dalla diserzione di circa 300 soldati appartenenti al CNDP ribellatisi alle condizioni precarie dell'esercito regolare, con salari da 100 dollari non sempre pagati in un contesto militare in cui regole fondamentali erano corruzione, inefficienza e scarsità di alloggi per le truppe.

I soldi veri però, nella Repubblica Democratica – un paese grande più o meno quanto l'Europa dell'Est che ospita 72 milioni di abitanti[2] – ribelli e soldati regolari non li fanno con i medio-piccoli taglieggiamenti ma sfruttando le ricchezze di un Paese archetipico dello sfruttamento tra Nord e Sud del mondo. I famosi “blood diamonds[3], avorio, oro, cobalto, petrolio, uranio[4], il coltan[5] senza il quale non sapremmo il significato di un termine come “telefono cellulare” oltre a cacao, caffè cotone e molte altre ricchezze che, da sole, non giustificano la posizione di ultimo in classifica per quanto riguarda PIL pro-capite ed Indice di Sviluppo Umano. La Chatham House stima che il guadagno derivante dallo sfruttamento di queste risorse[6] sarebbe di oltre venti miliardi di dollari. Un intero allevamento di galline dalle uova d'oro su cui in tanti – tra signori della guerra, corporations e governi vari - vogliono mettere le mani e che rappresenta il vero motivo dell'instabilità sociale, politica, economica ed inter-etnica che non sembra possibile placare.

Dentro l'M23. Cosa c'è dietro la ribellione nella Repubblica Democratica del Congo (1/3)

Da alcune settimane il movimento denominato “23 Marzo” sta mettendo a ferro e fuoco la Repubblica Democratica del Congo tra stupri, bambini soldato e risorse minerarie che hanno portato solo ad un nuovo capitolo di una guerra iniziata con il genocidio rwandese del 1994 e mai realmente conclusasi. Mentre le Nazioni Unite stanno a guardare.

Il portavoce del movimento M23, Vianney Kazarama, parla alla folla riunitasi allo stadio di Goma lo scorso 21 novembre.
Fonte: news.yahoo.com

Goma (Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo) – La città di Goma è caduta martedì 21[1]. L'esercito continua a subire diserzioni e il contingente MONUSCO (attualmente il più importante intervento di peacekeeping delle Nazioni Unite nel mondo) l'ha gentilmente offerta ai ribelli del movimento “M23” (“Marzo 23” il nome per esteso) senza opporre neanche la minima parvenza di resistenza. 2 morti e 37 feriti – tra cui tre donne incinte ed un bambino al quale è stato amputato un braccio – il risultato numerico della battaglia, come ha raccontato Justin Lussy, medico dell'HEAL Africa Hospital a Pete Jones del Guardian[2].

Le grida di gioia e gli applausi non derivavano dalla felicità della popolazione per l'arrivo degli uomini guidati da Emmanuel Sultani Makenga – attuale leader del gruppo – ma dalla cruenta battaglia tra le parti in causa che non si è verificata e da una necessità impellente: dover sopravvivere. Perché la paura che anche a Goma si verificassero gli stupri, gli omicidi e le sparizioni che stanno caratterizzando l'avanzata militare del movimento era forte, così come quella di vedere uomini e bambini diventare “ribelli” nelle cronache occidentali. Indipendentemente dalla loro volontà.
Quattro anni fa la scena fu simile, con le milizie del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (da ora CNDP) fermatesi simbolicamente alle porte della città, costringendo il presidente della Repubblica Democratica Joseph Kabila Kabange a chiamare il leader rwandese Paul Kagame per sancire la resa ed il successivo “accordo di pace”. Stavolta però Kabila sembra aver intrapreso la strada opposta, ottenendo l'appoggio degli altri leader dell'area dei Grandi Laghi e facendo la voce grossa con i ribelli[3]. In quell'occasione dietro al movimento dei cosiddetti ribelli c'era proprio Kagame, il quale nega ogni addebito per la situazione attuale, nonostante molti indizi indichino che egli sia non solo dietro al movimento ribelle ma anche al lato, come sarebbe avvenuto proprio durante la presa di Goma secondo le parole di Lambert Mende Omalanga, ministro delle Comunicazioni e portavoce del governo congolese.

Il nuovo scontro a distanza (diventato ormai una proxy-war[4]) è però solo l'ultimo atto di una guerra che negli anni ha solo cambiato attori e nome alle milizie ma che continua, imperterrita, da almeno vent'anni ed in cui sono forti le colpe e gli interessi dell'Occidente, che con l'industria hi-tech ha trasformato l'area del Nord-Kivu – considerato l'ex granaio del Paese – in un'area in cui ad essere coltivata è rimasta solo la violenza.

Il nuovo Iraq: un contractor è per sempre (2/2)

foto: yahooka.com

Bassora (Iraq) - Torniamo all'incontro di Washington, dove oltre alle armi si è parlato della scarsa reputazione dei contractors, 260.000 dei quali sparsi tra l'Afghanistan e l'Iraq secondo i dati della U.S. Commission on Wartime Contracting
Mercenari? Eserciti privati? Qual è il vero volto delle Private military and security companies (da ora PMSCs)?

Il mercato della guerra privata. Centomila imprese tra il 2004 ed il 2007 per un fatturato – anno 2010 – che oscilla tra i 700 e gli 800 miliardi di dollari, con un incremento annuo attestatosi ormai sui 100 miliardi. Cifre stratosferiche che ben rappresentano le reali motivazioni di chi di questo business fa parte. La più nota compagnia è l'americana “Blackwater” (nomen omen direbbero i latini), a cui era assegnata la sicurezza in Iraq fino al 2007, quando il “caso al-Nisur”[1] (l'omicidio di 17 civili durante una sparatoria in piazza) fece sì che il governo iracheno ne revocasse l'ingresso. 195 omicidi di civili in due anni – dal 2005 al 2007 - iniziavano ad essere una buona causa per l'espulsione, anche alla luce del fatto che ogni volta ad aprire il fuoco sono stati per primi uomini della Blackwater, come raccontano gli stessi registri della compagnia. Come se non bastasse, a questi vanno aggiunti oltre 200 casi di abusi, torture e violazioni dei diritti umani avvenuti in quello stesso periodo ed analizzati dalla ong spagnola Nova e dalla statunitense Peace for tomorrow. Quando i crimini sono stati puniti, la pena massima è stata l'allontanamento dei condannati dal paese e l'interruzione del rapporto con la compagnia di riferimento.

Ma si sa: quando un sistema di potere decade, questo deve essere immediatamente sostituito al fine di evitare vuoti di potere. Così è stato anche per l'espulsione della Blackwater, che ha portato ad una parcellizzazione del sistema nel quale le compagnie rimaste si fanno una concorrenza estrema anche con l'utilizzo di attentati. Come avvenuto lo scorso 4 ottobre quando un'autobomba esplosa ad al-Masur, una delle zone più ricche ad ovest di Baghdad prima della guerra del 2003, diretta ad un convoglio della locale PMSC ha invece fatto – stando all'agenzia France Press - 16 feriti tra civili e militari e quattro vittime civili. Da qui è dunque facile intuire il perché di una così forte richiesta di armi leggere per il mercato interno, che alcuni politici locali – su consiglio dalla lobby statunitense delle armi, la National Rifle Association, come riportato dall'”Osservatorio Iraq”[2]

Iraq, il paradiso dei Signori della guerra (1/2)

Da circa un anno gli Stati Uniti se ne sono andati, così come telecamere e taccuini degli inviati delle grandi testate giornalistiche del mondo. Eppure mai come oggi, probabilmente, il nuovo corso dell'Iraq meriterebbe attenzione, mediatica e non. Perché nel buco nero lasciato dalle organizzazioni governative sovranazionali e dalla stampa si sta delineando il fallimento di uno stato, stretto nella doppia morsa degli scontri etnici e di una vera e propria guerra tra contractors.

