Caporalato, la Flai Cgil propone la creazione di un codice etico


Palermo, 28 settembre 2011 – Un codice etico contro il caporalato in agricoltura. Lo chiede la Federazione Lavoratori Agroindustria (Flai) della Cgil siciliana per combattere il “neo-schiavismo” a cui sono assoggettati i migranti – spesso clandestini – e che nella sola Sicilia tocca percentuali del 25% di occupazione in nero e del 48% per quanto riguarda il lavoro irregolare.

All'interno della conferenza stampa che ha lanciato la proposta – che nell'idea della Federazione dovrebbe diventare una vera e propria carta “degli impegni morali” - è stata presentata anche la tre giorni itinerante che nelle province di Siracusa e Ragusa porterà i sindacalisti “di strada” nelle piazze del caporalato.

Il problema-caporalato deve però essere combattuto non solo nell'ambito della stretta contrattazione caporale-lavoratore migrante, ma deve partire da «una politica programmata dell'accoglienza per evitare situazioni di degrado» riguardanti soggetti che ormai rappresentano uno dei pilastri fondamentali dell'economia agricola siciliana ed i cui diritti vanno pienamente riconosciuti, a partire da quelli di cittadinanza e di voto.

«Identifichiamo nella prefettura» - ha detto Salvatore Tripi, segretario generale della Federazione siciliana - «il punto di riferimento delle istituzioni, degli enti di vigilanza e delle parti sociali nel territorio. Alla prefettura chiediamo di intestarsi la stesura e la stipula con le parti del codice etico, per una corretta gestione del mercato del lavoro agricolo».
Il sindacato ha anche lanciato l'allarme sull'esiguo numero degli ispettori che dovrebbero controllare la corretta – e legale – gestione delle aziende siciliane, dove per 400mila aziende ci sono solo 107 ispettori. «Suggeriamo anche» - ha continuato Tripi - «un sistema premiale per le imprese virtuose e vigileremo sull'attuazione della nuova legge che sanziona penalmente l'intermediazione illecita di manodopera». Un rapporto che permette, ad esempio, alle aziende di assumere i lavoratori migranti per tutto l'anno e che non li mettono in regola neanche per le 51 giornate necessarie a questi ultimi per accedere alle tutele previdenziali ed assistenziali.
«Se la situazione non cambierà» - ha concluso il sindacalista - «la prossima iniziativa del sindacato sarà lo sciopero di tutti i lavoratori agricoli dei comuni dove il fenomeno si manifesta».

Cassibile, Vittoria, Licata, Pachino, Ispica, Scoglitti. Sono alcune delle tappe che tra oggi e venerdì prossimo toccheranno la Federazone ed il Sindacato di Strada nei luoghi dell'eccellenza agricola siciliana, “eccellenza” che sempre più si basa su fenomeni come il lavoro nero ed il caporalato, che sempre più – come evidenziava nei mesi scorsi l'agenzia Redattore Sociale – fa largo uso di minori e donne, fisicamente più adatti alle serre-tunnel nelle quali sono costretti a lavorare (alte, in media, 80 centimetri).

Negli scorsi mesi il caporalato è diventato reato (inserito nel Decreto legge numero 138 del 13 agosto 2011), anche grazie alla rivolta dei migranti di Nardò (Lecce), ma la battaglia per eliminare il fenomeno – che ogni anno coinvolge circa 250mila persone, non solo nel settore agricolo – è ben lungi dall'essere conclusa.

Sfiducia al ministro Romano. Oggi il voto


Roma, 28 settembre 2011 – Potrebbe essere scritta oggi la parola fine sull'”affaire Romano”. Alle 16 di quest'oggi, infatti, la Camera dei deputati – a cui il ministro apparteneva prima di essere nominato al dicastero delle Politiche agricole, alimentari e forestali nello scorso marzo – sarà chiamata a votare la mozione di sfiducia a seguito della sua imputazione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il ministro: «Sono tranquillo, parlerò in Aula».

«Ascolterò gli interventi e, quando il presidente mi darà la parola, dirò due cose» - ha ribadito il ministro, che in aula parlerà senza l'ausilio di appunti - «In questi giorni, da parte di alcuni giornali e di alcune trasmissioni televisive, ho letto e visto molta disinformatija. Non ho mai avuto un processo, un rinvio a giudizio, una condanna». Dovrà essere proprio la Camera a decidere, attraverso il voto, se dare la possibilità alla Procura di Palermo di procedere con il rinvio a giudizio del ministro nell'ambito dell'inchiesta – nella quale è coinvolto anche l'ex presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro – sulle presunte tangenti distribuite da Gianni Lapis, tributarista e prestanome dei Ciancimino, per favorire una società di cui era socio Massimo Ciancimino.
Come scrissero nella richiesta presentata lo scorso luglio il pubblico ministero Nino Di Matteo e l'aggiunto Ignazio De Francisci «nella sua veste di esponente politico di spicco, prima della Dc e poi del Ccd e Cdu e, dopo il 13 maggio 2001, di parlamentare nazionale, Romano avrebbe consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno ed al rafforzamento dell'associazione mafiosa, intrattenendo, anche al fine di acquisire sostegno elettorale, rapporti diretti o mediati con numerosi esponenti di spicco dell'organizzazione tra i quali Angelo Siino, Giuseppe Guttadauro, Antonino Mandalà e Francesco Campanella». Due di questi – Siino e Campanella – sono peraltro tra i “pentiti” su cui oggi si basa proprio l'accusa al ministro.

L'aula, il cui voto sarà palese, è spaccata. Se da un lato il fronte dell'opposizione vede il portabandiera nel leader dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro, che prevede un vero e proprio «voto di scambio in stile mafioso» ed al quale si aggiungono gli esponenti del Partito Democratico e dell'Unione di Centro (Lorenzo Cesa, segretario del partito, ha definito il ministro «ribaltonista che difende le quote latte per interessi di bottega della Lega»), proprio dal partito di Bossi – sempre più ancora di salvezza per il governo – potrebbero arrivare i numeri necessari a salvare la poltrona di Romano.
Come sempre più spesso accade, tutto si deciderà in una manciata di voti. Sulla carta la mozione di sfiducia dovrebbe non raggiungere la maggioranza – che può contare su 320 voti, mentre l'opposizione si ferma a 306 – e quindi essere rigettata. Ma bisognerà capire quanto folto sarà il “partito degli assenti”, tra assenze sicure come quella di Marianna Madia, che ieri ha partorito e difficilmente sarà in aula e quelle ancora incerte tra le quali spicca quella dell'ex ministro democristiano – ed ex inquisito per mafia – Calogero Mannino.

Oltre ai deputati, sono stati convocati anche gli “indignados”, che si ritroveranno sotto Montecitorio a partire dalle 15.30 per una “catena umana della legalità”.

"Siamo persone perbene". Poi baciano i boss


Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/la-sfilata-dei-boss/18154/

Napoli, 27 settembre 2011 – Nelle scorse settimane il grido d'allarme era arrivato dall'arcivescovo di Reggio Calabria monsignor Vittorio Mondello, che aveva evidenziato come sempre più spesso le feste religiose stiano diventando «proprietà di gruppi alle volte mafiosi»[1]. Ma quello che è successo domenica scorsa per le strade del quartiere Barra, forse, non lo aveva immaginato nemmeno lui.

