Biologia del dominio: sullo stupro correttivo e la violenza istituzionale


La donna che vedete nella foto si chiama Millicent Gaika. La sua storia l'abbiamo conosciuta in quest'ultimo periodo in rete: qualche settimana fa, infatti, Millicent è stata vittima di uno stupro cosiddetto “correttivo”, una pratica con la quale gli uomini tentano di “correggere” la “devianza” delle ragazze e delle donne lesbiche. Il suo “correttore”, Andile Ngoza, durante la violenza le ripeteva frasi come «so che sei lesbica. Non sei un uomo, pensi di esserlo, ma ora ti faccio vedere che sei una donna». Arrestato, è stato rilasciato su cauzione – l'equivalente di 10 dollari – e adesso è a piede libero. Niente di stupefacente, comunque, se si considera che il Sud Africa ha deciso di affidare le chiavi del potere nazionale a Jacob Gedleylhlekisa Zuma, uno dei principali esponenti del movimento anti-apartheid sul quale pendeva fino a non molto tempo fa l'accusa di aver “corretto” la figlia lesbica di un suo amico. Il processo che l'ha scagionato – c'è da scommetterlo – farebbe dubitare della propria posizione anche il più fervente difensore dei giudici che tanto di moda sembrano andare in questa fase storica del nostro paese. Ma questa è un'altra storia...

Nonostante la “rainbow nation” sia stata inneggiata per la lotta contro le discriminazioni (tanto da essere stato il primo paese al mondo ad inserire nella propria carta costituzionale – art. 1, paragrafo b) - il reato di discriminazione su base sessuale la realtà oggi è ben diversa, tanto che quella degli stupri correttivi sta diventando una vera e propria piaga sociale. Dal luglio 2007, data del primo caso noto - sono trentuno gli stupri correttivi denunciati, ventiquattro dei quali conclusi con l'uccisione della vittima. Il caso più conosciuto a livello internazionale è sicuramente stato quello di Eudy Simelane, la “stella” della nazionale femminile di calcio, trovata seminuda ed uccisa con venticinque coltellate all'alba del 28 aprile 2008.
Nonostante il lavoro delle organizzazioni locali, però, le grandi ong che si ergono all'”universale” difesa dei diritti umani, né i media mainstream né i governi “democraticamente umani” dell'Occidente sembrano interessarsi al problema o, quanto meno, sembrano identificarlo come meno rilevante rispetto a diritti umani più “spendibili” in termini di regime change (il caso Sakineh-Iran di qualche mese fa – peraltro completamente rimosso dai media occidentali – riecheggia ancora nelle orecchie di molti...). Tale mancanza potrebbe avere due chiavi di lettura: o l'incuria derivante dalla mancanza di interessi “strategici” - economici e/o neo-coloniali (l'affaire Libia insegna) - dell'Occidente in Sud Africa oppure, semplicemente, il fatto che né la cara vecchia Europa né gli Stati Uniti d'America – culla di civiltà e democrazia – possano ergersi a “moralizzatrici” dato che anche da noi il fenomeno omofobico sta diventando sempre più preoccupante.

Sporchi di cioccolato

Arrivano spesso dal Mali, dove vengono acquistati da intermediari che poi – una volta oltrepassato il confine con la Costa d'Avorio – li rivendono per l'equivalente di poche centinaia di euro ai proprietari delle piantagioni di cacao, dove i bambini vengono schiavizzati finché non ripagano un debito che non hanno chiesto di contrarre. Sono loro, bambini di età compresa tra i cinque ed i quindici anni, il gradino inferiore nella scala dello sfruttamento mondiale del mercato del cacao, un mercato dove neanche l'”equo-solidale” sembra essere davvero equo.

Nell'aprile dello scorso anno l'ong canadese Greenpeace fece partire una campagna-shock (denominata “Kit Kat Killer”) contro la multinazionale svizzera Nestlé – la più grande azienda alimentare del mondo – accusata di utilizzare olio di palma proveniente dalla distruzione delle foreste torbiere indonesiane da parte del gruppo Sinar Mas. Questo il video che accompagnava la campagna:

La stessa dinamica di questo video – così come lo stesso obiettivo, la Nestlé – potrebbe essere utilizzata per un'altra, fondamentale, campagna. Quella contro lo sfruttamento del lavoro minorile nelle piantagioni di cacao in Africa, in particolare in Costa d'Avorio, che ne è il principale produttore mondiale (insieme al Ghana copre circa il 60% della richiesta mondiale). «Non sono come i meninos de rua dell'America Latina, che non hanno legami» - dice Alfonso Gonzales, ex direttore di “Terre des Hommes” - «qui dietro un bambino c'è sempre un adulto che li manda per strada a mendicare o a vendere».

