... non un attimo folle d'una vittoria razzista.

 
qui il video per i lettori di Facebook e ReportOnLine: http://www.youtube.com/watch?v=qypNDvEz_yI

Dice che in realtà sono stati assaltati. Dice che hanno dovuto “rispondere al fuoco”, nonostante le stesse fonti sioniste si contraddicano parlando di “presenza a bordo di armi da taglio”. Panzane, per non dire peggio.
Il leit-motiv lo conosciamo ormai da decenni: un attacco israeliano camuffato da “risposta”. Succede quotidianamente con i Palestinesi, il popolo che – per una qualche becera vendetta con la Storia – è costretto a subire trattamenti peggiori di quelli che il popolo della Stella di David subirono nei campi di concentramento, e che ancora oggi gli valgono una sorta di impunità – politica e storica – verso le nefandezze dell’attuale Esecutivo. 
Succede quotidianamente ed è successo ieri, quando i corpi speciali dell’esercito hanno assaltato la Freedom Flottilla, il convoglio di navi che – partito da Cipro, Irlanda e Turchia domenica – aveva il compito di rompere l’assedio di Gaza portando medicinali, generi di prima necessità, cemento (considerato un’arma terroristica dai sionisti…) al popolo palestinese. Era una manifestazione pacifica, composta – oltre che da Ong – da cittadini di tutte le età e di qualunque luogo accomunati dalla voglia di ridare giustizia storica ai Palestinesi, il cui legittimo territorio viene impunemente stuprato da decenni dagli anfibi con l’effigie ebraica, che sarebbe dovuta attraccare nei prossimi giorni nel porto di Gaza City.
Avvenuto in acque internazionali, l’assalto dei commandos israeliani ha fatto per ora circa 20 morti e più di una cinquantina di feriti. Mentre scrivo ancora non si hanno notizie sulle generalità né delle vittime né dei feriti, ma sembrano non essere coinvolti i cinque cittadini italiani che hanno preso parte alla Flottilla.
La nave passeggeri “Mavi Marmara” battente bandiera turca sembra essere quella più colpita. Puro caso dettato dal fatto che fosse la nave che comanda il convoglio o ripicca per gli accordi trilaterali Turchia-Iran-Brasile sul trattamento del “terroristico” uranio iraniano? 
La risposta ancora non è certa, sta di fatto che in Turchia è partita la sassaiola (letterale) verso il consolato, tentando al contempo di fare irruzione.
Secondo l’esercito israeliano, il contingente militare sarebbe stato oggetto di un attacco partito dalle navi tramite armi da fuoco, anche se morti e feriti sono solo da una parte: quella degli attivisti.
Non potevano di certo mancare le dichiarazioni internazionali. In attesa di quelle provenienti da Washington, che dovranno essere un caso da manuale in termini di ambiguità ed equilibrismo tra il filo-sionismo e la propensione all’”esportazione” di pace e democrazia,