L'immagine che si è presentata ai cittadini nella mattinata di domenica scorsa assomiglia a quelle scene dei film americani in cui il politico in trionfo gira per le strade della città in mezzo ad auto di lusso, cittadini festanti, palloncini e coriandoli. Nel quartiere Barra, alle pendici del Vesuvio, invece, la sfilata l'ha fatta Angelo Cuccaro, capo dell'omonima famiglia arrestato nel 1993 per omicidio (stando all'accusa, infatti, avrebbe ucciso un affiliato che si opponeva alla tregua con l'organizzazione rivale dei Minichini) e scarcerato nel 2010.

Quella dei Cuccaro non è la camorra degli Schiavone o quella dei Mazzarella, anche se i clan sono ben inseriti nel traffico d'armi e di sostanze stupefacenti come nel racket e nelle rapine ai tir. Non è la camorra dei grandi libri o delle prime pagine dei quotidiani, ma le regole che valgono per gli Schiavone o per i Mazzarella valgono anche se ti chiami Cuccaro. In particolare quelle del potere simbolico.

Il contesto in cui si svolge la sfilata del boss – accompagnata dalla classica musica neomelodica che ne elogia le gesta criminali – è la festa dei Gigli, festa che nel quartiere si celebra fin dal 1822. E che da qualche anno serve a celebrare la potenza del clan. L'anno scorso era toccato ad Arcangelo Abete, tra i fondatori degli Scissionisti che hanno insanguinato le strade napoletane tra il 2004 ed il 2005. Quest'anno, sul sedile posteriore di una Rolls Royce bianca c'era proprio Angelo Cuccaro.
Ad aprirgli la strada suo padre Antonio, prodigo nello stringere mani e nel baciare in bocca, gesto che nella semiotica criminale indica la totale appartenenza alla famiglia e che è diventato uno dei marchi di fabbrica proprio degli Scissionisti.

La festa religiosa, dunque, diventa il principale strumento (insieme a veri e propri inni neomelodici come la canzone “'O Rre”) per rimarcare il potere sul territorio e sulla “loro” gente, dove il boss – lungo quel leit-motiv in cui i criminali diventano eroi e gli eroi diventano criminali ormai di moda da qualche anno – diventa il benefattore che dà lavoro, assistenza e divertimento al suo popolo. Un potere che non viene scalfito neanche dal potente potere ecclesiastico, dato che tutti i parroci del quartiere, negli ultimi anni, hanno benedetto la festa ed il festeggiato. D'altronde i tempi di don Peppe Diana o del siciliano don Pino Puglisi sono lontani.

E mentre nel quartiere Barra si festeggiava, a Scampia veniva ucciso Ciro Nocerino, 45enne pregiudicato con precedenti per associazione camorristica, traffico d'armi e spaccio di droga e ritenuto uno dei nomi storici degli Scissionisti. Sedici colpi di pistola di una calibro 9x21 che hanno lasciato a terra il terzo morto di camorra negli ultimi due mesi. Sedici colpi di pistola che, forse, indicano l'inizio di una nuova guerra per i nuovi equilibri tra i clan.


Note
[1] http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Riprendiamoci-le-feste-religiose.aspx

Palermo, il porto e quelle navi-lager


Palermo, 26 settembre 2011 – Nuovo capitolo della lotta all'immigrazione clandestina combattuta dalla politica italiana. Dopo aver creato i Centri di permanenza temporanea (Cpt) con la legge Turco-Napolitano del 1998 trasformati in Centri di identificazione ed espulsione (Cie) con la Bossi-Fini, da qualche giorno sono stati creati anche i centri di raccolta galleggianti.

Per evitare nuove proteste da parte dei migranti rinchiusi a Lampedusa e della cittadinanza, il governo italiano ha pensato bene di smistare i detenuti coinvolti nell'incendio del Centro di identificazione ed espulsione dei giorni scorsi su tre traghetti bloccati nel porto di Palermo finché non sarà possibile rimpatriarli. Per questo il Viminale ha deciso di requisire il molo di Santa Lucia per due settimane, ed è lì che sono state fatte attraccare la Moby Fantasy, l'Audacia e la Moby Vincent. Queste ultime due si troverebbero ancora nell'area dei cantieri navali del porto, mentre la Moby Fantasy, partita poco prima della mezzanotte di sabato 24 settembre è giunta questa mattina al porto di Cagliari, dove si trova il centro di prima accoglienza Elmas, che quindi viene trasformato in un altro Centro di identificazione.

Sono 700 i tunisini sorvegliati a vista dagli agenti delle forze dell'ordine – tutti in assetto anti-sommossa – ai quali sono stati sequestrati i cellulari ed è impedito anche solo di mettere piede sul ponte. «Viste da fuori sembrano navi vuote», ha dichiarato Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato dell'Associazione studi giuridici sull'immigrazione che segue gli immigrati. Ogni giorno in cento vengono presi e portati all'aeroporto per essere rimpatriati. «Ma i rimpatri di massa sono vietati dall'articolo 4 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo», ha spiegato l'avvocato.

Il Viminale non permette alle organizzazioni non governative o agli avvocati né di salire a bordo né di parlare con gli immigrati, che a quanto riporta il sito Terrelibere.org, sono stivati nei saloni delle navi, e potrebbero usufruire solo di due bagni ogni 50 persone, e le docce non funzionano.

«Rinchiudere i migranti tunisini in una nave che è un “non luogo” fuori da qualsiasi classificazione di legge e da ogni controllo giurisdizionale» - ha dichiarato Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell'Arci - «significa tenerli prigionieri senza che un giudice ne abbia confermato la detenzione».

Oltre ai cellulari sequestrati, alle persone detenute – non soltanto di nazionalità tunisina – non viene fornito alcuno strumento (lamette, forchette metalliche) che possa essere utilizzato per pratiche autolesionistiche.

Secondo le denunce delle associazioni che si battono per la chiusura di questi lager del terzo millennio, le navi configurerebbero la violazione dell'articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, l'articolo 13 della Costituzione italiana, gli articoli 2, 13 e 14 del Testo Unico sull'immigrazione ed il regolamento delle Frontiere Schengen, il quale impone che gli atti di respingimento siano individuali dando la possibilità di farsi assistere da un difensore.

Il boss e il telefono del ministro Romano


Agigento, 26 settembre 2011 – Sarebbe stata trovata nel portafogli di Alberto Provenzano, elemento di spicco della famiglia mafiosa di Burgio (Agrigento) arrestato nell'agosto 2002 per estorsione la prova definitiva che inchioderebbe l'attuale Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali Francesco Saverio Romano al suo ruolo di “contiguità al sistema mafioso” (per la precisione a quello di Villabate, nel palermitano).

La prova – pubblicata dal quotidiano “La Repubblica” ed immediatamente ripresa dalla rete – sarebbe un bigliettino di “Pronto pizza – servizio a domicilio”, sul retro del quale (come è possibile vedere nella foto) sarebbero stati annotati nome e numeri di telefono del ministro. Al tempo dell'arresto del boss l'attuale ministro si trovava già alla Camera dei deputati, dove è entrato l'anno prima andando a comporre la “corrente cuffariana” dell'Unione di Centro.