Un bambino "gioca" con una pistola di plastica. Le armi sono diventate parte della cultura e della quotidianità irachena.
fonte: Niqash.org

Bassora (Iraq) - «Ed ora abbiamo un'arma chimica ad aria mai usata. Morte garantita in 3 minuti. Cosa offrite per questo miracolo della scienza moderna? 20...20...20...20...20...Aggiudicato! Il prossimo: che ne dite di questo bel pezzo con la punta di uranio della serie speciale “Spara e Dimentica”? Allora non per 1000, non per 900, non per 800, non per 700, non per 600, vogliamo cominciare da 500 dollari?[...]Venduto a 26 dollari!».
A questa speciale “battuta d'armi” partecipava - come regista - Michael Moore, che la inseriva nelle prime fasi del suo Operazione Canadian Bacon del 1995, secondo film in assoluto – primo e per ora unico tra quelli di finzione - per uno degli esponenti più in vista della “coscienza critica” americana e mondiale poi rivelatosi al grande pubblico con The Big One (1997), Farenheit 9/11 (2004) o Capitalism: a love story (2009).

Scena simile c'è stata lo scorso 17 ottobre a Washington, dove l'hangar pieno di armi del film di Moore è stato sostituito da camere di alberghi a cinque stelle, abiti eleganti e contratti da firmare. Non è la scena di un film, ma il resoconto ridotto all'osso dell'International Stability Operations Association, la conferenza annuale dei “Signori della Guerra”, riunitisi a pochi passi dalla Casa Bianca con l'intento – per niente celato – di spartirsi i guadagni del settore bellico e terminare l'opera di privatizzazione della guerra iniziata dall'Iraq e continuata in scenari di guerra conclamata come la Libia o l'Egitto così come in paesi quali l'Inghilterra, dove – come scriveva “OsservatorioIraq”[1] – il premier David Cameron si è rivolto ad una compagnia di sicurezza privata come la Kroll per sapere come gestire le proteste di piazza scoppiate nelle vie di Sua Maestà.

Un affare di Stato. Delocalizzare la guerra ma non il commercio di armi. Sembra essere questo il leitmotiv delle politiche globali al tempo della crisi, con il nostro paese che, tra i primi dieci paesi acquirenti, per i prossimi dodici anni spenderà una cifra stimata in 230 miliardi di euro in armamenti da guerra[2].

L'operazione "Pillar of Defence" porta all'invasione di Gaza?

 La guerra tra Israele e Palestina a colpi di internet.
Fonte: tg24.sky.it

Striscia di Gaza (Palestina) – È giovedì 8 novembre. Militari israeliani invadono la Striscia di Gaza. Nello scontro a fuoco che ne deriva i militari occupanti uccidono un bambino di 12 anni. Poco dopo militanti palestinesi hanno fatto saltare in aria un tunnel lungo il confine e lanciato un missile anti-carro contro la jeep di una pattuglia israeliana, ferendo un militare. La risposta israeliana è stata la solita: bombardamenti a tappeto nella Striscia che, in quattro giorni, hanno già portato a 42 vittime palestinesi, cifra non ufficiale ed in continua evoluzione[1]. Tra questi, l'omicidio politicamente più rilevante rimane quello di Ahmad Al Jabari, comandante dell'ala militare di Hamas, la cui macchina è stata bombardata nell'area di Thalatin, ad est di Gaza City.

Inizia così, come riporta l'agenzia internazionale Inter Press Service[2], l'operazione “Pillar of Defence” (“Pilastro di Difesa” in italiano). Fin dai primi bombardamenti israeliani gli ospedali di Gaza sono tornati ad essere in emergenza, resa meno grave solo grazie all'apertura del valico di Rafah da parte delle autorità egiziane che hanno permesso di trasferire alcuni feriti negli ospedali del paese.

Le reazioni internazionali. Nello scenario che si sta delineando, sempre più importante sembra diventare il ruolo dell'Egitto di Mohamed Morsi, alle prese con la prima crisi internazionale da quando è stato eletto presidente lo scorso giugno. Sarà una decisione non certo semplice a delineare il ruolo internazionale egiziano sotto la sua presidenza, stretta tra il trattato di pace con Israele in vigore ormai da trent'anni e la vicinanza dei Fratelli Musulmani – di cui il governo Morsi è espressione – con i palestinesi di Hamas.
La condanna verso l'offensiva israeliana, definita «un'aggressione contro l'umanità», è stata solo il livello minimo dell'indignazione, alla quale è però seguita la visita di sole tre ore del primo ministro Hisham Qandil nella Striscia di Gaza. Secondo gli analisti, questo episodio potrebbe essere letto come il primo segno di una diversa impostazione dei rapporti con Israele, in netto contrasto con la politica tenuta da Hosni Mubarak, accusato di eccessivo squilibrio verso le posizioni israelo-statunitensi nell'area. Durante l'operazione “Piombo Fuso” del 2008 - di cui molti commentatori, anche a livello internazionale, temono una riedizione – l'allora presidente chiuse il confine con Gaza e venendo fortemente criticato per questo proprio dalla Fratellanza Musulmana, che adesso ha la possibilità di cancellare gli errori contestati a Mubarak.

Se per comprare armi si tagliano i militari

nella foto il ministro della Difesa,
ammiraglio Giampaolo Di Paola. Foto: politici.openpolis.it

Roma - 252 a 12. È finita così la seduta del Senato di martedì 6 novembre nella quale è stata approvata una legge con la quale si affida al prossimo Governo il potere di «revisione in senso riduttivo» - per citare le parole del ministro della Difesa Giampaolo Di Paola – delle Forze Armate, che tradotto significa taglio del 20 per cento dei posti di lavoro nel settore della Difesa.

Tagli che però non intaccano l'altro lato della Difesa, quello cioè legato alle armi, che impegneranno l'Italia in una spesa stimata di «non meno di 230 miliardi per i prossimi 12 anni», come si legge in un documento presentato lo scorso 3 luglio alla Camera dei Deputati[1] dal deputato Augusto Di Stanislao dell'Italia dei Valori.

Insomma, la scelta del governo è ormai chiara: tagliare tutto ciò che riguarda il sistema di welfare e finanziare il sistema di warfare italiano, nel quale sono inclusi i cacciabombardieri da guerra F-35 il cui costo – nonostante la riduzione da 131 a 90 - potrebbe subire un vistoso innalzamento per le tasche del contribuente italiano[2] e che vanno ad aggiungersi ai 71 programmi di armamento già in essere in questi ultimi dieci anni.

«Milioni di persone e di famiglie non ce la fanno più» - dice Flavio Lotti, coordinatore nazionale di Tavola della Pace - «si tagliano i servizi alla persona e agli enti locali che li devono fornire ma i soldi per comprare armi e per soddisfare le ambizioni dei nostri generali non mancheranno».

Data la situazione sociale, sarebbe forse il caso di riprendere l'idea dell'ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che, disegnando l'Italia come «portatrice di pace nel mondo» nel suo discorso di insediamento, chiese di svuotare gli arsenali di guerra, «sorgente di morte» per colmare «i granai di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame».