A carte scoperte…

C'era una volta...
ah no, ho sbagliato incipit. È che la storia di qualche settimana fa che ha tenuto in scacco tutto il continente – quella relativa alla nube islandese – sembra sempre più essere una di quelle storielline da “c'era una volta”: una favola (o una panzana, dipende dalla raffinatezza intellettuale che le si vuol dare...).
Per chi non lo ricordasse – considerando l'estrema velocità di spostamento di focus dell'informazione attuale – tra aprile e gli inizi di questo mese il vulcano Eyjafjallajökull aveva deciso di far sentire il proprio ruggito mettendosi ad eruttare, causando così il blocco totale dei voli in gran parte dell'Europa. O almeno questo è quello che i media maistream ci hanno raccontato.
Già, perché nonostante non se ne parli più – guarda caso – la BBC ha intervistato un responsabile di Eurocontrol (l'organizzazione internazionale il cui compito è quello di mantenere efficiente il sistema del controllo del traffico aereo sui cieli europei) il quale ha ammesso candidamente che il loro “supercervellone” aveva fatto dei calcoli errati, e che quindi – come la maggior parte delle pre-visioni meteo – anche questa era ricaduta sotto la specifica sezione del “terno al lotto”. Io non sono un esperto di questioni legate al meteo (ed in generale non sono né un grande esperto né un grande appassionato di scienza), e dunque – stando a quanto raccontavano quegli “esperti” che quotidianamente vedevo alternarsi in tv e sui giornali – mi aspettavo qualcosa di molto simile al filone apocalittico della filmografia hollywoodiana, con l’oscuramento dei cieli, piogge di cenere e frattaglie simili, visto che più o meno era questo lo scenario che andavano rappresentando questi “esperti”. Invece il cielo era particolarmente sereno, eccezion fatta – ovviamente – per quelle scie che lasciano spesso gli aerei lungo la propria strada.
No, ferma un attimo: c’è il blocco totale dei voli e io vedo comunque le scie degli aerei? Qui c’è qualcosa che non torna! Anche perché quei piloti dovevano essere alquanto alticci, viste le traiettorie a zig-zag (quando non direttamente circolari…) che facevano fare ai propri velivoli. Ma facciamo un passo indietro, torniamo al novembre dello scorso anno, quando – seppur come breve – campeggiava sui nostri giornali questa notizia:
«Pechino – I meteorologi dell’Ufficio Modificazione del Tempo della capitale cinese hanno “bombardato” le nuvole con 186 dosi di ioduro d’argento per approfittare del brusco calo della temperatura e alleviare la persistente siccità che ha colpito la zona».

Falsa bandiera sudcoreana?

Nell’agosto del 1964 il trentaseiesimo Presidente degli Stati Uniti d’America Lyndon Baines Johnson dava il via alle operazioni che sarebbero diventate famose non solo come “guerra del Vietnam”, ma anche come una tra le peggiori – insieme alla Somalia del ‘92 – sconfitte militari della storia degli estadounidensi.
Il casus belli, cioè l’episodio che aveva rotto gli argini e aveva fatto prendere la decisione all’establishment americano di addentrarsi nella giungla vietnamita fu il c.d. “incidente del golfo del Tonchino”, quando – narra la leggenda – il cacciatorpediniere a stelle e strisce USS Maddox (DD-731), in missione di ricognizione nel suddetto golfo, venne attaccato da alcune motosiluranti nordvietnamite, che avevano scambiato il cacciatorpediniere per un vascello sudvietnamita. Piccolo particolare: l’incidente non è mai avvenuto. L’ha detto persino l’allora Ministro della Difesa McNamara. Certo, l’ha detto dopo quarant’anni, ma meglio tardi che mai no?
Oggi la storia sembra – o almeno sembrerebbe – ripetersi: è di queste ore infatti l’accusa lanciata dalla Corea del Sud dell’affondamento della corvetta Cheonasang avvenuto circa tre mesi fa e che ha causato la morte di 47 marinai. E di questo, dicono i sudcoreani in conferenza stampa, ci sono anche le prove. Ecco, sì…a proposito delle prove: io non sono un esperto di armamenti, ma credo che sia facilmente intuibile quanto il disegno non corrisponda alla “pistola fumante”:




Non sono un esperto, ripeto, e dunque la prima domanda che mi è venuta in mente appena ho visto le foto è stata: e il pezzo “3” nel disegno dov’è? Le risposte che mi sono dato sono state una di natura dolosa e l’altra di natura colposa, cioè o che i sudcoreani ne capiscano quanto me di questa roba, ignorando tranquillamente che il disegno non corrisponda alla “reliquia” (natura colposa) oppure che siamo dinanzi ad una riedizione dell’”attacco” del Tonchino (natura dolosa). Ma in questo caso sorgerebbe un’ulteriore domanda: quale utilità ne deriverebbe da un auto-attentato?
Innanzitutto partiamo da una questione che conosciamo benissimo anche noi in Italia: l’ingerenza militare a stelle e strisce sul territorio nazionale. Il nostro problema principale si chiama “Dal Molin”, cioè la base che – con il placet di ambedue i versanti politici – gli americani vogliono allargare per far diventare lo stivale il punto di lancio del loro attacco al Medio e lontano-Oriente; quello delle popolazioni con gli occhi a mandorla si chiama base di Okinawa (Giappone).