La domanda che ci si pone è come mai – se nulli sono i rapporti tra il ministro e uomini di Cosa Nostra – un capomafia (fino al 2002 insospettabile) teneva nel portafogli i numeri del cellulare e dello studio di quello che allora era solo un avvocato penalista e deputato? Giuliano Castiglia, giudice per le indagini preliminari lo scorso luglio ha riaperto l'inchiesta proprio su questa domanda, alla quale aggiunge altri sei elementi “idonei a sostenere l'accusa in giudizio” basati per lo più sulle dichiarazioni di quattro pentiti di prim'ordine come Antonino “Nino” Giuffrè, numero due della Cosa Nostra dei corleonesi, Angelo Siino, noto per essere stato il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina, Salvatore Lanzalaco, tra i massimi esperti nel campo degli appalti per i corleonesi e grande accusatore anche dell'attuale presidente del Senato Renato Schifani e Francesco Campanella, ex braccio destro di Nino Mandalà, boss di Villabate, cioè la famiglia a cui farebbe riferimento proprio il ministro Romano.
Nei giorni scorsi si sono poi aggiunte le dichiarazioni di un quinto pentito – Stefano Lo Verso, a capo della famiglia di Ficarizzi e confidente di Bernardo Provenzano – che nelle dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi riportava le parole del già citato Mandalà che gli assicurava di avere il ministro Romano nelle sue mani.

Può davvero un bigliettino con annotati i numeri di telefono del ministro essere la prova schiacciante? Stando agli inquirenti, Saverio Romano sarebbe stato per anni contiguo alle cosche, e tra i sei elementi che sosterrebbero l'accusa – che compongono i 35 faldoni che il 25 ottobre dovranno essere esaminati per l'eventuale richiesta di rinvio a giudizio – c'è anche la fotografia del matrimonio di Francesco Campanella, al quale parteciparono anche Totò Cuffaro e Clemente Mastella.
Ancor più interessante è quel che emerge in merito ad un pranzo che vede coinvolti tra gli altri il ministro, Totò Cuffaro e Francesco Campanella e che, stando alle dichiarazioni di quest'ultimo, sarebbe servito al ministro come forma di auto-candidatura per le istanze di Cosa Nostra a Bagheria, dando per scontato il voto di Campanella perché i due appartenevano alla stessa famiglia. «Dal momento in cui ho allontanato il signor Campanella dal mio partito, da oltre quattro anni, ho sempre temuto una sua reazione. Registro con sollievo che si tratta di quella meno dannosa, almeno fisicamente», ha commentato il ministro.

Alla magistratura, dunque, il compito di definire quale sia la vera natura dei rapporti tra il ministro Romano e Cosa Nostra. Nei prossimi mesi, forse, ne sapremo di più.

Caivano, la "scuola di frontiera" in cerca di docenti



Caivano (Napoli), 21 settembre 2011 – Italiano, matematica, inglese, francese, arte e immagine (una volta si chiamava “educazione artistica”) e tecnologia (ex “educazione tecnica”). In totale diciassette insegnamenti che quest'anno non verranno coperti. Perché nessun insegnante è disposto a lavorare in quella scuola. Eugenia Carfora, dirigente scolastica dell'istituto comprensivo Raffaele Viviani di Caivano non vuole «docenti che vengono solo per aumentare i punteggi in graduatoria».

Perché l'istituto Viviani non è una scuola come le altre.
Tredici piazze di spaccio e un florido welfare camorristico che gira – ovviamente – intorno alla droga. È questo lo scenario che i docenti si ritroverebbero davanti qualora accettassero l'impegno. Un impegno che la dirigente scolastica è disposta a “premiare” con un contratto a tempo indeterminato, che in un tempo come questo, dove l'immissione a ruolo ti arriva dopo 37 anni di precariato[1] sarebbe un sogno per molti. Se la scuola fosse in un posto più tranquillo.

«Qui nessuno ci vuole venire» è il grido di dolore della direttrice, da cinque anni alla guida dell'istituto. Le chiamano “scuole di frontiera”. Sono le scuole dei quartieri a rischio, quelli in cui gli istituti non servono solo a dare qualche lezione di grammatica o per imparare a “far di conto”. Sono spesso gli ultimi presidi di legalità in zone in cui ragazzi ancora imberbi – i “muschilli” li chiamano da quelle parti – sognano di diventare i nuovi Francesco Schiavone o Giuseppe Setola.
Sono zone, queste, in cui fare l'insegnante non è un mestiere ma una missione. Una missione di legalità.

Quattro giorni fa, all'inizio dell'anno scolastico, la dirigente ha inviato una comunicazione al ministro dell'Istruzione Gelmini, al direttore dell'Ufficio scolastico regionale per la Campania Diego Bouchè ed al dirigente dell'ufficio territoriale di Napoli Luigi Franzese per segnalare una situazione sempre più insostenibile. «All'inizio dell'anno la scuola ha aperto con sette docenti e quattro collaboratori scolastici per 16 classi a tempo pieno e cinque a tempo ordinario».
L'anno scorso la situazione era stata risolta – o per meglio dire temporaneamente tamponata – con la nomina di diciassette supplenti. Tutte docenti in gravidanza. «Mi batto per il funzionamento di questa scuola e voglio che i ragazzi abbiano quello che meritano. Non è corretto ricorrere alle supplenze temporanee perché oltre ad essere una procedura di spreco economico, pone un forte disagio didattico, a danno di una platea scolastica già fortemente mortificata per le problematiche del Parco Verde. Che pure sono bravi, ma che quasi sempre sono sprovveduti di fronte alle situazioni di questa realtà sociale, che ha bisogno di punti forti che non possono essere docenti della “danza” delle apparizioni in cattedra».

Nell'attesa dei docenti, gli alunni stanno in cortile ad ascoltare la radio se il tempo lo permette, altrimenti in classe con le porte aperte, perché il personale deve guardare due, tre o anche quattro classi per volta. Mentre i “muschilli” sfrecciano sotto le finestre con i motorini appena comprati.

Note
[1] http://palermo.repubblica.it/cronaca/2011/09/01/news/caltanissetta_insegnante_precaria_ottiene_la_cattedra_dopo_37_anni-21111879/

“La primavera di Rosarno non può finire”/2. Stangata al clan Pesce, il Comune dovrà essere risarcito


Rosarno (Reggio Calabria), 21 settembre 2011 - Con la chiusura del procedimento “All Inside”, il giudice per le udienze preliminari di Reggio Calabria Roberto Carrelli Palombi ha inferto un duro colpo alla cosca rosarnese dei Pesce e che va ad aggiungersi a quanto da qualche mese sta facendo il nuovo sindaco Elisabetta Tripodi (PD), “rea” - secondo la lettera inviata dal carcere di Opera da Rocco “Pirata” Pesce[1] - di voler svolgere il proprio ruolo in maniera troppo onesta.

50 milioni di euro è infatti la cifra che la cosca dovrà risarcire al Comune per il danno arrecato con la propria attività criminale, ai quali sono da aggiungere altri 10 milioni di euro per Regione Calabria ed altrettanti al Ministero dell'Interno, per un totale di 70 milioni.

Per quanto riguarda invece le condanne, il Gup ha sposato in pieno quanto sostenuto dall'accusa, costituita dai pm Roberto Di Palma e Alessandra Cerreti. Venti anni ciascuno sono stati comminati a Marcello e Francesco Pesce – quest'ultimo noto anche come “Ciccio Testuni”- ritenuti elementi di spicco del clan. Dieci anni a Domenico Arena – cognato di Vincenzo Pesce - e Salvatore Consiglio, per i quali è immediatamente scattato l'ordine di arresto (erano infatti a piede libero). Tre anni sono stati dati a Lucio Alberti (carabiniere) e tre anni e quattro mesi all'agente penitenziario Eligio Auddino, che si erano avvalsi del rito abbreviato. Per il giudice entrambi agirono consci dei vantaggi che il loro operato portava al clan, per questo ai due è stata data l'aggravante dell'articolo 7 (concorso in associazione mafiosa[2]). Sei anni a Elvira Mubaraskina, moglie del boss Giuseppe Ferraro mentre Francesca Zungri e Lidia Arena hanno visto la propria pena – due anni - sospesa. Unico assolto Claudio D'Agostino “per non aver commesso il fatto”.

