Identità, cittadinanza e seconde generazioni: "L'Italia agli italiani". Sì, ma quali?



«Io non sono un immigrato, sono figlio di persone coraggiose che hanno deciso di lasciare il loro Paese in cerca di un futuro migliore.
Io sono un bambino, non sono l’interprete della scuola, dell’ospedale, dell’ufficio vaccinazioni. Voglio giocare e non perdermi la ricreazione.
Io sono stato istruito in un’altra scuola, non sono ignorante se non conosco la storia degli antichi romani e quanto è lungo il Po.
Io sono amato, non sono stato abbandonato dai miei genitori che per alcuni anni non hanno potuto tenermi con loro e con molto dispiacere mi hanno affidato ai nonni.Io sono trilingue, parlo italiano, filippino e ilocano. Tu, quante lingue parli?
Io non sono un cinesino, sono un bambino cinese.
Io sono nato in Italia, sono italiano, non sono nato nel Paese dei miei genitori e non ci sono neanche mai andato perché costa troppo.
Io non sono integralista, sono di religione musulmana.
Io sono un cittadino non comunitario, come gli americani, gli svizzeri, i giapponesi, non sono un extracomunitario e neanche un extraterrestre.
Io non sono né adattabile, né smemorato. Penso spesso ai miei cugini, ai miei amici e ai miei parenti e ho molta nostalgia di tutto quello che ho lasciato.
Io sbaglio le doppie, non sono sbagliato.
Io non sono nomade , sono nato e cresciuto al campo di via Triboniano. È brutto, ma è la mia casa.
Io sono un lettore veloce, leggo 3000 caratteri, non sono un analfabeta da alfabetizzare.
Io non sono clandestino, sono nel permesso di soggiorno scaduto di mio padre che lavora in nero e fa il panettiere di notte.
Io sono un nuovo cittadino dell’Italia, ma la Padania dov’è?
Io non sono figlio di coppia mista, sono figlio di mio padre e di mia madre.
Io non ho la musica nel sangue, sono stonato e non sono veloce come una gazzella.
Io sono un bambino che ama due cose, il cous cous e la cotoletta.»
[Arcangela Mastromarco, Docente Referente Polo StarT 1 ICS Casa del Sole Via Giacosa, 46 Milano]


Raccontare per immagini. Nel paese in cui si perde sempre più la capacità di comprensione di testi scritti – tanto da far gridare al “pericolo imminente” un addetto ai lavori come Tullio De Mauro – forse usare le immagini (si pensi, ad esempio, a quello che si sta tentando di fare con il graphic-journalism) diventa l'unico viatico per informare le persone su cose che non hanno a che fare con reality-show, quiz a premi et similia.

Una delle cose che, probabilmente, meglio si può raccontare per immagini riguarda tutto ciò che è legato alla sfera migratoria. Basterebbero due semplici immagini per spiegare più o meno un secolo di storia (quanto meno di storia delle migrazioni).
La prima, in bianco e nero, vedrebbe il vecchio emigrante di inizi Novecento: valigia di cartone e biglietto per un futuro migliore in tasca; la seconda, quella della nuova migrazione, vedrebbe una giovane (o un giovane, qui le questioni di genere non sono rilevanti) con un permesso di soggiorno in mano. Naturalmente, dal bianco e nero, si passa ad una foto a colori. Tanti colori, più o meno tanti quante sono le comunità migrate oggi in Italia.

Perché che la ruota gira è una frase fatta, e che un giorno ti puoi ritrovare in una situazione e il giorno dopo ti ritrovi nella situazione diametralmente opposta pure, ma è esattamente quel che è successo all'Italia, che nel giro di poco più di un secolo si è trovata da paese emigrante a paese immigrante. Da paese che lasciava andare i propri figli in giro per il mondo in cerca di fortuna a paese che si ritrova a dover fare i conti con i figli di quel mondo che nel nostro paese o cercano quel futuro migliore che “a casa loro” (espressione quantomai discutibile, ma su questo ci tornerò in seguito...) non gli è consentito o – come dice Yonas Tesfamichael nel video che vi propongo in apertura di post – vedono solo un passaggio obbligato verso altri lidi.