Unter falscher flage


Vengono definite "operazioni sotto falsa bandiera" - dal nome inglese "False flag" - quelle operazioni, mediaticamente facenti parte delle c.d. "teorie del complotto", mediante le quali i governi e/o le grandi corporation utilizzano nemici-fantoccio (altri governi, organizzazioni definite più o meno "terroristiche") al fine di ottenere i favori dell'opinione pubblica verso operazioni che altrimenti sarebbero difficilmente proponibili.
Naturalmente importante per questa teoria è il contributo che arriva dai soliti Stati Uniti, si guardi ai rapporti tra la famiglia Bush e quella del capo di Al Quaeda Osama Bin Laden evidenziati in Farenheit 9/11 di Michael Moore oppure alla questione delle "damas de blanco", cioè un gruppo che l'opinione pubblica europea conosce come una sorta di Madres de Plaza de Mayo in piccolo alle cui manifestazioni partecipano noti terroristi come Luis Posada Carriles (tanto per evidenziare la "non-violenza" e la "buona volontà" di questo movimento, per non parlare dei finanziamenti...) utilizzato per ingenerare nell'opinione pubblica mondiale una sorta di adozione di pseudo-"dissidenti politici" cubani oppure alla strategia della tensione utilizzata negli anni '70 in Italia (sulla quale esiste una florida bibliografia...).

Naturalmente giornali, telegiornali e trasmissioni di pseudo-approfondimento non ne parlano, perché farlo vorrebbe dire riattivare le sinapsi di un'opinione pubblica ormai completamente lobotomizzata sia dalla non informazione televisiva sia da quella informazione "d'opposizione" che, solitamente, altro non è che la valvola di sfogo che permette al Potere di mantenere calme le masse. Perché persone pensanti non fanno bene neanche a quelli del giovedì sera, giusto?

Genova burns…again

Genova (Italia) - «Non si possono dimenticare le terribili ferite inferte a persone inermi, la premeditazione, i volti coperti, la falsificazione giustizia-precaria del verbale di arresto dei 93 no-global, le bugie sulla loro presunta resistenza. Né si può dimenticare la sistematica e indiscriminata aggressione e l'attribuzione a tutti gli arrestati delle due molotov portate nella Diaz dagli stessi poliziotti».
Con queste parole il procuratore generale Pio Machiavello, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva chiesto oltre centodieci anni di carcere per i responsabili di quella che lo stesso Michelangelo Fournier – uno degli indagati a quel tempo vice di Vincenzo Canterini, capo del settimo reparto della Mobile di Genova – aveva definito “macelleria messicana”, e che è passata alla storia del nostro paese come “la notte della Diaz”.
Con una premessa del genere mi aspettavo chissà quale schiacciante vittoria per la Giustizia e la Democrazia in Italia, ma – come al solito – devo svegliarmi dall’illusione che questo sia un Paese quantomeno normale e guardare alla ben misera situazione che ci si trova davanti nonostante questa sentenza. Non sono tanto le pene – da un minimo di 3 anni e otto mesi con interdizione dai pubblici uffici per cinque anni ad un massimo di quattro anni – a lasciarmi perplesso, quanto il fatto che sì, è vero: i vertici delle forze dell’ordine sono stati giudicati colpevoli, ma anche loro – come i loro sottoposti – sono stati solo burattini nelle mani di qualcun altro. E quel qualcun altro rimane – e rimarrà – ancora impunito. Perché sul banco degli imputati mancava quel tal ministro – che oggi si chiede chi gli abbia potuto pagar casa – che, candidamente, ammise di aver dato l’ordine di sparare a qualunque cosa si muovesse intorno alla famosa Zona Rossa, quell’area di Genova in cui tra il 19 ed il 22 luglio 2001 – come ebbe a scrivere Gianni Minà sul numero 75 della rivista LatinoAmerica – «i famosi sette grandi più la Russia(…) stanno per sancire infatti l’indiscutibile diritto di esistere solo al 20 per cento dell’umanità, a scapito del rimanente 80 per cento. Anzi, il mondo che non ce la fa sarà per sempre indicato come il vero pericolo dell’umanità, il terrorismo contro cui lottare». Oppure quel tale – che oggi viene quasi osannato da quella parte di “sinistra” italiana che ha svenduto l’anima per la poltrona – che allora era vice-Presidente del Consiglio e se ne andò, senza motivo apparente,  nella sala operativa della Questura genovese.