«Una sentenza esemplare», l'ha definita il capo della Direzione distrettuale antimafia reggina Giuseppe Pignatone, «perché oltre alle condanne ha ordinato la confisca dei beni, tra cui per la primavolta due squadre di calcio e perché ha condannato gli imputati al risarcimento dei danni nei confronti del Comune di Rosarno, costituitosi parte civile». Oltre al risarcimento, infatti, il gup ha disposto il sequestro della As Rosarnese e dell'Interpiana, nonché del supermercato “A&G Discount”.

Fondamentale è stato l'apporto di Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore alla quale era stato affidato proprio il compito di fare da tramite tra il padre detenuto e gli affiliati e che già lo scorso aprile aveva permesso l'arresto della madre e della sorella, Angela Ferraro e Marina Pesce per poi decidere di tornare sui suoi passi e smettere di collaborare con lo Stato[3].

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/09/la-primavera-di-rosarno-non-puo-finire.html
[2] http://penalpolis.splinder.com/post/11105434/art-7-l-20391-dolo-specifico
[3] http://www.malitalia.it/2011/04/la-figlia-del-boss-pesce-fa-arrestare-madre-e-sorella-ma-poi-smette-di-collaborare/

Mafia, l'ultimo pentito accusa: "Romano nelle mani del clan di Villabate"

Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/mafia-lultimo-pentito-accusa/17842/

Palermo, 20 settembre 2011 – Era considerato il fedelissimo di Bernardo Provenzano, tanto da carpirgli più d'una confidenza. Poi una crisi mistica lo ha portato al pentimento. Stefano Lo Verso, 49 anni, ex reggente della famiglia mafiosa di Ficarizzi, nel parlermitano, si presenta l'11 febbraio 2011 alla locale caserma dei carabinieri. Da quel momento è un fiume in piena.

«Bernardo Provenzano mi riferì di accordi politici con Dell'Utri, dopo le stragi del '92-'93, che costituirono la base su cui la mafia decise di appoggiare Forza Italia». Come contropartita al nuovo movimento politico, il mantenimento della latitanza di “zu Binnu”.
Le dichiarazioni di Lo Verso sono state depositate oggi dal pubblico ministero Nino Di Matteo davanti alla quarta sezione del Tribunale nel quale si svolge il processo a Mario Mori, l'ex generale dei carabinieri accusato di favoreggiamento aggravato insieme a Sergio De Caprio (il “capitano Ultimo”), già assolti “con formula piena” nel 2006.

All'interno del profluvio di dichiarazioni, Lo Verso ha dato spazio anche a nuove accuse per Saverio Romano, ministro per le Politiche agricole in quota “Responsabili”, il partito nato per salvare il governo lo scorso marzo. Già prima della nomina era indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Queste ultime rivelazioni sono state inserite all'interno del procedimento contro Totò Cuffaro, l'ex governatore attualmente in carcere dallo scorso gennaio con una condanna a sette anni nell'ambito del procedimento “Talpe in Procura”.

«Nel 2003» - racconta Lo Verso - per risolvere un problema burocratico con il Comune di Villabate andò a parlare con Nicola Mandalà, capomafia di Villabate che ha curato gli ultimi anni della latitanza di Provenzano ora al 41 bis, che gli promise di interessarsi al problema, tranquillizzandolo sugli agganci politici del clan, dato che Saverio Romano e Totò Cuffaro erano uomini nelle mani del clan.
Romano è accusato di avere «consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento dell'associazione mafiosa Cosa Nostra, mettendo a disposizione il proprio ruolo così contribuendo alla realizzazione del programma criminoso dell'organizzazione, tendente all'acquisizione di poteri di influenza sull'operato di organismi politici e amministrativi».

«Sono cose già note e già riportate dai media, inutili ma ricorrenti ad orologeria». Ha commentato il ministro. «Dopo otto anni che la mia vicenda è sui giornali in tanti “hanno sentito dire che”, non solo Lo Verso».
Quanto saranno decisive le nuove dichiarazioni, comunque, sarà il tempo a deciderlo.

"La primavera di Rosarno non può finire". Così sfratta il boss


Rosarno (Reggio Calabria), 20 settembre 2011 – Agli inizi di Gennaio 2010 la rivolta dei migranti portò agli onori della cronaca nazionale il problema del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori extracomunitari nell'agricoltura in odor di 'ndrangheta. A Dicembre l'elezione a sindaco di Elisabetta Tripodi (Partito Democratico) ha dato il via alla “primavera di Rosarno”.

Un cambiamento, quello rosarnese, che però sembra non essere gradito a Rocco Pesce, 54 anni, detto “Pirata” per una benda che gli copre l'occhio destro appartenente ad una delle più rilevanti “dinastie” mafiose, che fin da subito ha iniziato a delegittimare la nuova giunta, sostenendo non solo che questa fosse più sensibile ai problemi dei migranti che a quelli della cittadinanza, ma anche che la famiglia del sindaco avesse delle non meglio specificate frequentazioni con i consanguinei del “Pirata”. Lo ha fatto con una lettera, inviata dal carcere di Opera, nel milanese, dove il boss sta scontando un ergastolo con il regime del 41bis.
Quello che più dovrebbe inquietare della missiva – che sembra essere stata scritta a più mani – è che la carta sulla quale è stata dattiloscritta rechi l'intestazione del Comune reggino, ad uso solo dei funzionari del municipio.

Il controllo della 'ndrangheta ha portato il territorio di Rosarno – un territorio relativamente ricco grazie all'agricoltura – a diventare un centro in cui le cosche controllavano tutto, dalle pompe di benzina alla squadra calcio. L'operazione “All Clean”[1] ha portato alla luce, tra le tante, il modo in cui i Pesce controllavano la filiera delle arance, strutturata lungo tutto il percorso raccolta-vendita attraverso una serie di cooperative per la raccolta e la commercializzazione che arrivavano fino ad una catena di supermercati (uno dei “nuovi” business della criminalità organizzata) attraverso la quale vendere al dettaglio.

Ma a far infuriare il boss è stato un altro atto “anti-mafia”, un atto di normale amministrazione come quello di far eseguire uno sfratto, avvenuto lo scorso giugno. Mentre “Pirata” è in carcere, infatti, madre, fratello e sorella del boss continuavano a vivere in una villetta dichiarata abusiva – il terreno, oltre che non appartenere ai Pesce era anche soggetto a vincolo archeologico – già nel 2003, quando questa era entrata a far parte del patrimonio comunale. «Abbiamo semplicemente concluso una procedura che nessun altro aveva toccato negli anni. È solo un atto amministrativo dovuto», sono state le parole del sindaco.

Da quel momento, però, la sua vita cambia. Non può più guidare la sua macchina e deve avvisare la scorta che le è stata assegnata per ogni spostamento.
Nonostante gli impedimenti e le minacce, comunque, Elisabetta Tripodi va avanti, senza paura. Perché – per una volta – le istituzioni sono state pronte a schierarsi dalla parte della legalità e a non far finta di niente come succede troppo spesso negli ultimi tempi. Perché «La “primavera di Rosarno” non può morire, né possiamo permetterci di spegnere la speranza». E nel tempo in cui la criminalità organizzata azzanna con sempre maggior forza i gangli più importanti dell'architettura socio-economica italiana e dove la classe politica è sempre più separata dalla società, sperare nella “piccola rivoluzione” rosarnese diventa più che un atto di solidarietà.