Snodo del traffico di esseri umani che interessa il continente africano è il Sahara, dove si incrociano strade e destini dei piccoli maliani venduti in Benin, in Costa d'Avorio o in Ghana e quelle di nigeriani e camerunensi che vanno a lavorare in Libia o in Tunisia prima di tentare il viaggio della speranza nel Mediterraneo.
Sono circa 1,2 milioni i minori che – stando ai dati dell'organizzazione “Save The Children” - ogni anno vengono comprati per essere sfruttati nel mercato della prostituzione (le ragazze) o destinati a lavori più fisici – in particolare nel settore agricolo – i maschi. 5,7 invece, sono i milioni di bambini costretti al lavoro forzato.
A paesi come India, Cina – che guidano la speciale classifica – o Stati Uniti, lo scorso dicembre il Dipartimento del Lavoro americano ne ha dovuti aggiungere ben dodici alla lunga lista dei settanta che ad oggi sfruttano il lavoro minorile: Angola, Repubblica Centroafricana, El Salvador, Etiopia, Lesotho, Madagascar, Mozambico, Namibia, Rwanda, Zambia e Zimbabwe, per un totale di 215 milioni di minori. In alcuni paesi, come la stessa India o il Pakistan, il compito di chi combatte lo sfruttamento minorile è ancora più arduo, dato che questi paesi – non disponendo di una legislazione che fissi l'età minima per andare a lavorare – di fatto non considerano il lavoro minorile come “sfruttamento”.

Particolarmente importante è il lavoro che il Dipartimento e molte organizzazioni umanitarie stanno facendo nell'ambito dello sfruttamento minorile nelle piantagioni di cacao.

High School Jihad

I reclutatori in questo campo profughi afghano non aspettano che i bambini si diplomino prima di inviarli al fronte

Questo articolo è comparso su Newsweek con il titolo "The Jihadi High School" il 2 maggio 2011. La firma è di Ron Moreau

Il giovane afghano odia la sua nuova scuola nella città pakistana di Peshawar. «I miei compagni di classe parlano solo di ragazze e film» si lamenta.
Un alto, magro diciassettenne con la barba appena accennata che provava nostalgia per la vecchia scuola che frequentava a poche miglia di distanza nel campo profughi afghano conosciuto come Shamshatoo.
Suo padre lo ha tirato fuori da lì lo scorso autunno, dopo aver tardivamente scoperto che la scuola era effettivamente un centro di reclutamento degli insorti. Chiedendo di essere chiamato Wahid Khan, il ragazzo ricorda con piacere le assemblee del mattino in cui gli insegnanti lodavano la bellezza della jihad e raccontavano la lunga storia di resistenza dell'Afghanistan agli occupanti stranieri. Lui ricorda i messaggi scarabocchiati sulla lavagna delle classi superiori: “Per unirsi alla Jihad, l'Ordine di Allah Onnipotente, chiama questo numero” eQuelli che vogliono ripagare il debito con Dio, prendano questo numero”.
Quando finì la scuola lo scorso giugno il ragazzo ha colto al volo l'invito ed ha trascorso gran parte dell'estate in un campo di addestramento degli insorti in Afghanistan. Aveva appena finito la classe decima. Suo padre, un ex insegnante di Kabul, si batte per dar da mangiare alla propria famiglia con non più di cento dollari al mese, facendo un lavoro massacrante in un forno vicino Peshawar. Vuol dare a suo figlio una vita migliore. Ma il ragazzo ha altre idee. Non appena quest'anno scolastico finirà sta progettando di tornare in Afghanistan per completare l'addestramento per la guerra contro gli americani. «I miei genitori vivono solo per sopravvivere» dice. «Il mio obiettivo è una vita onorabile agli occhi di Dio – e questo significa jihad».