Di spirito di servizio, giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati.

Prendo spunto da quel che si legge nei commenti su facebook alla notizia per la quale Michele Santoro starebbe per lasciare la Rai. A parte il fatto che la faccenda non sta esattamente nei termini descritti, visto che si tratta solo di un cambio di collaborazione – da dipendente a collaboratore esterno – necessario per il fatto che a Santoro era permesso di andare in onda non dai seppur notevoli ascolti, ma da una sentenza di tribunale, caso credo più unico che raro in tutto il panorama dell’informazione mondiale, la gente – che ormai ha perso l’abitudine a farsi domande e ad andare più in là dei titoloni sui giornali – ha subito urlato le solite e noiose parole: “attentato alla democrazia”, “dittatura” et alia, visto che al centro di tale notizia c’è uno dei loro beniamini preferiti, che allieta(va) gli invernali giovedì sera del popolo televisivo che crede di informarsi con due ore a settimana di teatrino degli orrori in cui si urla, si sbraita, ci si dà – a seconda – del “fascista” o del “comunista” ma dal quale non si ricava alcunché di utile. Ma d’altronde, se così non fosse, saremmo in un paese con un’informazione seria (non dico obiettiva perché non sono della “scuola” che pretende l’obiettività giornalistica, mera utopia finché saranno gli uomini a fare informazione).
A parte il fatto che è evidente che nel momento in cui arriverà davvero la dittatura neanche ce ne accorgeremo (considerato che Berlusconi e la sua cricca sono personaggi troppo piccoli per poter contare davvero qualcosa) e che molto probabilmente faremo la fine di quella nota pecorella che, a forza di gridare “al lupo!” quando s’è trovata di fronte al lupo vero, in carne ossa e frattaglie varie non è stata creduta, vi voglio raccontare una storia. Una storia che, naturalmente, non compare sui giornali e che non viene raccontata da queste trasmissioni di pseudo-approfondimento. Perché se, come meriterebbe, fosse quotidianamente sulle prime pagine di tutti i giornali questo sarebbe finalmente un Paese decente. Ma siamo ancora in Italia.
«Gianni Lannes è uno di quei giornalisti che fa nomi e cognomi. A giugno ha aperto un giornale online di informazione, con sede a Orta Nova, in provincia di Foggia. [Ha subito] minacce e tre attentati: il 29 giugno (del 2009,ndr), a due settimane dall’apertura, la prima lettera di minacce. Poi, a inizio luglio, un’esplosione fa saltare in aria la sua automobile. Il 23 luglio vengono manomessi i freni della sua auto. I primi di novembre, ancora, un attentato incendiario gli distrugge l’ennesima automobile», scriveva Il Fatto Quotidiano nell’edizione del 28 novembre del 2009.