«Ora il provvedimento dovrà andare alla Camera e il dibattito dovrà essere riaperto» - conclude Lotti - «C'è spazio per un serio e ragionevole ripensamento». E magari chiedersi anche a cosa servano realmente tutte queste armi che stiamo acquistando.

Questo post lo trovate anche su:
http://www.infooggi.it/articolo/se-per-comprare-armi-si-tagliano-i-militari-titolo-provvisorio/33353/

Note
[1] O.D.G. in Assemblea su P.D.L. 9/05273-A/023, Camera dei Deputati, 3 luglio 2012;
[2] Caccia F35, altro che tagli. Il costo è più che raddoppiato di Rachele Gonnelli, l'Unità, 17 ottobre 2012;

Caso Christopher Tappin: trafficante d'armi a sua insaputa?

Chritopher Tappin, al centro di un triangolo diplomatico Usa-Gb-Iran
foto: guardian.co.uk

Houston (Texas, Stati Uniti) - «Non sono un terrorista. Non ho mai avuto connessioni con il terrorismo e sono solo sgomento per il fatto che questa vicenda si sia spinta fino a questo punto, specialmente ora, che ho 65 anni e da quattro mi sono ritirato per godermi la pensione». A dirlo è Christopher Tappin, 65enne cittadino britannico – di Orpington, sud-est di Londra – da qualche mese al centro di un triangolo diplomatico tra il suo paese d'origine, gli Stati Uniti, dove è attualmente costretto agli arresti domiciliari e l'Iran.

Bandiera rossa. Tappin è infatti accusato di complotto per l'esportazione illegale di articoli da difesa, favoreggiamento all'esportazione e conduzione di transazioni finanziarie illegali dopo aver tentato di acquistare nel 2005 50 batterie per sistemi missilistici terra-aria “Hawk” da rivendere attraverso un passaggio in Olanda ad aziende di Teheran, nonostante l'embargo in vigore dal 2007 – o dal 1979, volendo seguire la timeline presentata da Al Jazeera[1] – frutto delle sanzioni unilaterali che gli Stati Uniti hanno ritenuto necessario applicare per contrastare il programma nucleare iraniano e che, come riportava “Il Post” ad agosto[2], sarebbero state violate anche da Unicredit. In più, a Tappin è stata comminata una multa di 11.357 dollari, che equivale a quanto avrebbe guadagnato se l'affare fosse andato in porto.
Dietro alla Mercury Global Enterprises, la società dalla quale Tappin si sarebbe rifornito, c'erano in realtà alcune agenzie governative americane alla ricerca di società “sotto bandiera rossa”, che stessero cioè violando i divieti di vendita di tecnologia militare all'Iran come di fatto stava facendo Tappin attraverso la falsa documentazione presentata per aggirare l'obbligo di autorizzazione governativa necessaria all'esportazione delle batterie che, secondo l'ex presidente del golf club di Kent ed ex direttore della compagnia di spedizioni Brooklands International Freigh Services con base a Redhill, nel Surrey, Inghilterra sud-orientale, servivano per l'azienda automobilistica.

Ad incolpare Tappin c'è anche l'ex socio Robert Gibson, che ha fornito alle autorità più di 16.000 file (tra cui anche una lista di e-mail) che comproverebbero come i due avessero instaurato già da tempo un proficuo rapporto commerciale con gli iraniani. Gibson, ha patteggiato già nel 2007 ed ha dunque già scontato la sua condanna a 24 mesi di carcere. Per Robert Caldwell, cittadino americano che fungeva da contatto negli Stati Uniti, sono 20 i mesi di prigione decretati dalla corte lo scorso luglio.

In morte (presunta) di “El Lazca” nascono “I figli del Diavolo”

Il presunto cadavere di Heriberto "El Lazca" Lazcano Lazcano
fonte: reporteindigo.com

Monterrey (Stato di Nuevo León, Messico) – Dicono che stavolta sia morto davvero. Non come le altre due, in cui le autorità ne davano l'annuncio e lui tornava a rompere le uova nel paniere a chi diceva di aver inferto un duro colpo ai cartelli della droga. Anche questa volta, però, la morte di Heriberto Lazcano Lazcano, detto “El Lazca”, “Z-3” o “Il Boia” e fino allo scorso 7 ottobre leader del cartello dei Los Zetas è avvolta nel mistero. Soprattutto perché, a quasi un mese dallo scontro a fuoco che ne ha decretato la morte, il cadavere non c'è.
Ma procediamo dall'inizio.

Un morto senza cadavere. Secondo la ricostruzione fatta dalla Marina lo scontro che ha portato alla morte di Lazcano è avvenuto intorno alle 13.30 di domenica 7 ottobre, durante una normale operazione di pattugliamento nel municipio di Progreso, nello stato di Coahuila de Zaragoza, in seguito ad una serie di denunce provenienti dalla cittadinanza locale che evidenziavano la presenza di uomini armati riconducibili al crimine organizzato.
Il convoglio su cui viaggiavano gli agenti sarebbe stato fatto oggetto del lancio di alcune granate da un altro veicolo in movimento, «ragione per la quale si procedeva a respingere l'aggressione, anche a seguito del ferimento da arma da fuoco di un elemento di questa istituzione, con ferite che non pongono a rischio la sua vita».
Persino una dinamica dei fatti apparentemente così limpida e lineare non è esente da dubbi e questioni aperte. Come scriveva Hugo Gutiérrez su Reporte Indigo dello scorso 15 ottobre[1], infatti, i “falchi” - le vedette che tutto vedono e tutto sentono sul territorio e che dunque dovrebbero avvis(t)are visite indesiderate – hanno fallito. Sono in molti, però, a sostenere come questo episodio non sia frutto del caso quanto di una vera e propria strategia che negli ultimi mesi vedrebbe la Marina spianare la strada per la leadership degli Zetas a Miguel Ángel Treviño Morales, detto “Z-40”, accusato di aver venduto alle autorità parte dei suoi compagni nella scissione che da qualche mese sta interessando il cartello[2].

«La dinamica dell'eliminazione» - scrivevano Jorge Carrasco Araizaga e Juan Alberto Cedillo sul settimanale Proceso dello scorso 14 ottobre - «è sintesi perfetta del sexenio di Felipe Calderón: molti proiettili, poca intelligenza. Quello che le autorità federali tentano di presentare come il più importante colpo inferto ai narcos in Messico in più di un decennio – a due mesi e mezzo dalla conclusione effettiva del governo panista – è terminato nella vergognosa sparizione del supposto cadavere del capo».

Uranio impoverito: nuova sentenza conferma il nesso con la "sindrome dei Balcani"

Roma – Due condanne in dieci giorni. No, nessun nuovo caso di cronaca nera che tanto piacciono ad un certo tipo di informazione, anche se sempre di “nera” si tratta, anche quando ad essere condannato è il Ministero della Difesa.