«Come arrivarono a Roma, tutti sfiancati, affamati, coi piedi per terra, peggio degli zingari, li buttarono insieme all'altri sfollati a una scuola della Maranella, la scuola Michelazzi, che poi, dopo il fascismo, fu chiamata Pisacane». Scuola elementare “Carlo Pisacane”. Nel 1975 ne scriveva Pier Paolo Pasolini in “Una vita violenta”, qualche tempo fa ne hanno scritto un po' tutti i giornali per un episodio particolare. Nel 2009 infatti ci fu la proposta di cambiarne il nome: da “Carlo Pisacane” a “Tsunesaburo Makiguchi”. Considerando che – cercandola su internet – risulta ancora con il nome con cui la conosceva Pasolini presumo che il cambio alla fine non ci sia stato, ma la questione centrale non è questa. La scuola, infatti, è ormai da anni al centro del dibattito (e delle polemiche) per la netta predominanza di bambini di origine straniera rispetto ai bambini “di pura razza” italiana. Effetti del multiculturalismo dice qualcuno.
Ma siamo davvero di fronte ad un caso di multiculturalismo? E dire “di origine straniera” equivale a dire “straniera”?
Sgombriamo innanzitutto il campo da un errore squisitamente semantico: definire una società “multiculturale” non vuol dire assolutamente niente, quantomeno se si usa questo termine legandolo al concentto di integrazione. Una società multi-culturale, infatti, è una società al cui interno si ha la presenza di più culture, quindi se ne rappresenta esclusivamente l'aspetto quantitativo, ma niente se ne dice in merito ai rapporti che intercorrono tra loro. Da qui ad arrivare ad una società che integri le culture in essa presenti (quindi una società inter-culturale), dunque, ce ne passa.
Torniamo però alla domanda di qualche riga fa: avere origine straniera equivale ad essere stranieri? Prendiamo un caso qualsiasi di un giovane (anche qui uso il termine senza tener conto delle questioni di genere) nato in Italia da genitori stranieri. Possiamo definirlo straniero? Ovviamente le sue origini non saranno italiane, ma come considerarlo allora: straniero, italiano o cosa?

La miglior definizione, per adesso, ce la dà Amir Issaa, rapper romano che in “Straniero nella mia nazione” scrive: «S.o.s. Bilancio negativo se me chiamano straniero nel posto dove vivo/S.o.s. Pronto all'esecuzione se me chiamano straniero nella mia nazione/S.o.s. Bilancio negativo se me chiamano straniero mi giro e gli sorrido/S.o.s. Pronto all'esecuzione se me fanno sentì uno straniero nella mia nazione».
Questa del sentirsi “straniero nella propria nazione” è una forma di disagio che colpisce moltissimi giovani, circa 900.000 (con una tendenza all'incremento del 20% annuo) tra ragazze e ragazzi che, nate e nati sul nostro territorio non possono definirsi italiani. Dura lex, sed lex dicevano i latini. Questi ragazzi infatti – arrivati da piccoli o nati qua ma comunque cresciuti in Italia – non hanno lanciato una nuova moda ma rispettano semplicemente quello che la legge attualmente in vigore sostiene. E la legge in questione è la numero 91 del 1992 che – riformando la legge del 1912 – si preoccupò quasi esclusivamente della parte legata all'emigrazione che non di quella relativa alla voce immigratoria. Sicuramente una riforma poco lungimirante contestualizzata comunque in un paese che vede governi formarsi e cadere nel giro di (al massimo) tre anni, tempo esiguo per programmare alcunché, in particolare quando anche il Legislatore ha le idee poco chiare sulla questione e la classe politica si trincera dietro anacronistiche prese di posizione puramente ideologiche.
Tutto questo, naturalmente, si riversa sulle spalle di migliaia di giovani che si ritrovano in una situazione paradossale: essere cittadini italiani nella sostanza ma non nella forma. Cittadini italiani che, fino ai diciotto anni di età, devono barcamenarsi tra permessi di soggiorno e passaggi burocratici inutili e spesso farraginosi. È questa la condizione che vivono i ragazzi della cosiddetta “seconda generazione” (di immigrazione e non di immigrati come erroneamente si crede), ragazze e ragazzi che non hanno alcuna differenza con me – cittadino italiano e di origine italiana – se non per una legge che fino a qualche tempo fa era considerata troppo poco rilevante per essere presa in considerazione.