Una volta ci raccontavano le favole…

Teheran (Iran) – Una volta ci raccontavano le favole. C’erano sempre il principe bello, buono e giusto
che abbatteva il mostro cattivo. Solo che ad un certo punto il mostro si è stancato di fare la parte del cattivo “sempre e comunque” e ha deciso di stravolgere i ruoli. Potrebbe riassumersi così quello che è successo nella giornata di ieri nell’ambito del summit dei 15 paesi in via di sviluppo (il G15), dove il presidente ospitante Mahmud Ahmadinejad ha spiazzato l’intera comunità internazionale firmando, con i suoi pari di Brasile e Turchia, un accordo con il quale – de facto – la patria degli Ayatollah e della seconda più famosa Rivoluzione toglie agli Stati Uniti il principale argomento con cui si era aperto il dibattito sulla possibilità di adottare sanzioni in sede Onu in merito al programma di arricchimento nucleare che l’Iran porta avanti da un po’ di anni e che, come abbiamo visto qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/04/due-pesi-due-misure-atomiche.html è stato iniziato proprio da quegli americani che adesso utilizzano il problema-nucleare per disfarsi di un governo non conforme al volere dell’Impero.
Perché ieri Luis Ignacio Lula da Silva e Recep Tayyp Erdogan si sono fatti tutori del futuro iraniano, firmando un accordo che trasferisce l’arricchimento dell’uranio dal territorio iraniano alla Turchia (luoghi precisi ancora da specificare). L’accordo, che investe dalla metà ai due terzi delle quantità di uranio posseduto dall’Iran, prevede il trasferimento di 1.200 kg di uranio arricchito al 3,5% in cambio di combustibile nucleare per il reattore di Teheran utilizzato per la ricerca medica. Combustibile arricchito al 20%, dunque molto meno rispetto al necessario per trasformare l’uranio in bomba atomica (che è almeno all’85%).
Da questo momento, dunque, il continuare a parlare di “minaccia iraniana” è pura propaganda imperialista. Se n’è accorto persino il New York Times, che titola: «L’Iran acconsente a spedire l’uranio, complicando i colloqui per le sanzioni», aggiungendo che comunque i c.d. “esperti” stanno cercando un pretesto per dirsi insoddisfatti dell’accordo.
Ed il patetico teatrino di dichiarazioni propagandistiche non si è fatto attendere molto: partendo da una Germania che ha definito come «nulla può sostituire un accordo tra Teheran e l’Aiea» ed una Francia che, per bocca del Ministro degli Esteri Bernand Kouchner ha detto che «pur essendo lodevole il tentativo, la minaccia rimane», la parte del matto l’ha giocata Israele, la cui esternazione sarebbe da far studiare nelle migliori scuole di comicità.

Gli amichetti dello Tío Sam e la mala información occidentale

L'Havana (Cuba) - Che volto ha il terrorismo? Per citare un noto video di Gino Strada che esce fuori quando Emergency torna sui giornali, in quella moda per cui ci si allinea al club dei sodali pubblicando sempre gli stessi video, sempre le stesse dichiarazioni, sempre gli stessi documenti, un palestinese potrebbe rispondere che il terrorismo ha il volto dell’autista del bulldozer che demolisce la sua casa; un iracheno o un afgano potrebbero rispondere che il terrorismo ha il volto del pilota militare che, dall’alto della sua immensa distanza con il campo di battaglia, bombarda un asilo nido con 3.000 bambini definendolo “nota base terroristica”, come canta la 99 Posse in “La bomba intelligente”; un americano, od un europeo, ma di quelli per cui tutto quello che ha il marchio a stelle e strisce è bello, buono, giusto e – soprattutto – incontrovertibile, il terrorismo ha il volto dello sceicco arabo Osama bin Muhammad bin ʿAwaḍ bin Lāden, leader di Al Quaeda che, per stessa ammissione – alla BBC – di esponenti di vertice della CIA è frutto della fantasia nordamericana (non mi ricordo in quale documentario si dice che il nome “Al Quaeda" sia quello di un programma informatico della stessa agenzia americana cosa che confuterò non appena mi ricorderò quale documentario sia…). E per un cubano? No, non i cubani “alla Yoani Sanchez” o alla “Damas en blanco”, cioè quelle personalità pagate o direttamente dagli americani, come accertato nel caso della “libera” bloggera o dalla lobby anti-castrista di stanza a Miami come nel caso della versione filo-imperialista delle Madres de Plaza de Mayo, ma di tutti quegli altri, quelli dimenticati troppo spesso dalla stampa “democratica” e “alla ricerca della Verità” dei vari Travaglio, Santoro e di circa il 99,9% dei media occidentali. Per questo tipo di cubano il terrorismo ha sicuramente – tra le tante – il volto di Luis Posada Carriles.
«Il 17 novembre 2000, Guillermo Novo Sampoli, Pedro Remón Rodríguez, Gaspar Jimenez Escobedo ed io, siamo stati arrestati con l’accusa di aver preparato un attentato per assassinare il Presidente di Cuba, Fidel Castro, durante la sua partecipazione al X Vertice Iberoamericano dei Capi di Stato e di Governo, effettuatosi a Panama.» – potrebbe iniziare così una eventuale, per quanto improbabile come vedremo in seguito, confessione - «Abbiamo posto 33,4 Kg di esplosivi militari, con i quali pretendevamo far esplodere l’Aula Magna dell’Università di Panama, con un centinaio di studenti, professori e invitati che avrebbero partecipato all’atto che contava sulla presenza di Fidel Castro.