Nei giorni scorsi, infatti, il Tribunale di Roma ha stabilito - con sentenza definitiva – in un milione di euro il risarcimento per i genitori di Andrea Antonaci, sergente maggiore di Martano (Lecce) morto di linfoma non Hodgkin il 12 dicembre 2000 dopo aver fatto parte del contingente Nato in Bosnia nel 1999. La più nota delle missioni in cui si usava l'uranio impoverito, che di Antonaci – come degli oltre 200 militari morti fino ad oggi – è stato l'omicida. L'ultima vittima, a settembre, l'ex marò catanese Salvo Cannizzo[1]. Oltre 2.000 gli ammalati, tra cui anche il militare 36enne di Corropoli (Teramo) appartenente al diciottesimo Bersaglieri Cosenza sul cui caso si è espressa in questi giorni la Corte dei Conti de L'Aquila. Con queste due ultime condanne sale a dodici il numero di cause giunte a sentenza in primo grado, per un risarcimento che supera i 16 milioni di euro. Il dato, ormai, sembra essere acquisito: i militari vittime della cosiddetta “Sindrome dei Balcani” muoiono di uranio impoverito, in aggiunta alla scarsa protezione con cui i nostri militari maneggiavano quel materiale, utilizzato in ambito bellico – in violazione di circa una decina di convenzioni internazionali, stando ad un rapporto Onu del 2002 – fin dalla Guerra del Golfo del 1991, con forti sospetti sull'intervento statunitense a Panama del dicembre 1989[2]. La “sentenza-Antonaci” - basata sugli studi sulle nanoparticelle della dottoressa Antonietta Gatti[3] - è destinata a fare scuola, tanto che avvocati belgi, inglesi e francesi ne hanno acquisito copia per studiarla.

Nonostante una serie di condanne che va sempre più aumentando, la politica è ancora sorda. All'epoca della morte di Antonaci l'allora ministro della Difesa Sergio Mattarella (governo D'Alema II, dicembre 1999-aprile 2000) sostenne che l'uranio non c'entrava – non essendo pericoloso - e che, comunque, non eravamo stati informati sul fatto che il contingente di cui facevamo parte utilizzasse uranio impoverito, nonostante la documentazione inviata dalla Nato affermasse l'esatto opposto. La colpa, è ancora la tesi portata avanti dalla classe politica, è da ricondursi ai vaccini fatti a distanza ravvicinata ai nostri militari che avrebbe potuto indebolire il sistema immunitario.

Vaccinazioni che, però, non furono fatte né alle popolazioni civili delle zone bombardate – come gli abitanti di Peja – Peć, nel Kosovo occidentale[4] - né nei pressi del Poligono di Quirra[5], dove si muore per le stesse cause. Ma questa è un'altra storia.

qui "L'Italia chiamò", di Leonardo Brogioni, Matteo Scanni, Angelo Miotto

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http://www.infooggi.it/articolo/uranio-impoverito-nuova-sentenza-conferma-il-nesso-con-la-sindrome-dei-balcani/32880/

Note
[1] Uranio impoverito, morto l’ex marò Cannizzo. Aveva denunciato l’indifferenza dello Stato di Leandro Perrotta, CtZen.it, 18 settembre 2012;
[2] La storia dell'uranio impoverito, PeaceLink.it;
[3] "L'Italia chiamò" Intervento di Antonietta Gatti, Arcoiris.tv, 2 ottobre 2008;
[4] Elenco dei siti bombardati con uranio impoverito dalla Nato di Francesco Iannuzzelli, PeaceLink.it, 6 gennaio 2001;
[5] Quirra, c'è uranio impoverito di Riccardo Bocca, L'Espresso, 20 aprile 2011

I "fantastici cinque", i taleban che salveranno l'America (ma non l'Afghanistan)

Continua da qui:
Se Karzai (e gli U.S.A.) riabilitano i taleban

foto: andyworthington.co.uk/

Kabul (Afghanistan) - Sono in molti a chiedere che la blacklist afghana venga cancellata in toto, rimettendo così nella lista dei “good guys” - in una rivisitazione della famosa massima di Franklin Delano Roosvelt su Anastasio Somoza - i circa 140 afghani ancora accusati di avere legami con Al Quaeda inseriti nella cosiddetta “lista 1267”, dal nome della risoluzione delle Nazioni Unite del 1999 con la quale è stato definito il sistema di sanzioni – anche di natura economico-finanziaria – verso tutti i conniventi con il gruppo di Bin Laden e che, allo stato attuale, contiene ancora circa 450 nomi. Ma chi sono i "fantastici cinque" che l'America libererà?

Guantánamo file US9AF-000007DP: Mullah Mohammad Fazl, conosciuto anche come Ahmad Fazl, Mazloom Fazl o Haji Fazl Akhund; nato a Sekzi nel distretto di Charchineh, provincia dell'Uruzgan nel 1967. Vicino al mullah Muhammad Omar, Fazl è stato il Capo di Stato Maggiore nel nord dell'Afghanistan ed ex ministro della difesa taleban. È accusato di connivenze con Al-Quaeda, il Movimento Islamico dell'Uzbekistan, il gruppo ultraradicale Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar – uno dei più potenti warlords afghani - e con un gruppo anti-coalizione denominato Harakat-i-Inquilab-i-Islami.
Considerato un detenuto “ad alto rischio”, è stato individuato come uno dei responsabili del massacro di migliaia di hazara - la minoranza sciita - tra il 1998 ed il 2001 e dell'uccisione dell'agente della Central Intelligence Agency Johnny Michael Spann nel 2001, durante la rivolta talebana nella fortezza di Qala-i-Jangi (“fortezzza della guerra” in afghano), fuori la città di Mazar-i-Sharif, nel nord del Paese. Spann è considerato la prima vittima americana della guerra afghana.
A fine novembre 2001 Fazl si arrende al generale Abdul Rashid Dostum dell'Alleanza del Nord insieme al mullah Norullah Noori e Abdullah Gulam Rasoul. Un anno dopo, l'11 gennaio 2002, viene trasferito a Guantánamo. Se rilasciato, avverte il dossier a suo nome nella prigione dell'isola cubana, potrebbe tornare nelle fila dei taleban (dei quali fa parte fin dal 1995) sfruttando il vasto potere – basato anche sul traffico di droga - e le ingenti risorse finanziarie a sua disposizione già ai tempi del suo ruolo politico-militare nell'organizzazione. Conti a lui riferibili sono stati congelati presso la al-Taqwa Bank (“Timore di Dio” in arabo), fondata nel 1988 da alcuni leader della Fratellanza Musulmana con uffici in Lichtenstein, Svizzera, Bahamas ed Italia, accusata dagli Stati Uniti di essere una tra le prime finanziatrici del terrorismo islamico di cui riciclerebbe il denaro. Il Consiglio di Amministrazione della banca ha sempre negato ogni collegamento di questo tipo.

Kidogò - Un bambino soldato

How could you just occupy another child's tear?
["Occupied tears" - Serj Tankian]

clicca sull'immagine per aprire il video

Prodotto nel 2008 dalla Seven Hills Production, “Kidogò – Un bambino soldato” - che vede tra gli sceneggiatori il giornalista Giuseppe Carrisi, giornalista Rai, scrittore e documentarista che da anni si occupa delle problematiche dei Paesi in via di sviluppo, in particolare del continente africano – racconta due storie.

La prima, come evidenziato dalla sinossi, è quella di John Baptist Onama, Presidente onorario dell'associazione Pizzicarms che negli anni '80 è stato un bambino soldato in Uganda, intrecciata con la storia dei circa 300.000 bambini soldato (di cui un terzo nel solo continente africano) che ancora oggi sono costretti a combattere negli oltre 30 conflitti attualmente in corso nel mondo, in una guerra globale contro l'infanzia che nell'ultimo decennio ha ucciso 2.000.000 di bambini, ferendone o invalidandone almeno il triplo.