Ius sanguinis e ius soli.
Il destino degli “italiani col permesso di soggiorno” sta tutto in queste due parole.
Il principio dello ius sanguinis, tipico di un paese in cui forte era la fase emigratoria, entra a far parte dell'ordinamento giuridico dal tempo in cui l'italia “s'aveva da fare”, ripreso poi sia nel 1912 che un'ottantina di anni dopo. Deriva da una concezione nazionalistica “pura” (o forse sarebbe meglio dire etnocentrica) del concetto di cittadinanza, nella quale – de facto – si legano i destini della discendenza degli emigrati alla terra di origine (è questo il principio che permette – ad esempio – a molti sportivi non nati in Italia di vestire la maglia delle nostre nazionali) in quanto si può far richiesta di cittadinanza a patto che nelle proprie vene scorra anche solo una goccia di sangue “autoctono” del paese verso cui si fa richiesta. Al contrario, il principio dello ius soli afferma che la cittadinanza di un paese si ottiene o se si nasce sul territorio o se si vive per un determinato periodo di tempo nel paese verso cui si fa richiesta.

Con l'applicazione dello ius sanguinis può avvenire – ed avviene più o meno quotidianamente – che un ragazzo nato da genitori non italiani, indipendentemente se sia nato in Italia o se ci sia arrivato da piccolo, cresciuto in questo paese e dunque indistinguibile da un “purosangue” italiano debba sentirsi dire di tornare “a casa sua” (intendendo per “sua” quella dei propri genitori) pur conoscendo poco o per niente il paese di origine. Attualmente lo ius soli si applica esclusivamente ai figli di ignoti, di apolidi (cioè di coloro che sono privi di cittadinanza) o a chi non segue la cittadinanza dei genitori.
Se invece nasci qua, cresci qua e – dunque – sei italiano a tutti gli effetti, devi aspettare il tuo diciottesimo compleanno e presentare la domanda per ottenere la tua cittadinanza, come un normale cittadino non italiano arrivato qui in un secondo momento. Se fosse finita qui, se dunque fosse solo una questione temporale, la questione sarebbe comunque di semplice soluzione (eufemismo...), ma si sa che l'Italia è il paese in cui si complicano le cose semplici, e dunque – dice la legge – in questi diciotto anni di attesa non puoi risiedere anche solo per qualche mese in un altro Stato. Se ciò avvenisse, infatti, si perderebbe il diritto alla cittadinanza.
Capite bene che questo è un discorso che, oltre a rasentare il ridicolo, evidenzia ancora una volta la discrasia tra la società “reale” e quella disegnata da burocrati e legislatori vari.

A questo punto è necessario ragionare sul ruolo che il passato ha per l'attualità italiana: passare dallo ius sanguinis allo ius soli sarebbe la cosa più semplice del mondo, se ammettessimo che è diventato anacronistico considerare i processi migratori in chiave colonizzatrice, cioè dando per assodato che – oggi – non siamo più “esportatori della pura razza italiana”, considerando dunque l'ottenimento della cittadinanza sotto la chiave lignatica. Ed a questo punto si potrebbe (o forse dovrebbe) aprire il dibattito sull'influenza che gli italiani emigrati debbano avere sulla quotidianità del paese che hanno lasciato. Pensiamo al diritto di voto (questione che peraltro si lega a doppio filo anche con i “nuovi” italiani): è giusto che i c.d. “italiani all'estero”, che magari hanno rapporti sporadici con il loro paese di origine, debbano continuare ad avere questo diritto? Ha davvero così senso che persone che vivono un'altra quotidianità debbano avere influenza – tramite l'espressione del voto – sulla sfera decisoria di un altro paese?
Sarebbe più opportuno – ed anche più sensato, io credo – che il diritto di voto fosse legato al permanere su di un territorio: voti per il paese in cui vivi. Avrebbe anche più senso in termini di “effetti diretti”: se io, cittadino italiano, lascio definitivamente (o quantomeno per un tempo relativamente lungo) il mio paese di origine non subirò gli effetti delle politiche che in quella sede verranno attuate ma subirò direttamente quelle del paese in cui mi trasferisco. Dunque perché dovrei incidere con il mio voto sul primo paese ma subire le conseguenze del secondo?