Note
[1] http://www.mediterraneonline.it/2011/04/21/operazione-all-clean-scacco-matto-alla-cosca-pesce-di-rosarno-190-milioni-di-beni-sequestrati/

Assolti gli imputati dell'inchiesta "Cassiopea", della Gomorra è rimasto solo il libro


Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 19 settembre 2011 – Tutti prescritti i 97 imputati dell'inchiesta “Cassiopea”, che nel 2003 portò alla luce i traffici di rifiuti pericolosi che dalle industrie di tutta Italia finivano nelle campagne del Casertano, dove i fusti tossici venivano sotterrati. Proprio da questo episodio ne era stata ricavata una delle immagini “cult” del libro che ha portato al successo Roberto Saviano (e del film che dallo stesso è stato tratto).

Definita come la più grossa inchiesta mai fatta in Italia nel campo della gestione illecita dei rifiuti, vennero accertati non solo la quantità dei traffici (un milione di tonnellate di rifiuti tossici), ma anche i meccanismo utilizzati da industrie per lo più dell'Emilia Romagna, della Lombardia, del Piemonte, del Veneto e della Toscana per liberarsene. Tutto veniva inviato, tramite camion, in Campania, dove l'uso di discariche abusive faceva risparmiare non pochi soldi.

Ancora una volta la burocrazia si rivela utile alleata del malaffare italico. Errori di notifica, rinvii, scioperi di avvocati, trasferimenti di giudici, astensione dei penalisti, passaggi di competenze hanno infatti caratterizzato gli otto anni in cui il procedimento è rimasto aperto. L'inchiesta, in realtà, era partita nel 1999 con un semplice controllo dei carabinieri nella provincia di Napoli. Quattro anni dopo, nel 2003 appunto, sul banco degli imputati si ritrovano novantotto persone tra imprenditori, trasportatori, faccendieri e titolari di cave dismesse, ognuno dei quali svolgeva il proprio ruolo nella ragnatela che univa il mondo legale dell'imprenditoria a quello illegale della criminalità organizzata.

Molti di quegli imputati arrivarono anche alla confessione, ed in quel momento, quando cioè si configurava sempre più palesemente il reato di associazione mafiosa, il giudice per le udienze preliminari spedì tutti gli incartamenti – un centinaio di faldoni – alla Direzione Distrettuale Antimafia napoletana, dopo aver atteso due anni per scegliere a chi dovesse essere affidato il caso. Lì, però, si decise che la camorra in realtà non c'entrava nulla, per questo – dopo aver proposto l'archiviazione – i faldoni tornarono al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dove tra errori di notifica, scioperi ed altre questioni burocratiche passano ancora degli anni a prendere polvere su qualche scrivania.

Che l'inchiesta potesse finire con un nulla di fatto era noto ormai da tempo, tanto che da più parti, in primis dalle associazioni ambientaliste, era stato lanciato l'allarme. «È un messaggio devastante nei confronti dei cittadini che per anni hanno sperato di vedere fatta giustizia», ha commentato il vicesindaco di Napoli Tommaso Sodano. «Eppure» - scriveva nei giorni scorsi Roberto Saviano - «il meccanismo è lì, semplice, registrato dalle telecamere, evidente. Bastava alzare la testa e guardare».

Se la memoria diventa immondizia. Il caso Peppino Impastato


Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/casolare-impastato/17778/

Cinisi (Palermo), 19 settembre 2011 – Dell' omicidio di Peppino Impastato tutti ricordano la data – il 9 maggio 1978 – celebrata anche in una nota canzone dei Modena City Ramblers. Quello che però quasi nessuno ricorda contrada Feudo, il luogo dell'omicidio per il quale oggi Giovanni Impastato lancia l'allarme: «È diventato una discarica».

Peppino Impastato viene portato lì, in quella che allora è solo una piccola stalla, la sera dell'8 maggio. Malmenato pesantemente e preso a sassate prima di essere trascinato sui binari della vicina ferrovia e fatto saltare in aria con una carica di esplosivo. Il resto della cronaca è ben noto ai più.
«Provo rabbia ogni volta che torno in quei luoghi di contrada Feudo, mi sembra un'offesa ripetuta a mio fratello» - dice Giovanni, che insieme agli amici di “Radio Aut”, la storica emittente dalla quale Peppino trasmetteva le sue invettive anti-mafia – rappresenta la memoria storica per quei tanti giovani che non hanno fatto in tempo a conoscere questa storia.

Gli amministratori del comune di Cinisi si erano impegnati – almeno formalmente – ad espropriare l'area per realizzarvi un vero e proprio museo a cielo aperto, un luogo che non fosse solo “meta di pellegrinaggio” ma anche punto di riferimento per la cultura anti-mafiosa siciliana e nazionale. Ma, come al solito, i soldi non ci sono.
Nel 2003 i commissari prefettizi che amministravano il comune, intanto sciolto per infiltrazione mafiosa, posero sul luogo un vincolo in quanto “bene di interesse storico-culturale”, come risulta registrato sul piano regolatore. Ma il terreno circostante rimane ancora di proprietà privata (da qui la necessità dell'esproprio).

Proprio per l'immobilismo che viene dalla giunta comunale, Giovanni Impastato ha rivolto un appello alle istituzioni, locali e nazionali, rilanciandolo poi anche dalla rete e dai quotidiani nazionali affinché si crei una grande “onda pazza” popolare per impedire che si consumi l'ennesimo oltraggio alla memoria positiva di questo paese.

Perché se, come diceva il giudice Giovanni Falcone, la mafia è un fenomeno umano, è solo attraverso la cultura che la si può sconfiggere. Quella cultura fatta di simboli su cui più d'uno, ormai da tempo, ha smesso di investire.

Giulio Cavalli ha ideato una raccolta firme on-line. Per chi volesse aderire: Pulite la memoria di Peppino Impastato! Ci metto la firma.

Cavalli di mafia


Quattro minuti per quattro chilometri. Strade bloccate con motorini e automobili, così da evitare che passanti e forze dell'ordine possano bloccare la competizione. A partire dalla metà degli anni Novanta tutte le grandi mafie italiane – compresa la Sacra corona unita, che sul fenomeno ci ha basato addirittura una pax mafiosa – hanno messo le mani sul business. Un miliardo di fatturato annuo il guadagno derivante dalle sole scommesse. Sembra un film alla "Fast and Furious", è invece la realtà delle corse clandestine dei cavalli, la prima voce di guadagno per la zoomafia.


Aggiornamento: Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/cavalli-di-mafia/17726/



Palermo – Quel 27 giugno 2011 sarebbe stato un giorno come tanti. Anzi, una mattina come tante. Sarebbe stato uno dei tanti giorni in cui a Palermo non succede niente se non fosse stato per quella carcassa, proprio di fronte ad una delle gelaterie storiche della città. Un cavallo, nero, giace ormai da poco meno di 24 ore accasciato sul fianco sinistro e con una coperta addosso, posta dai vigili verso le 8 di quella mattina. Uno spettacolo raccapricciante e destinato a durare ancora per altre 24 ore, il tempo necessario affinché il Comune appalti a qualche ditta del catanese il recupero e lo smaltimento del cadavere. È già il terzo caso in pochi mesi: prima un cavallo morto in via Ernesto Basile, di fronte all'università, con la gola tagliata. Poi un altro, rinvenuto a pezzi in un cassonetto nel quartiere Ballarò.