Una guerra globale necessaria a mantenere la discrepanza tra il Nord sfruttatore (anche di risorse naturali quali petrolio, diamanti e coltan, ottime “conseguenze umanitarie” per muovere guerra) ed il Sud sfruttato, evidenziata dai 750 miliardi di dollari destinati alla lotta alla povertà contro i 1.200 miliardi di dollari che – come racconta Riccardo Troisi – ogni anno vanno a rimpinguare i conti dei signori della guerra, che siano essi sconosciuti trafficanti o conosciutissime industrie come Finmeccanica o Beretta, potenze del business bellico dell'Italia, secondo paese al mondo per la produzione di armi leggere e quarta alla voce “esportazione” ed i cui prodotti finiscono spesso proprio nelle mani di quei bambini soldato.

Il “made in Italy” è anche questo. Una storia – la seconda di questo documentario – da non raccontare, parafrasando Fabrizio De André.

Se Karzai (e gli U.S.A.) riabilitano i taleban

foto:  journalism.co.uk

Kabul (Afghanistan) – La notizia era nell'aria già da molto tempo, con i primi rumors registrati già tra il 2009 ed il 2010. Adesso però è arrivata la conferma direttamente dal presidente afghano Hamid Karzai, che lo scorso 25 settembre ha chiesto alle Nazioni Unite di cancellare i nomi dei leader taleban dalla “blacklist” antiterrorismo, al fine di poter avviare gli accordi di pace che pongano fine alla guerra afghana. «La nostra mano per la riconciliazione rimane tesa non solo per i talebani ma anche per i membri di tutti i gruppi armati che desiderano tornare ad una vita degna, pacifica ed indipendente nella loro terra» ha detto il presidente, il quale ha chiesto «semplicemente ai nostri interlocutori di mettere fine alla violenza, rompere con le reti terroristiche, conservare le conquiste dell'ultimo decennio e rispettare la Costituzione».

Che la si chiami “trattativa di pace”, “resa”, “sconfitta” o in qualunque altro modo una cosa è certa: senza gli studenti delle scuole coraniche nessun Afghanistan è possibile se non quello caotico che ha rappresentato la storia recente del Paese trasformando la campagna americana – denominata “Enduring Freedom” - in un pantano simile, e per certi versi peggiore, di quel che fu il Vietnam tra il 1960 ed il 1975[1]. Al di là delle dichiarazioni rimane da capire se il ruolo a cui i taleban sono destinati nel nuovo Afghanistan sarà solo nel o, in un ritorno al passato, di potere. Ammettendo che negli anni del conflitto lo abbiano effettivamente perso, quel potere. Perché se una cosa è certa, nell'attuale instabilità afghana, è che il governo non sarebbe assolutamente in grado di reggere il paese in autonomia, anche a causa del crollo di credibilità dovuto alla frode elettorale delle elezioni presidenziali e parlamentari del 2009 e 2010 il cui trend continua ad essere negativo.

L'accordo di Doha. Sarebbe ingenuo pensare che le dichiarazioni di Karzai arrivino dal nulla o da una estemporanea consapevolezza personale. L'annuncio dell'apertura dei negoziati di pace – o della sconfitta per le forze della coalizione, a voler leggere il rovescio della medaglia – arriva a negoziati già avviati. Scenario delle trattative è il Qatar, ormai proiettato ad un ruolo di primo piano nelle relazioni finanziarie, economiche e geopolitiche mondiali (tanto che il sessantenne emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, noto anche come “l'Henry Kissinger arabo” può permettersi di ”acquistare” le banlieue[2], dando vita ad un precedente di delocalizzazione politico-economica tanto interessante quanto inquietante).

Memorie di un'infamia. Storia di una giornalista più forte dei Demoni

«Le mafie mi vogliono morta non per quello che so,
ma per quello che voi e le vostre figlie saprete leggendo i miei libri».

[Lydia Cacho, Memorie di un'infamia]


foto: anobii.com

Che Lydia Cacho sia una donna forte te ne accorgi dagli occhi. Come nell'immagine scelta per la copertina dell'edizione italiana di Memorias de una infamia (Memorie di un'infamia, in italiano), uscito in versione originale per Random House Mondadori nel 2008 e tre anni dopo, per la Fandango, nella sua versione italiana.

Per parlare di questo libro, però, è necessario fare un passo indietro. Memorie è infatti una sorta di “making of”, il racconto biografico di quanto accaduto tra il 2003 ed il 2007 alla giornalista messicana che, svestiti i panni della “cacciatrice di notizie” veste quelli di attivista e presidente del Ciam, il Centro Integral de Atención a la Mujer di Cancún, nello Stato di Quintana Roo, organizzazione della società civile messicana che si occupa di «eradicare tutte le forme di violenza di genere».

Los Demonios del Edén1, il libro da cui bisogna partire per raccontare questa storia, nasce proprio per questo scopo. Da presidente del Ciam, infatti, Lydia Cacho entra in contatto con Emma [nome di fantasia] una bambina che nel 2000 ha denunciato gli abusi di cui è stata fatta oggetto da parte di Jean Thouma Hanna Succar Kuri, imprenditore alberghiero libanese – in Messico fin dagli inizi degli anni '80 – entrato più volte in inchieste giornalistiche e giudiziarie per pornografia infantile e lavaggio di denaro. È grazie ad Emma e alle tante bambine e bambini invischiati nel più infame dei traffici internazionali – quello dello sfruttamento di minori a scopi sessuali – che Lydia Cacho affronterà i demoni di una rete internazionale tra le più impenetrabili e che in Messico ha visto (vede ancora?) la copertura e la connivenza di un sistema fatto di imprenditori – nel caso specifico José Kamel Nacif Borge, potentissimo “Re dei jeans” che gestisce maquiladoras sparse tra Messico, America Latina e sud-est asiatico – con in agenda il numero di politici come Mario Plutarco Marín Torres, all'epoca dei fatti governatore priista di Puebla, al quale Nacif chiese il favore di utilizzare tutti gli strumenti in suo possesso – legali o meno che fossero – per arrestare Lydia Cacho, rea di essere stata la prima in Messico a denunciare la rete pederasta facendo nomi e cognomi. Marín, prontamente, esegue.

Omicidio Rostagno, un processo che non vuole ripartire

foto: ilpost.it

Trapani – Dopo la pausa estiva, il processo per l'omicidio di Mauro Rostagno è ripreso solo formalmente. Già l'udienza tenutasi lo scorso 26 settembre[1] si era chiusa ancor prima di iniziare, data l'assenza dei testi e dell'ex capomafia Vincenzo Virga, detenuto per altri reati di natura mafiosa presso il carcere di Parma. Tutto rimandato al 10 ottobre.

Mercoledì il copione è stato identico. Nessuno dei testi era infatti presente in aula per mancato recapito della citazione o perché la stessa li aveva raggiunti ad indirizzi sbagliati. Annamaria di Ruvo, dopo aver giustificato con l'impossibilità economica l'assenza all'udienza di fine settembre ha inviato un impedimento di tipo sanitario per non presentarsi a questa; Renato Curcio – un tempo tra i migliori amici di Mauro Rostagno – ha fatto sapere via fax di non avere niente da dire. La difesa dei due imputati (oltre all'ex boss Virga c'è anche Vito Mazzara, killer all'epoca dei fatti a disposizione della famiglia mafiosa di Trapani accusato di essere l'esecutore materiale dell'omicidio) ha deciso infine di rinunziare ai testi esclusi, cioè la stessa Di Ruvo, Francesca Lipari e Luisa Fiorini. Più che probabile, per Curcio, il ricorso all'accompagnamento coattivo.

La Corte ha così deciso di fissare la prossima udienza per il 7 novembre, così da permettere alla burocrazia di fare il suo corso e non essere utilizzata per tenere fermo un processo già in ritardo di più di vent'anni.

Ascolta l'audizione integrale da Radio Radicale.