Veniamo così al nocciolo della questione: il concetto di “identità” e, nello specifico, il senso che un concetto come “identità nazionale” ha in una società globale e sempre più globalizzata.
Ribadire come questi due concetti siano in stretta correlazione è ribadire un'ovvietà. Storicamente questi si legano nella e con la formazione dello Stato-nazione, dove forte era l'idea di difesa dei propri confini, sia quelli fisico-geografici - inventati proprio per dare senso al concetto di Stato nazionale - che quelli identitari e dove niente si voleva avere a che fare con soggetti “altri” (e dunque “stranieri”, “estranei”) se non in chiave di sottomissione – ed annessione – alla propria sfera di influenza politico-culturale e, dunque, identitaria. In questo modo, però, definiremmo l'identità come un concetto statico e – in termini antropologici - “naturale”. Ma sappiamo che così non è.
Innanzitutto perché l'identità è un processo “in fieri”, un processo dinamico che muta nel tempo al mutare delle condizioni di partenza dalle quali prende le mosse, ovvero la società nella quale si forma. Da ciò si dovrebbe facilmente dedurre, in ultima analisi, come l'identità altro non sia che un fenomeno squisitamente culturale: l'io individuale (cioè l'identità individuale) non si ottiene preconfezionata alla nascita, ma si forma nel e attraverso il rapporto individuo-comunità, cioè nel rapporto tra identità singola e identità collettiva (e, dunque, anche nazionale) e, dunque, nel rapporto tra l'individuo ed un indefinito “altro”.
È con questa chiave di lettura che appare completamente velleitaria – per non dire comica – la strenua difesa della cosiddetta “italianità”, che rappresenta una declinazione statica ed a-culturale del concetto e dove quel “tutti a casa loro” divenuto ormai uno degli slogan più conosciuti del nostro immaginario ci pone di fronte alla domanda di quale “casa” si intenda...

Per certi versi il nostro modo, quanto meno negli aspetti burocratici, di intendere l'identità – e dunque la cittadinanza – è anche romantico: il definire la propria identità dalla provenienza genealogica è una modalità che ha avuto sempre un florido mercato. Ma, sotto questo aspetto, bisogna considerare se abbia ancora senso parlare di una cittadinanza tout court o se, più pragmaticamente, non sia il caso di adottare una visione “civica” della cittadinanza, cioè una visione che leghi il concetto ad una forma di partecipazione al destino della comunità in cui si vive.
In questo modo, peraltro, si eliminerebbero (o quanto meno se ne avrebbe un evidente decremento) i problemi legati all'integrazione, dove però bisognerebbe chiedersi se il “pacchetto” di valori che offriamo (e che, peraltro, non sempre rispettiamo: basti guardare alla discussione sull'inclusione dei musulmani in una società che gli imporrebbe il rispetto della parità uomo-donna alla luce delle sacche di resistenza maschiliste che ancora pervadono lo stivale) sia davvero migliore di quello che potrebbero portare i migranti. Ma questa è un'altra storia...

Dal luglio 2009 in Parlamento è stata presentata una proposta di legge (Andrea Sarubbi del PD e Fabio Granata di Futuro e Libertà i primi firmatari) che nell'intento dei proponenti (tra cui esponenti di tutte le forze politiche tranne la Lega) dovrebbe modificare la legge del 1992.
L'Italia – almeno quella burocratico-politica – è nuovamente in ritardo. Persino la Grecia, che di ben altri problemi potrebbe occuparsi in via esclusiva, ha trovato tempi e modi per definire chi è greco e come lo si diventa. Il nostro ritardo però, lo abbiamo visto, non è un ritardo esclusivamente legislativo. Per questo la legge deve essere ripresa il prima possibile. Perché in un paese che pretende di essere “civile” ed “evoluto” non si possono avere cittadini di serie A e (non)cittadini di serie B.
E poi, se un esperto come Luciano Canfora sostiene che Atene e Sparta decaddero «per un uso geloso e miope che esse fecero della cittadinanza» sarà forse il caso di correre ai ripari?

È per questo, infine, che non ha senso cercare una società multi-culturale (che, benché possa suonare “politically correct”, non prevede forma alcuna di integrazione) che dunque legittimerebbe un dispositivo di non-integrazione. È più giusto, a mio avviso, cercare una società inter-culturale. Se poi, ragionando in via utopistica, volessimo raggiungere una società trans-culturale (vi rimando a questo breve ed interessante articolo di Laura Tussi per le sfumature: http://www.improntalaquila.org/2010/04/27/articolo4946/) non potremmo che guadagnarne.