Centinaia di ragazzi come Khan si sono uniti agli insorti di Shamshatoo negli ultimi anni, e con il ritorno della primavera, forze fresche sono pronte ad attraversare ancora una volta il confine con il Pakistan. «La ragione per cui Dio ha portato la nostra famiglia a Shamshatoo era che voleva che diventassi uno jihaidista», dice un altro residente del campo, un ventenne dai capelli selvaggi e le spalle larghe che si fa chiamare Waliullah. Aveva l'abitudine di scrivere appassionate poesie d'amore, ed il suo sogno era quello di ottenere un master in letteratura Pashto. Ma la sua famiglia si è trasferita a Shamshatoo cinque anni fa, quando lui aveva quindici anni, ed ora si sta preparando per partire per la sua terza estate di combattimenti contro gli americani in Afghanistan.

Sulla tortura. Processo alla civiltà democratica


«Venganza». «Vendetta». È questa la definizione - più o meno - condivisa nel dibattito spagnolo in merito all'"affaire Bin Laden". È stata la mossa migliore eliminarlo dopo averlo a lungo cercato (operazioni "Search&Destroy" si chiamano in gergo) o forse sarebbe stato meglio - nell'ottica europea, patria dei "diritti umani universali" - prenderlo vivo e processarlo dinanzi alla Corte di Giustizia de L'Aja?
Nel dibattito mondiale le domande sull'operazione che ha portato al supposto (dato che non sono ancora state divulgate prove effettivamente valide) omicidio dello sceicco del terrore è in pieno svolgimento. A rinfocolare un dibattito ancora nel vivo ci hanno pensato le ultime rivelazioni dei media, che ormai danno per certo che tutto sia partito dalle confessioni - estorte con la tortura - di un detenuto "di lusso" di Guantánamo Bay: Khaled Sheik Mohammed, considerato la mente degli attacchi aerei dell'11 settembre.

Prima di addentrarci nello specifico, però, è opportuno ricordare che il Khaled Sheik Mohammed è la stessa persona arrestata in Pakistan nel 2003 e soggiornante presso il "carcere" di Guantánamo dal 2006, peraltro in stato di assoluto isolamento. Come è possibile, dunque, che una persona esclusa dalle dinamiche quaediste da cinque anni in territorio cubano-statunitense conosca quel che avviene in Pakistan, non esattamente dietro l'angolo? Qui esistono - a mio modo di vedere - tre ipotesi fattibili: a) Osama Bin Laden è da anni in Pakistan (ed a questo punto si potrebbe discutere se i governi di Pervez Musharraf e di Yousaf Raza Gillani succedutisi in questo decennio ne fossero al corrente o meno); b) l'isolamento di Guantánamo non è poi così "isolato" e dunque le notizie nel network quaedista circolano tranquillamente anche tra i detenuti; c) quella della confessione è una notizia farlocca venduta ai giornalisti per chiudere la faccenda.

Quel che comunque fa discutere in America ed in Gran Bretagna - dove ormai da anni ci si interroga sui risvolti etici e morali dei conflitti - è se sia stato giusto o meno utilizzare metodi di tortura per estorcere le informazioni che hanno portato all'eliminazione del nemico pubblico numero uno. Insomma, la questione è delle più classiche: il fine giustifica i mezzi?

The clash of Libylization

Il conflitto libico è scoppiato. Dopo i Balcani agli inizi degli anni Novanta, dopo l'Afghanistan, dopo l'Iraq, il "club dei diritti umani" ha deciso di creare una democrazia anche in Libia, spodestando - dopo più di quarant'anni - un leader politico fino a poche settimane fa invitato a tutti i tavoli importanti dell'Occidente. Ci sono in ballo, però, le concessioni petrolifere, i fondi sovrani e - soprattutto - la sovranità nazionale di un popolo, calpestata senza troppe remore da quel mondo "bello, buono, giusto e bombarolo" che ci ostiniamo a chiamare "democrazia".
L'uccisione di Osama Bin Laden – al di là di tutte le più o meno interessanti discussioni che ne stanno venendo fuori – dovrebbe averci insegnato una cosa. Una cosa che in realtà avremmo dovuto imparare già da tempo, cioè che parole come “diritti umani”, “democrazia”, “libertà”, “giustizia” sono, appunto, parole. E tali rimangono. Così come avrebbe dovuto insegnarci che non esistono “interventi umanitari” ed organizzazioni che tali scopi perseguono. Perché se davvero quelle parole avessero un valore, a quest'ora lo sceicco del terrore sarebbe davanti ad una corte internazionale così come qualche anno fa toccò a Slobodan Milošević. Così come dovrebbe accadere – seguendo questo stesso metro di pensiero – all'ex dittatore libico Mu'ammar al-Gaddafi.