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Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/09/trapani-milano-ricordando-mauro-rostagno.html

Denied Access. Viaggio nel purgatorio delle città-satellite (4/4)

foto: peaceculture.org

Atene (Grecia) - 1881 agenti a difesa del confine sul rio Evros, in aggiunta alle pattuglie già presenti e, dal luglio 2011, un muro di 12,5 chilometri alto tre metri concepito sul modello della rete che separa le enclavi di Ceuta e Melilla (territorio marocchino[1]) dal territorio spagnolo e che ha portato ad una diminuzione degli ingressi di circa l'84%[2]. È quello che si sono trovati davanti i migranti che lo scorso 2 agosto hanno tentato di oltrepassare il confine naturale che separa la Grecia dalla Turchia o, se la si vuole leggere in altri termini, la Fortezza Europa dall'esterno. Eccola la “porta d'Europa”. È da qui e non da Lampedusa – come erroneamente fanno credere gli organi di informazione italiani – che, dal 2005, passa più dell'80 per cento dei migranti senza documenti che attraverso l'Europa meridionale tentano di arrivare nei paesi del nord, in un viaggio che per l'eccessiva distanza e per le stringenti leggi del cosiddetto “Dublino II” significa per i migranti rimanere segregati in un purgatorio con Atene come capitale.

La Commissione Europea non esclude l'eventualità di finanziare progetti per rinforzare ancor di più le politiche anti-migranti delegate alla Grecia, in aggiunta ai 676 milioni di euro stanziati da Parlamento e Consiglio attraverso un programma annuale co-finanziato per 10 milioni di euro da Grecia e Fondo europeo per i rimpatri che dovrebbe portare al rimpatrio di 7.000 migranti.

Turchia: sala d'attesa per l'Europa. La Turchia rappresenta una vera e propria “anticamera”. Sia perché è da qui che i migranti passano per arrivare in Grecia sia perché la Turchia si trova – geograficamente e politicamente – a metà strada tra l'Europa e l'esterno. L'esterno, a queste latitudini, si chiama Iran. Tra i due paesi, una barriera naturale lunga 454 chilometri la cui altezza varia tra i 2.500 ai 3.000 metri e la temperatura tra i 4° ed i 6° e le cui cime sono continuamente attraversate da merci e persone in quanto, nonostante la strada accidentata ed il clima spesso improponibile, questo rimane il passaggio più corto, più sicuro e soprattutto meno controllato tra l'Asia e l'Europa.

Urmia, Shahpur e Maku – nella regione iraniana dell'Azarbaijan occidentale (da non confondere con la repubblica dell'Azerbaigian che si trova nella regione caucasica) – sono le tre città dove i vengono raggruppati i migranti e da cui, a bordo di automobili o camion, ci si avvicina ai villaggi transfrontalieri dai quali si tenterà il salto in Turchia.

Denied Access. Il business del migrante (3/4)

foto: owni.eu

Roma - Dall'inizio del nuovo millennio, quando i paesi confinanti con la Fortezza Europa hanno accettato – attraverso accordi come il famoso “trattato italo-libico”[1] - di farsi guardiani delle frontiere europee, non solo perseguendo quel diritto all'emigrare sancito tra gli altri dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 ed al Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ma anche rendendosi corree delle violazioni dei diritti umani necessarie ai paesi difesi dalla Fortezza per mantenere il proprio status di appartenenza al “mondo dei ricchi”,  in una situazione di vero e proprio subappalto delle frontiere.

Il business del migrante. Dal 1999 – anno in cui in Italia i Centri di Permanenza Temporanea voluti dalla legge Turco-Napolitano diventano Centri di Identificazione ed Espulsione – al 2011 il costo dei 13 centri italiani è stato di 985,4 milioni di euro, di cui solo 287 tra il 2008 ed il 2011, ai quali vanno già aggiunti – in quanto previsti negli allegati alla legge finanziaria 2011 – i 169 milioni per quest'anno ed altri 211 per il prossimo.

Secondo l'Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, il 60% della popolazione dei centri proviene direttamente dal carcere, luogo dove l'identificazione dovrebbe già essere avvenuta. Ciò però non si verifica mai, a seguito di una serie di intoppi e lentezze burocratiche grazie alle quali si crea un vero e proprio corto circuito di legalità – costituito dal sistema carcere-cie che può, come abbiamo visto, reiterarsi praticamente all'infinito – nel quale le ed i migranti si trovano a scontare una pena suppletiva pur non avendo commesso alcun reato ed oltretutto incostituzionale, in quanto il nostro ordinamento prevede sì il cosiddetto “fermo per identificazione”, ma solo per la durata di poche ore, non certo di interi mesi come è invece la permanenza media nei centri. Da qui la ovvia quanto logica domanda: chi ha trasformato i migranti in un vero e proprio business?

Ogni migrante rinchiuso costa in media 45 euro al giorno, con spese che variano dai 24 euro del Centro per Richiedenti Asilo (o Cara) di Foggia ed i 34 del Cie di Bari ai 75 di Modena. Quest'anno, però, tutte le gare d'appalto sono state fatte al ribasso e, ad esempio, al Cie di Bologna la prefettura ha definito un tetto massimo di 28 euro giornalieri anche se – come denunciava Anna Maria Lombardo, direttrice della Confraternita della Misericordia che ha gestito il centro fino a fine luglio – solo per un medico di euro se ne spendono 23. All'ora[2].

Denied Access. L'Internazionale dell'espulsione (2/4)

Continua da qui:
Fortezza Europa, viaggio sull'invalicabile confine sud (1/4)

foto: carmillaonline.com

Madrid (Spagna) - Nel modo in cui tratta i migranti l'Italia può dirsi in buona compagnia perché quello che l'Europa ha istituito lungo la sua frontiera meridionale, passando per posti come Melilla[1], Lampedusa o il rio Evros, è diventato un vero e proprio sbarramento anti-migrante, sulla falsariga dei circa 3000 chilometri del muro che separa Messico e Stati Uniti.[2]

Malaga, Fuerteventura, Gran Canaria, Murcia, Valencia, Madrid, Barcellona, Algeciras, Tenerife. Sono in tutto nove i Centri di identificazione ed Espulsione (Centros de Internamientos de Extranjeros in spagnolo) realizzati nel Paese fin dal 1999 anche se esperienze similari si registrano sul territorio spagnolo fin dal 1985. Secondo l'Asociación pro derechos humanos de Andalucía - ci sarebbero altri centri “fantasma”, tra i quali uno nella zona di Almería ed uno nelle Canarie, la cui esistenza è stata ormai accertata. Fame, freddo e mancanza delle più elementari norme a tutela delle e dei migranti – da quella medica a quella giuridica, come riporta in un suo report l'organizzazione internazionale Women's Link Worldwide, organizzazione che promuove l'integrazione di genere in materia di giustizia e dal 2008 presta assistenza giuridica specializzata verso le donne vittime o presunte vittime di tratta rinchiuse nei centri – rappresentano le denunce fisse di chi entra nel circuito spagnolo della detenzione amministrativa per migranti. E questo è solo quello che succede nei cie ufficialmente riconosciuti. Il report è il frutto di due anni di lavoro che ha portato ad intervistare 45 donne di cui sette incinte e 21 presunte vittime di tratta in sei dei nove centri della Spagna, con le organizzazioni che hanno accesso o che lavorano con reclusi e magistrati incaricati di controllarli.