Se questa storia fosse un film, e un film non è, come vedremo, sarebbe un film sulle auto. Auto da corsa, per la precisione. Auto come quelle di “Fast and furious” di Rob Cohen (capitoli successivi annessi), con le lucette sotto ed i motori truccati.
Uno di quei film in cui per quanto cambino storie e personaggi c'è sempre una scena, identica a se stessa in qualunque versione la si guardi: la corsa.

     Una questione di cavalli. Le corse hanno, in qualche modo, un loro rituale. Inizia tutto con il sopralluogo, quando le vedette – in macchina o con i motorini – perlustrano la “pista” per controllare che non ci siano intralci di nessun tipo (traffico eccessivo o forze dell'ordine per lo più). Dopodiché gli spettatori – che spesso sono le stesse vedette o gli scommettitori – si dispongono in modo da impedire il passaggio a vetture esterne che potrebbero bloccare la corsa durante il suo svolgimento ed a quel punto, una volta raccolte tutte le scommesse, i due contendenti si dispongono alla partenza. Motori accesi e cavalli rombanti. E se Vin Diesel viveva la vita «ad un quarto di miglio alla volta», a Palermo, a Catania, a Napoli la vita i cavalli la vivono ad una manciata di minuti alla volta. Quattro, solitamente. Quattro minuti per quattro chilometri, in molti casi in salita. È questo quello che i fantini chiedono a campioni come “Ira funesta” o “Tempesta”.

Perché questo, dicevamo, non è un film. Questa è la realtà. Una realtà che sta prendendo sempre più piede tra i boss della criminalità organizzata, che sia essa la Sacra Corona Unita pugliese, la camorra o le 'ndrine che ormai spadroneggiano – come sempre più ci viene rivelato dalle cronache – nel nord Italia.

Gli schiavi del sole



Sottotitolo: il lato nascosto del fotovoltaico.

«Il lavoro di montaggio era affidato a circa 500 lavoratori non comunitari, attratti dalle prospettive di lavoro e dai contratti che Tecnova proponeva. Arrivati in Salento grazie al passaparola, veniva loro promesso di essere assunti con contratti da metalmeccanici per sette ore al giorno e 1.300 euro di stipendio. Promesse smentite da una realtà fatta di almeno dodici ore quotidiane di attività, di straordinari e festivi non pagati, infortuni non segnalati, contributi non versati e assicurazioni inesistenti. E poi minacce continue, vessazioni, licenziamenti in tronco per chi osava lamentarsi. Altri avrebbero anche pagato per avere quel posto, da 300 a 800 euro, il contratto solo per il primo mese di lavoro, poi più nulla, solo accordi verbali. Contratti del valore di carta straccia, la paga era data alla giornata, circa 50 euro al giorno. Fino al 24 marzo quando la paga non è stata data».

[da "Puglia, ecco gli schiavi del fotovoltaico", di Matteo Zola per "NarcoMafie"]

Antonio Pelle, tra i latitanti più pericolosi d'Italia, evaso dall'ospedale di Locri

Locri (Reggio Calabria) – È considerato uno degli esponenti di spicco della cosca reggina di San Luca, fino all'arresto avvenuto nel 2008 nella lista dei 30 latitanti più pericolosi d'Italia. Nonostante un curriculum di questo tipo, Antonio Pelle – detto “Vancheddu” o “la mamma” - ricoverato nei giorni scorsi per un presunto malore non era sottoposto ad alcun tipo di sorveglianza, così che ieri pomeriggio è riuscito ad evadere senza incontrare resistenza alcuna.

49 anni, Pelle è stato condannato in primo grado a 13 anni di reclusione dal giudice per le udienze preliminari (gup) di Reggio Calabria nel 2009 e a 10 anni in via definitiva per coltivazione di canapa indiana. Tra i protagonisti della faida di San Luca tra i Pelle-Vottari e i Nirta-Strangio e sfociata nella strage di Duisburg del Ferragosto 2007[1], aveva ottenuto gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute. Come ha certificato un perito nominato dalla Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria, infatti, il boss soffriva di anoressia, malattia utilizzata inizialmente per farsi assegnare l'incompatibilità carceraria[2] poi aggravatasi, così da rendere necessaria dallo scorso aprile una forma di detenzione diversa dal carcere.
Era stato ricoverato cinque giorni fa per un malore, e la sua evasione è stata accertata quando i medici si sono recati nella sua stanza constatando che il boss non era più nella struttura.

La Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Reggio Calabria, insieme alla procura di Locri, ha avviato un'inchiesta per accertare se il boss abbia avuto l'aiuto di qualcuno all'interno o all'esterno dell'ospedale o se sia riuscito ad evadere solo con le sue forze. Quel che sembra certo, comunque, così come ha affermato il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri, Pelle stava organizzando ormai da tempo la fuga, la cui prima fase consisteva proprio nel dimagrimento indotto tramite medicinali.

«Oggi è una brutta giornata per i calabresi onesti» ha sottolineato Rosa Villeco Calipari, vicepresidente dei deputati del Partito Democratico e parlamentare calabrese. Ma forse, oggi, è una brutta giornata per tutto il Paese, perché per l'ennesima volta quella "zona grigia" di cui tanto si parla, ha colpito ancora. Ed ha ragione Giulio Cavalli[3] a chiedere « una pomposa conferenza stampa per raccontarci di chi è la responsabilità di questa leggerezza omicida (e ignorante) nella gestione di uno dei boss più sanguinari della cosca di San Luca». Conferenza stampa che, con ogni probabilità, non vedremo nel tg delle 20.


Note
[1] http://www.newscalabria.com/2011/07/12/processo-fehida-otto-ergastoli-per-la-strage-di-duisburg/
[2] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/09/quando-il-boss-e-sotto-stress-la.html
[3]http://www.giuliocavalli.net/2011/09/15/mamma-e-evaso-ditelo-a-maroni/

Lombardo, non fu concorso esterno per mafia



Catania, 14 settembre 2011 – La Procura della Repubblica di Catania ha deciso di derubricare le accuse contestate al governatore della Sicilia Raffaele Lombardo e a suo fratello Angelo, deputato nazionale del Movimento per l'autonomia (Mpa) da concorso esterno in associazione mafiosa a violazione della legge elettorale (voto di scambio). La posizione dei due era peraltro già stata stracciata nell'ambito dell'inchiesta denominata “Iblis”, per la quale è pendente una richiesta di rinvio a giudizio per oltre 50 imputati.

Per rispondere di questa nuova accusa, ai fratelli Lombardo è stato notificato un decreto di citazione in giudizio che dispone l'inizio del processo il 14 dicembre 2011 davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Catania, in composizione monocratica.

Le accuse riguardano l'elezione di Angelo Lombardo alla Camera dei deputati nell'ambito delle politiche del 2008, reato contestato anche a Raffaele Lombardo in quanto leader del Movimento per l'autonomia. La citazione in giudizio è stata decisa dalla procura, bypassando così la decisione del giudice per le indagini preliminari, vista la bassa entità della condanna prevista dal reato.

Se il reato non fosse stato derubricato, la carriera politica del governatore rischiava di finire nello stesso modo in cui finì, nel gennaio 2008, quella di Salvatore Cuffaro. Da un rapporto del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri, infatti, risulta che Raffaele Lombardo avrebbe goduto del sostegno del clan Santapaola, in particolare del boss Vincenzo Aiello, sia sul piano economico che su quello elettorale. Ipotesi sulla quale la procura catanese si è letteralmente spaccata in due, con l'estromissione di quei pm che chiedevano l'arresto del governatore e la successiva avocazione al procuratore facente funzione Michelangelo Patanè e dell'aggiunto Carmelo Zuccaro l'inchiesta ha invece preso una piega ben diversa.