Invece niente di tutto questo. I “giusti e democratici” occidentali hanno deciso che neanche le immagini dell'omicidio devono essere rese pubbliche perché considerate “troppo crude”. Come se certi film hollywoodiani non fossero anche peggio.
A voler essere pignoli non sono stati proprio gli occidentali a decidere, o per lo meno non tutti. Perché gli Stati Uniti del Premio Nobel per la Pace Barack Obama – premio che evidentemente o è privo di valore o dovrebbe subire procedimento di revoca immediata – hanno deciso che quelle immagini non dovranno essere di dominio pubblico per evitare “problemi di sicurezza interna”. Come possa poi una semplice immagine di un uomo morto scatenare una guerra – neanche fosse una bandiera o un fondo sovrano – non ci è dato sapere...

È come essere entrati in una nuova fase della politica internazionale. Una politica “fantasma” nella quale si assiste ad una grande discussione globale, ma dalla quale non esce uno straccio di prova. Non sappiamo se lo sceicco del terrore sia effettivamente stato ucciso, con quali modalità né conosciamo realmente tempo e luogo di tale assassinio.
Così come non abbiamo prove oggettive – la famosa “pistola fumante” - per acconsentire all'ennesima invasione occidentale. Siamo pronti a mandare mezzi, uomini e a sprecare denaro pubblico dietro a genocidi farlocchi e bombardamenti che sterminano decine di migliaia di persone alla volta presentatici solo oralmente. Ci sarebbero le cosiddette “fosse comuni”, pistola fumante della medesima consistenza delle “prove” presentate da Colin Powell – Segretario di Stato durante la creazione del conflitto iracheno – dinanzi al Consiglio di Sicurezza dell'Onu ed al mondo intero, se non fosse che quelle fasulle fosse comuni riprese da tutti i media mainstream si sono poi trasformate in un cimitero di Tripoli tutt'altro che fasullo.

Inside the narcotráfico


Continua il viaggio di Señor Babylon all'interno del narcotraffico internazionale e della guerra che si sta combattendo in Messico tra i cartelli della droga (quali sono i principali lo abbiamo visto nel post "Messico-Italia. Sulla rotta dei narcos tra canzoni e cocaina") e l'esercito. Con una serie di documentari - per lo più in spagnolo ed inglese - partendo dalla cittadina di Reynosa andremo a vedere come si stanno organizzando i cittadini - alle prese con fenomeni di sparizioni simili a quelle dell'Argentina di Videla - passando per il lavoro delle polizie nel vecchio continente, là dove la tratta sudamericana e quella africana si incontrano.
Aggiungetegli il prefisso "narco", chiamatela "lotta tra cartelli" o come vi pare: quello che succede per le strade di Reynosa - cittadina messicana dello stato di Tamaulipas, al confine con gli Stati Uniti - è una vera e proprio guerra. Da un lato l'esercito "regolare", fatto di gente in divisa che, al di là dell'alta percentuale di corruzione, tenta di evitare che il Messico si trasformi nell'ennesimo "narco-stato"; dall'altro c'è l'esercito dei cartelli della droga.
Come in tutte le guerre anche in questa ci sono i morti, i feriti e gli scomparsi. Esattamente come succede in Iraq o in Afghanistan. Ma se ogni tanto i media europei si occupano di questi due paesi, è quasi impossibile trovare notizie riguardanti il Messico, nonostante il paese stia diventando la principale fonte da cui la criminalità organizzata europea ('ndrangheta in particolare) compra la droga che poi mette in circolazione per le strade del Vecchio Continente.
È una guerra che, evidentemente, non interessa neanche agli Stati Uniti, che trovano nei cartelli messicani - come vedremo - un interlocutore importante per quanto riguarda non solo il traffico di droga, ma anche per quanto riguarda il traffico di armi.