Il report realizzato dall'associazione evidenzia inoltre come siano gli stessi magistrati che dovrebbero occuparsi delle migranti a non conoscere approfonditamente la legislazione in materia di immigrazione, rendendo ancora più insopportabile una situazione dove la denunzia di violazione dei diritti umani è pressoché costante e costantemente inascoltata. L'ignoranza giuridica dei magistrati, in aggiunta alle difficoltà riscontrate dalle organizzazioni della società civile per entrare nei centri, fa in modo che molte recluse - «in una situazione decisamente peggiore rispetto a quella carceraria», come evidenziato da alcuni addetti ai lavori – non abbiano la minima idea di quali siano i propri diritti, come la possibilità di fare richiesta di asilo già all'interno del centro o di poter sporgere denunce e reclami.

Fortezza Europa, viaggio sull'invalicabile confine sud (1/4)

Nel corso degli ultimi tempi, il continente europeo si è trasformato sempre più in una vera e proprio "Fortezza", chiusa verso chi tenta - emulando proprio gli europei di una manciata di decenni fa - di attraversare quel confine tra la povertà e la ricchezza, tra il cosiddetto terzo mondo e quel primo mondo che di questi è origine. E intanto - tra centri di identificazione, camere ad infrarossi e barconi - c'è chi ha trasformato i corpi migranti in un vero e proprio business.

Borders are the gallows of our collective national egos
I confini sono il patibolo del nostro collettivo egocentrismo nazionale
[ “Borders are” - Serj Tankian]


Roma - La chiamano – non a torto - “Fortezza Europa”. Perché è esattamente questo che, dall'esterno, il continente europeo è diventato. Un'enorme, immensa fortezza – nella quale forte sta diventando il divario tra classe al potere e cittadini - che ha da tempo chiuso le proprie frontiere, le quali grazie agli accordi bilaterali vengono spostate sempre più a sud (tanto che in molti parlano ormai di una vera e propria “delocalizzazione” delle frontiere) instaurando delle zone intermedie, dei luoghi – come le città-satellite turche – che non appartengono di fatto né alla “fortezza” né all'esterno. Purgatori geopolitici dove vengono stoppati i migranti, il cui sogno di una vita migliore rappresenta il più grande pericolo per gli stati difesi dalla Fortezza: rompere quel modello di sostentamento basato sullo sfruttamento dei paesi limitrofi.
Ad essere sotto i riflettori gli stati meridionali, ormai da anni gestori di una frontiera più socio-economica che geografica che dalle coste spagnole – enclavi marocchine incluse – e passando per i barconi di Lampedusa, simbolo di un nuovo “assalto alla Fortezza”, arriva fino alla Grecia ed alla Turchia, il cui “visto d'ingresso” per l'Europa politica verrà emanato anche in base al comportamento tenuto su aspetti come questo.
Gli stessi governi – in molti casi vere e proprie dittature – da cui i migranti scappano nella maggior parte dei casi, sono stati messi al potere dall'Occidente, dalle due “Fortezze” del primo mondo, cioè quella statunitense (che esporta guerre senza mai averne subita una sul proprio territorio, se non quella per la formazione o l'attacco dell'11 settembre) e quella europea, dove respingere i migranti alla frontiera significa respingere le cause – anch'esse perpetrate dall'Occidente – del divario tra Nord e Sud del mondo (povertà, guerre, sfruttamento, etc).

Trapani-Milano, ricordando Mauro Rostagno

foto: trapaniok.it
Trapani, 27 settembre 2012 - «Il processo è in corso ma nessuno lo sa», ha detto Sergio Martin durante la manifestazione tenutasi a Milano due sere fa per ricordare Mauro Rostagno, giornalista, sociologo e molto altro ancora ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988 a Lenzi di Valderice, nel trapanese. Quel processo di cui i grandi organi di informazione hanno deciso di non occuparsi – più interessante parlare della vicenda-Sallusti, evidentemente – che è ripartito davanti alla Corte d'Assise trapanese nell'aula bunker “Giovanni Falcone” proprio ieri, giorno del ventiquattresimo anniversario dell'omicidio.

Un'udienza – la numero 35 – che si è aperta e conclusa quasi immediatamente, con una malcelata sensazione che qualcuno avesse programmato di farla saltare, aggiungendo un altro episodio ad una ininterrotta serie di depistaggi e misteri che dura ormai da più di vent'anni. Da quando qualcuno decise di boicottare la verità sul caso, con l'allora procuratore Garofalo che – come ha ricordato nella notte milanese Enrico Deaglio - si sentì in dovere di chiedere scusa a Cosa Nostra, essendo certo che quell'omicidio fosse maturato tra amici.

Il colpo di scena, infatti, c'è stato quasi subito: Vincenzo Virga, l'ex capomafia trapanese detenuto per altri reati di mafia nel carcere di Parma e ritenuto mandante dell'omicidio (l'altro imputato è Vito Mazzara, esecutore materiale) non si è presentato per la videoconferenza. Ricoverato in ospedale lunedì 24, è stato sottoposto ad intervento chirurgico alla tiroide il giorno dopo. Un fatto questo che doveva essere comunicato prima dell'inizio dell'udienza ma del quale nessuno – nemmeno gli avvocati difensori – sapevano niente. Mancavano, inoltre, anche i tre testi che dovevano essere ascoltati, cioè Renato Curcio, Anna Maria Di Ruvo – la cui assenza è stata giustificata da impossibilità economiche e l'ex ministro Claudio Martelli, assente in quanto la difesa ha rinunciato ad ascoltarlo.
Dopo due sospensioni tecniche, l'unica cosa da fare è stata assegnare la “super-perizia” al maggiore Paniz del Reparto Investigazioni Scientifiche di Parma ed al professor Gatti dell'università di Catania.
Prossima udienza fissata per il 10 ottobre.

«Mauro è morto perché non ha accettato di tacere», ha detto durante la commemorazione milanese don Luigi Ciotti. Con il silenzio che i media hanno scelto su questa vicenda, però, si torna a quella vecchia abitudine italiana per la quale alcune persone – giornalisti e magistrati soprattutto – vengono ammazzati due volte.

Qui il gruppo facebook per seguire il processo (e non solo)

Guatemala-Stati Uniti: del corpo migrante si fa lotteria

Tremila chilometri. È la lunghezza del tragitto che compiono quotidianamente le migranti centro e sudamericane per arrivare negli Stati Uniti. In mezzo il Messico, dove tra sequestri, treni merci e sfruttamento sessuale l'”american dream” che tanto sognano si trasforma in un “american nightmare”

Una volta l'uomo aveva un'anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano. [Stefan Zweig]


Visualizza Guatemala-Stati Uniti: del corpo migrante si fa lotteria in una mappa di dimensioni maggiori

Nei pressi di Contepec (Stato di Michoacán, Messico) - «Così finiscono gli stupratori» diceva il cartello che gli hanno trovato appeso al collo. Lui era Eladio Martinez Cruz[1], 24 anni, accusato di violenza sessuale. Il suo corpo è stato trovato, privo di vita e con i genitali tagliati, nei pressi di Contepec, nello stato messicano di Michoacán. Il suo nome sarà presto dimenticato, molto più difficile sarà dimenticare il modo in cui è stato ritrovato. Dallo scoppio della guerra tra e contro i cartelli della droga, iniziata nel 2006 dall'ex presidente Felipe Calderón Hinojosa, il Messico si è in qualche modo abituato a tutta una serie di rituali di comunicazione come i narcomantas, gli “striscioni” posti sui ponti stradali con i quali i cartelli si parlano, spesso accompagnati da qualche (presunto) traditore impiccato a monito generale. Non si sa se questo omicidio ricada nella fattispecie. Quello che è sicuro è che Eladio Martinez Cruz sarà ricordato come il primo uomo crocifisso per stupro.