Nel corso dei due anni di indagine i carabinieri avrebbero confezionato un voluminoso dossier composto da intercettazioni telefoniche ed ambientali e dalle rivelazioni del pentito Maurizio Avola, che addirittura sosterrebbe che il governatore sarebbe stato il medico di Benedetto Santapaola, più noto col nome di Nitto. Lombardo ha però sempre respinto le accuse.

Aggiornamento: ecco la citazione a giudizio di Raffaele Lombardo con i nomi dei boss mafiosi (da http://www.livesicilia.it/2011/09/15/la-citazione-di-lombardo-nelle-carte-i-nomi-dei-boss/)

Camorra, blitz in tutta Italia. In manette anche un carabiniere


Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/camorra-operazione-apogeo/17577/

Perugia, 14 settembre 2011 – È di 16 arresti e oltre 100 milioni di euro in beni mobili e immobili il risultato dell'operazione “Apogeo”, che questa mattina ha sgominato una banda criminale dislocata su tutto il territorio nazionale e diretta da cittadini campani residenti a Perugia collegata al clan camorristico dei Casalesi.
Truffa aggravata, riciclaggio, bancarotta fraudolenta, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti a cui va aggiunta anche l'aggravante del metodo mafioso le accuse formulate da carabinieri e Gruppo d'investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della guardia di finanza, che hanno operato su tutto il territorio nazionale.

I carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) hanno eseguito nei confronti degli arrestati un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Perugia, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia locale. La guardia di finanza ha invece eseguito un provvedimento di sequestro di beni mobili e immobili interamente riconducibili all'organizzazione, per un importo stimato in oltre 100 milioni di euro.
Dalle indagini è emerso come l'organizzazione si muovesse nell'ambito dell'economia legale seguendo due strade ormai consolidate nel modus operandi della criminalità organizzata come l'acquisizione di attività imprenditoriali in difficoltà finanziarie che venivano acquistate a prezzi “di convenienza” per poi utilizzarle per truffare i fornitori una volta svuotate della loro sostanza economica tramite l'uso di false fatturazioni e distrazioni di capitale o l'investimento di denaro di provenienza illecita per la creazione o l'acquisizione di società operanti nel settore alberghiero, dell'edilizia e della ristorazione.

Vicino ai Casalesi (clan Bidognetti) è anche l'imprenditore Gaetano Cerci, arrestato ieri nel casertano per estorsione e favoreggiamento insieme ad altre tre persone, tra cui un carabiniere in servizio alla compagnia Napoli-Secondigliano che faceva anche l'autista personale di Cerci e ritenuto responsabile della rivelazione di notizie coperte da segreto d'ufficio. Per lui l'accusa è – anche – detenzione e cessione di numerose dosi di sostanze stupefacenti.

Messico, arrestata "La flaca", prima leader femminile del cartello dei Los Zetas



Monterrey (Messico), 13 settembre 2011 –È finita con un arresto la carriera criminale di Verónica Mireya Moreno Correón, meglio conosciuta come “La Vero” o “La Flaca” (“La magra”), prima donna a diventare leader del cartello di narcotrafficanti Los Zetas e fino a due anni fa poliziotta nel municipio di San Nicolás de los Garza (nello stato del Nuevo León a circa 5 chilometri da Monterrey). Diventata la responsabile della piazza di spaccio del municipio, è stata arrestata mentre viaggiava sulla sua auto – nella quale sono state rinvenute una pistola, alcune dosi di droga e sei telefonini – insieme a Josè de Jesus Molina (conosciuto come “Mister Chip”).

Il cartello dei Los Zetas è uno tra gli ultimi gruppi creatisi all'interno della guerra tra cartelli che ormai da tempo insanguina le strade del Messico, tanto che è stato lanciato ormai da tempo l'allarme sulla trasformazione dello stato centro-americano in un vero e proprio narco-stato, dove né il Presidente Felipe Calderon né gli accordi con gli Stati Uniti per arginare il fenomeno (colpiti qualche mese fa dal “Mexicogate”, nel quale si attestava un coinvolgimento in un contrabbando di armi con i cartelli del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosive o Atf) sembra essere di aiuto.
Una delle caratteristiche di questo cartello – tra i principali partner internazionali della 'ndrangheta calabrese – è che molti dei suoi esponenti sono stati prelevati da corpi di speciali della polizia creati appositamente per fronteggiare il narcotraffico. Per cui che “La Flaca” sia passata dall'altra parte della barricata non dovrebbe poi stupire più di tanto.

Così come non deve stupire, nonostante la concezione machista che ancora pervade i narcos, l'uso delle donne in posizioni di rilievo. È questo, infatti, uno degli ultimi “trend” della criminalità organizzata a livello globale (basti considerare il ruolo delle donne degli arrestati nelle 'ndrine o nei clan camorristici). Barbie, Bonbon, Comandante Stella sono solo alcune tra le più agguerrite killer di cui possono disporre i Los Zetas, il Cartello del Golfo o quello di Sinaloa. Per non parlare di Sandra Ávila Beltrán, conosciuta come la “la Reina del Pacífico”, prima leader assoluta di un cartello e dal 2007 ospite delle patrie galere.

Mafia, preso "Scintilluni", ultimo capofamiglia palermitano

Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/mafia-preso-scintilluni/17481/

Palermo, 12 settembre 2011 – Fine corsa per Antonino “'U scintilluni” Lauricella, 56 anni, boss del quartiere La Kalsa considerato uno dei nomi di spicco della nuova mafia palermitana. Ricercato dal 3 ottobre 2005 e condannato a 7 anni di carcere per estorsione, è stato arrestato alle 8:25 di questa mattina durante un blitz degli uomini della sezione Catturandi della Polizia di Stato al mercato storico di Ballarò.

Quando è stato arrestato, sorpreso su uno scooter e con un borsone contenente un asciugamano, un passamontagna, un coltellino e dei guanti di lattice, non ha opposto resistenza e si è addirittura complimentato con i ragazzi della squadra mobile e della questura, nei cui locali è stato portato subito dopo l'operazione.
«Avendo eliminato la prima e la seconda linea dei boss mafiosi» - ha aggiunto il procuratore aggiunto di Palermo Ignazio De Francisci - «è rimasta la terza linea e Lauricella ne faceva parte».
La polizia era andata vicino al suo arresto già lo scorso aprile, quando lo aveva cercato – infruttuosamente – a Villabate.

Gli inquirenti lo hanno interrogato una sola volta, durante il maxi processo-ter, quando l'unico appunto che ebbe premura di fare fu che in realtà nessuno lo aveva mai chiamato “Scintilluni” bensì “Nino il bello” (o “Beckenbauer”, come lo chiamavano gli abitanti de La Kalsa per canzonarlo). Da quel processo, però, Lauricella uscì per insufficienza di prove.
Cresciuto alla scuola di Masino Spadaro e Gerlando Alberti, di lui parlò già nel 1989 il boss – oggi pentito - Francesco Marino Mannoia detto “mozzarella”, quando dinanzi al giudice Giovanni Falcone lo definì come un ladruncolo la cui unica fortuna era quella di essere cognato del killer Pietro Senapa, condannato all'ergastolo nel primo maxiprocesso palermitano e graziato nel 1991.