«Il mondo è oggi più sicuro» ha detto il Presidente Barack Obama in riferimento all'omicidio di Osama Bin Laden, che con la sua morte sembra aver conseguito un'altra vittoria fondamentale contro il c.d."Occidente democratico": far capire ai popoli che quelli che tanto decantiamo come "universali" diritti umani altro non sono che uno dei tanti strumenti di cui le grandi potenze mondiali dispongono per tutelare la loro grandezza. Perché come sempre più sta venendo fuori nel dibattito internazionale - un dibattito che non scalfisce minimamente l'Italia, che ancora una volta dimostra di non avere la caratura necessaria per appartenere ad alcuna "comunità internazionale" - quella nei confronti dello sceicco del terrore è una vera e propria vendetta, nonostante il "nostro" mondo utilizzi quotidianamente termini come "giustizia" e, appunto, "diritti umani universali". La domanda che ci si sta ponendo è se si possa in qualche modo "abdicare" alle "leggi di giustizia" di fronte ad un terrorista. Persino a Norimberga si è fatto un processo. Ma questa è un'altra storia...

In realtà - io credo - il mondo non è né più né meno sicuro di quanto non lo fosse una settimana fa, semplicemente perché i "grandi terroristi" come le industrie di armi ed i suoi trafficanti, i cartelli della droga o la grande industria farmaceutica (la c.d. "Big Pharma") rimangono tranquillamente al proprio posto, senza che nessuno osi scalfirne il potere dichiarandogli guerra.
Anzi, molto spesso sono proprio queste a rendere "grande" un paese. Basti pensare - tornando un po' indietro con la memoria storica - allo scandalo "Iran-Contras" del 1985.

In memory of Osama Bin Laden...delle parole e del mistero della foto falsa


Osama Bin Laden è stato ucciso. Lo ha annunciato in conferenza stampa il Presidente Barack Obama. Ma la morte dello "sceicco del terrore" e capo del network terroristico di Al Quaeda in circa dieci anni di conflitto è stata annunciata già troppe volte per essere presa come notizia "indiscutibile". Infatti, anche questa volta...
Quella qui sopra è la foto che "ufficializza" la notizia: Osama Bin Laden - lo "sceicco del terrore" - è morto. C'è addirittura l'intervento del Presidente Barack Obama a rendere ancor più vera la notizia. Ma è davvero così? Bin Laden è davvero morto questa volta?

A voler essere onesti, ormai dovremmo aver perso il conto di tutte le volte in cui hanno annunciato la morte dello sceicco ma, come - giustamente - potrebbe obiettare qualcuno, questa volta c'è una prova inconfutabile: un'immagine.
E qui il primo "scoop": la fonte è Maso Notarianni (dunque PeaceReporter, "circuito" Emergency e per questo una fonte "al di sopra di ogni sospetto"...più o meno) - che ci racconta che quella foto è un falso. Palese.
Il file sarebbe stato salvato - dal sito "unconfirmedsources"- come "20060923-torturedosama.jpg" e dunque risalirebbe addirittura al 23 settembre del 2006. Se questo è vero, se - cioè - questa fotografia risale al 2006, torna in auge in tutt'altra ottica quanto sosteneva nel 2007 l'ex Primo Ministro pakistano Benazir Bhutto:
secondo la quale, appunto, lo sceicco sarebbe stato assassinato ben prima della sua cattura ad Abbotabad, nella zona nord del Pakistan, annunciata nelle scorse ore.
Delle due l'una: o Maso Notarianni ha preso una cantonata - rimettendo dunque in discussione la "credibilità" di una fonte come PeaceReporter e, dunque, di tutto il "circuito mediatico" di Emergency - oppure gli americani, coadiuvati dai media mainstream, ci stanno raccontando l'ennesima menzogna.

Poi c'è quel salvataggio: "torturedosama". Anche chi con l'inglese ci litiga da sempre arriva facilmente a capire cosa significhino quelle due parole: "Osama torturato". "Da chi?", "Quando?", "Dove?" mi sembrano le domande minime da dover fare in questo caso. Perché se "Osama è stato torturato" allora ci dovrà essere per forza un torturatore, ed altrettanto naturalmente ci saranno stati un tempo ed un luogo in cui tali torture sono state perpetrate. Abbozzare delle risposte - che comunque non troverebbero conferma - su tempi e luoghi è inutile. Un po' meno probabilmente è tentare di dare risposte sulla paternità delle (eventuali) torture. Chi avrebbe - il condizionale è d'obbligo - torturato lo sceicco del terrore? Gli americani, che dunque lo avrebbero già in consegna da anni ed userebbero dei "fake", dei fantocci per perpetrare l'occupazione del suolo afghano (e non sarà certo questa foto a far tornare a casa le truppe, dato che la "guerra al terrore" e l'occupazione sono due cose separate...)?