Crocifisso per stupro. Eladio Martinez Cruz, accusato di stupro, viene rinvenuto crocifisso
ad un cartello stradale nei pressi di Contepec, nello stato di Michoacán, Messico.
fonte: forum.egcommunity.it

Un'immagine questa che ha fatto molto scalpore, quanto meno sui media italiani.

Un cimitero di contraccettivi. Scalpore inferiore, se non addirittura indifferenza, suscitano altre croci. Come le 19 che – emulando le Madres argentine - lo scorso febbraio tenevano in mano 26 donne salvadoregne[2], madri di persone scomparse lungo il tragitto che dal loro paese avrebbe dovuto portarli negli Stati Uniti, come gli altri 200.000 centroamericani che, recitano i dati dell'Instituto Nacional de Migración, attraversano il Messico per entrare illegalmente nel paese dell'opportunità per tutte e tutti, per prendersi il loro pezzo di “american dream” che per molti si trasforma in un incubo.
Preservativi e Depo-Provera, lungo i 5.000 chilometri che intercorrono tra la frontiera sud e quella nord del Messico, sono per le migranti gli unici compagni di viaggio su cui fare reale affidamento. Tra una frontiera e l'altra può succedere davvero di tutto, in special modo incappare nelle aggressioni che per migranti donne e transessuali significa subire abuso sessuale e per chi queste aggressioni le fa – autoctoni o lavoratori di quelle zone - un guadagno che varia da qualche spicciolo a qualche migliaio di pesos, con la polizia che spesso guarda ma non vede.
Aggressioni che in molti casi sfociano in veri e propri sequestri. «Il protocollo abituale» - dice Edu Pones, fotografo di Ruido Photo che ha partecipato al progetto En el Camino - «è dividere i migranti quando vengono sequestrati: quelli che hanno famiglia negli Stati Uniti e possono contattarli per chiedere il riscatto sono inviati nella sala uno, quelli che hanno famiglia ma non possono contattarli nella sala due. Non si sa cosa capiti a chi non ha famiglia negli Stati Uniti e non può pagare».

Condannati per aver cantato "Bella Ciao"

foto: roma.repubblica.it
Isernia - «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», recita la XII Disposizione transitoria e finale della nostra Costituzione, così come la legge 645 del 20 giugno 1952 sancisca che commette reato chiunque «fa propaganda per la costituzione di un'associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista» o che ne esalti «esponenti, principi, fatti o metodi, oppure le sue finalità antidemocratiche». Capita, però, che nell'epoca grillina del “né destra né sinistra” qualcuno faccia un po' di confusione e se la prenda con gli antifascisti. Succede al Tribunale di Isernia, dove sette persone aderenti a varie associazioni del Comitato Antifascista molisano sono state condannate ad una settimana di carcere – poi convertita in 1350 euro – per aver intonato “Bella Ciao” e gridato “il Molise è antifascista” come forma di protesta (“manifestazione non autorizzata”, come è stata definita nel dispositivo della sentenza) ad una manifestazione dell'organizzazione neofascista Casapound tenutasi nella sala gialla della Provincia per la presentazione di un libro.
Quella di Isernia, ha denunciato Italo di Sabato, segretario regionale di Rifondazione Comunista e curatore del sito “Osservatorio contro la Repressione” «è la stessa Procura che ha archiviato gli esposti contro la riorganizzazione e l'apologia del fascismo» di un'organizzazione locale denominata “Fascismo e Libertà”.

Oltre il danno, la beffa. I giudici hanno infatti contestato ai sette un reato contenuto dal Regio Decreto 773/1931 – redatto in pieno periodo fascista – contestando loro «il fatto che il sit-in fosse stato autorizzato a notevole distanza dalla sala della Provincia mentre i sette si sarebbero avvicinati troppo per intonare Bella Ciao», come scrive in una nota del 1 settembre l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia di Mirano

«La cosa grave e che lascia molto perplessi» - dichiara Giovanni Barbera, membro del comitato politico romano di Prc-Federazione della Sinistra e presidente del Consiglio del Municipio Roma XVII – è che «gli autori dei saluti romani e dell'esibizione di simboli fascisti, comportamenti penalmente perseguibili e sicuramente più gravi di quello di “manifestaziono non autorizzata”, non sarebbero stati identificati e segnalatià all'autorità giudiziaria, come avrebbe dovuto essere per legge. Insomma un paradosso di cui qualcuno dovrebbe dare, per lo meno, spiegazioni».

qui il provvedimento di condannna del Tribunale di Isernia e l'informativa della digos

L'innominabile scissione dei Los Zetas

foto: proceso.com.mx
Città del Messico - Tre attacchi in tre settimane. È quanto ha dovuto subire il giornale El Norte di Monterrey, facente parte del gruppo Reforma. L'ultimo episodio in ordine di tempo è avvenuto lo scorso 29 luglio, quando tre uomini armati con indosso maschere da sci hanno incendiato il palazzo che ospita la redazione del giornale. Gli altri due erano stati registrati entrambi il 10 luglio, quando a poche ore di distanza sono stati colpiti due differenti edifici del giornale con fucili d'assalto e granate. Con quello del 29 luglio sono in tutto sei gli attentati subiti dal giornale negli ultimi due anni.

Il giorno dopo è toccato alla compagnia Dipsa – che distribuisce tra le altre anche il settimanale Proceso - il cui palazzo è stato dato alle fiamme. Il gruppo, scriveva Patrick Corcoran su insightcrime.org lo scorso 6 agosto[1], ha una importanza vitale essendo l'unico distributore locale di giornali. Su un muro interno dell'edificio, evidenzia l'articolo, gli inquirenti hanno trovato le scritte “S” e “TER” delle quali rimane però ancora sconosciuto il significato.

Troppi galli nel pollaio. Che oggi il giornalismo in Messico sia, non certo per scelta propria, una delle parti in causa della guerra scatenata dai cartelli della droga lo dicono i numeri, come quelli della Commissione nazionale sui Diritti Umani che parla di 81 giornalisti uccisi e 14 scomparsi dal 2000[2] o degli innumerevoli attacchi alle sedi dei giornali che per questo decidono di dedicarsi ad altro, arrivando a forme di totale auto-censura verso le informazioni che riguardano la criminalità organizzata, come capitato con El Mañana[3].

Oltre agli attacchi alla stampa – che per quanto riguarda l'ex braccio militare del Cártel del Golfo rientrano in una più ampia politica di immagine (criminale) – un altro episodio eloquente in tal senso è accaduto il 13 maggio, quando Jesús Elizondo Ramírez, detto “El Loco”, leader Zetas a Cadereyta, nello stato di Nuevo León, ha disobbedito agli ordini di Miguel Ángel Treviño Morales detto “Z-40” e da qualche mese ribattezzato “il nuovo Giuda”. Elizondo Ramírez, arrestato pochi giorni dopo, ha raccontato ai militari di aver ricevuto ordini dai due leader dei Los Zetas (oltre a Treviño Morales, il gruppo è guidato dall'unico dei fondatori ancora in vita, Heriberto Lazcano Lazcano detto “El Lazca” o “Z-3”) per abbandonare i 49 corpi mutilati[4] – appartenenti a sei donne e 43 uomini – nella piazza principale di Cadereyta, ma di avervi disobbedito conscio delle conseguenze che questo atto avrebbe rappresentato per lui.