Avevo paura della camorra, invece l'incontro peggiore è stato con lo Stato


Essere un testimone di giustizia, in Italia, è difficile. Perché quando decidi di testimoniare non ti trovi solo a combattere la criminalità organizzata ma anche lo Stato che ti abbandona quando finiscono i processi o la tua stessa città che chiede di allontanarti. Perché nel paese che ha reso l'omertà un fattore identitario e portatore di voti, fare il proprio dovere diventa un atto che non tutti apprezzano.

Aggiornamento: Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/avevo-paura-della-camorra-invece-lincontro-peggiore-e-stato-con-lo-stato/17411/



Bivona (Agrigento) - È il 24 agosto scorso, è sera. Ignazio è seduto all'aperto con la moglie Giuseppina ed i due figli – Giuseppe e Veronica - quando Achille, il cane, mette in allarme i Carabinieri che sorvegliano la casa e che partono immediatamente all'inseguimento di un uomo nascostosi dietro una siepe. La famiglia viene subito portata in casa, come protocollo di sicurezza richiede, ma l'inseguimento porta ad un nulla di fatto.
Qualche giorno dopo Ignazio è a Roma, incatenato insieme a Valeria Grasso davanti al Viminale. Valeria è siciliana, e con le sue denunce a Palermo hanno decapitato il clan dei Madonia. Oggi, come racconta Giulio Cavalli in un suo recente post [1] Valeria è stata costretta ad abbandonare la propria identità per entrare nel programma di protezione dei testimoni di giustizia e ritrovarsi in una località sconosciuta e lontana da casa. Ignazio, invece, ha deciso che dalla sua impresa edile a Bivona non ha intenzione di allontanarsi. Anche Ignazio – Ignazio Cutrò per la precisione – è un testimone di giustizia (la storia completa la potete leggere qua: http://www.ignaziocutro.com/ic01/?page_id=98). Con la sua deposizione ha contribuito al processo “Face Off”[2] grazie al quale è stata smantellata la famiglia mafiosa dei Panepinto, che in base ad una forma di “sindrome di Stoccolma” da vittime di mafia si è trasformata a sua volta in un clan mafioso.

     Egregi stronzi mafiosi e company. Ignazio Cutrò – imprenditore edile – non solo non si lascia intimidire, ma “rilancia”. Così come nel 1991 Libero Grassi scrisse la lettera al “caro” estortore[2], così Cutrò si rivolge direttamente ai mafiosi:

«Egregi stronzi mafiosi e company, siete arrivati vicino casa mia, si ma grazie a quegli angeli non avete avuto tempo di respirare, vi sono subito stati nel culo anche se effettivamente la caccia “all'uomo”, se uomo si può dire, poi è andata a vuoto. Però di certo starete con due piedi in una scarpa prima o poi sarete messi con la faccia al muro, e giustizia sarà fatta. Questi gesti ci danno più carica in questa lotta, perché ci fanno capire allo stesso tempo sia quanto siate vigliacchi e anche che le istituzioni sono vicine e reattive. Carabinieri, poliziotti, finanzieri, uomini, padri di famiglia che con sprezzo del pericolo vigilano costantemente su di noi, su tutti i cittadini, e mettendo in rischio la loro vita ogni giorno si sforzano di rendere più pulito dalle illegalità il nostro Paese dove mettono a rischio la propria vita senza pensarci due volte dimostrando la fedeltà alla divisa indossata ed impressa nella pelle. Un grazie a questi valorosi uomini di tutte le forze dell'Ordine ma soprattutto in culo alla mafia»[3]


Questo, però, non è un articolo che parla di mafia. Questo, al contrario, è un articolo che parla di antimafia. Anzi, per essere precisi parla di mala-antimafia.

Rifiuti connection

La Basilicata, piccola regione del Sud Italia, presenta tutte le caratteristiche di una vera e propria bomba ecologica a cielo aperto, dove si nascondono pesanti eredita' ed interessi legati allo smaltimento dei rifiuti.
Rifiuti Connection di Pietro Dammarco, giornalista fondatore e coordinatore di Ola (Organizzazione Lucana Ambientalista www.olambientalista.it), 40 minuti per capire cosa succede sotto il sole della regione più dimenticata d'Italia.

Quando il boss è sotto stress: la camorra dei camici bianchi



Il “boom” si è registrato tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ma la camorra continua ad usare l'arma delle perizie psichiatriche per evitare il carcere o per delegittimare quei collaboratori di giustizia che decidono di passare dall'altra parte. In tutto questo, fondamentale è il ruolo dei periti, troppo spesso conniventi o non adeguatamente preparati a riconoscere il confine sottile tra la follia vera e quella simulata, dando così ai boss un grosso aiuto nella gestione dei propri affari. Da “I medici della camorra” un libro di Corrado De Rosa.

I medici della camorra”
 di Corrado De Rosa

(Castelvecchi editore, 288 pagg., 16 euro)

Ottaviano (Napoli) 1 aprile 1982 – Una Fiat 128 viene ritrovata in viale Elena, a pochi metri dal Municipio. Nel bagagliaio i carabinieri trovano un corpo, incaprettato e decapitato. La testa viene rinvenuta in una bacinella posta sul lato passeggero di quella stessa autovettura. È una testa “famosa”, quella. Appartiene al professor Aldo Semerari, tra i fondatori della criminologia italiana e con un passato politico che dalla corrente stalinista del PCI degli anni Cinquanta lo vede protagonista – precorrendo i tempi – degli ambienti dell'estrema destra, tanto da proporsi come catalizzatore di un movimento che riunisse le sigle politiche afferenti a quell'ideologia con tutta una serie di gruppi criminali – tra cui la Banda della Magliana – che avrebbero dovuto costituire l'esercito del movimento. 
Ma Aldo Semerari è anche altro. È stato professore ordinario all'Università romana “La Sapienza” e direttore dell'Istituto di Psicopatologia forense, è regolarmente iscritto alla Loggia P2 (del quale però non sembra esserci traccia tra i 962 nomi noti, ma sappiamo ormai che gli appartenenti alla loggia erano più di duemila) e negli anni si è occupato, come perito, di molti tra i più importanti casi giudiziari italiani, tra cui l'omicidio Pasolini ed i processi ad alcuni appartenenti al “clan dei Marsigliesi”.
Il suo corpo viene ritrovato davanti l'abitazione di Vincenzo Casillo, detto 'O Nirone per via della capigliatura corvina, imprenditore e appartenente alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, 'O professore, del quale cura gli interessi sul territorio quando questi è in carcere. Ma cosa c'entra uno dei più importanti psichiatri e criminologi italiani con la camorra?
Se questa storia fosse un film, l'attore principale sarebbe Robert De Niro, che infatti nel 1999 e nel 2002 veste i panni del boss Paul Vitti in “Terapia e pallottole” e “Un boss sotto stress” dopo aver vestito quelli del giovane Don Vito Corleone per Francis Ford Coppola nel 1974.
Sostituendo però ai nomi fittizi di Paul Vitti, di Ben Sobel (lo psichiatra – interpretato da Billy Crystal – che si occupa del boss nei due film) e Vito Corleone con quelli ben più reali del già citato Cutolo, di Umberto Ammaturo (tra i leader della Nuova Famiglia, il “cartello” camorristico nato negli anni Settanta per contrastare la NCO), di Michele Zaza detto 'O pazzo e conosciuto come il “Gianni Agnelli del Sud” [1] o di Giuseppe Setola, detto 'O cecato per via di un malattia alla retina che gli permette comunque di fare diciotto morti in pochi mesi, quello che ne viene fuori non è un film, ma la storia – vera – dei rapporti tra la criminalità organizzata e la psichiatria.