Documento di Marcia dei Popoli Originari

Buenos Aires (Argentina) - L'Argentina è plurinazionale e pluri-culturale. pre-esistono più di 30 nazioni originarie. questa enorme ricchezza culturale rappresenta: più di 20 idiomi pre-esistenti al castellano; visioni del mondo millenarie che nonostante più di cinque secoli di repressione religiosa mantengono il vincolo e l'interdipendenza con i nostri mondi naturali; norme di giustizia e convivenza che ci permettono di mantenere un Sistema Comunitario in vita in molti territori dove non arriva lo Stato; conoscenze, saperi e pratiche che sostengono i nostri sistemi di salute, di produzione ed educativi, che sostengono le identità basate su principi etici e morali, che possono essere alternativa per una società al giorno d'oggi abituata ad un sistema basato sulla violenza, il consumismo e lo sfruttamento di Madre Natura.
Tuttavia, questa diversità culturale durante 200 anni di vita repubblicana è stata respinta, resa invisibile, clandestina, occultata come un elemento di vergogna.. Nonostante ciò, Popoli Indigeni in Argentina, abbiamo mantenuto la forza della nostra memoria storica e della nostra visione del mondo.



Questa esclusione si riflette con l'apparizione pubblica della nostra immagine in epoca pre-elettorale o nei festival folkloristici, o in caso di notizie tragiche, nelle quali siamo vittime di malattie e parassiti di altre epoche.
Però siamo Popoli Indigeni Originari, sovrani sui nostri territori, terre e risorse naturali. Territorio che l'Esercito Nazionale Argentino, finanziato da capitale britannico e dalla oligarchia dei proprietari terrieri è venuto col suo carico di morte, usurpazione e distruzione, completando quel che è stato fatto dalla corona spagnola. Julio A. Roca creò il primo caso di terrorismo di stato, coercizione illegale, esuli,banditi, traffico e rapimento di minori e scomparsa forzata di famiglie, comunità ed interi popoli che ancora aspettano la riparazione storica che a molte generazioni è stata negata.


Riparazione che non potremmo aspettarci dagli eroi patrizi, né da governi discriminatori e razzisti che si sono succeduti fino ad oggi. Peggiore fu la sorte che la nostra gente caduta nelle mani dei governi feudali nelle provincie dove l'impunità e l'abuso di potere sono cose che ancora non si fermano.


Il riconoscimento giuridico e costituzionale che esige tanta mobilitazione e forza indigena, oggi ce l'abbiamo scritto approvato ed è la base per un nuovo rapporto istituzionale tra Popolazioni Indigene e Stati.

Camminando per la Verità, verso uno Stato Plurinazionale. Marcia dei Popoli Originari, giorno 1.


La Quiaca (provincia di Jujuy, Argentina) - Oggi, 12 di maggio, dal portico nord della città de La Quiaca, le comunità del nord, ovest, est e sud della regione del Kollasuyo hanno dato inizio alla Grande Marcia Qapac Ñanta Purispa, camminando per la verità, per uno Stato Plurinazionale e di Riparazione Nazionale.


Nostri fratelli sono venuti dai villaggi di Nazareno, Santa Catalina, Barrios, Lulluchayoc, Yavi, Fraile Pintado, Chalican, General San Martín, San Juan (Ramal). Così coyas, guaranies e wichis, tutti uniti, gemellati in questa causa insieme nella rete organizzativa che fornisce il suo appoggio, la sua lotta per i diritti legittimi dei Popoli Originari.


In questo trascendente atto si è avuta l'importante presenza di esponenti delle autorità sindacali: Fernando Acosta, segretario generale di ATE (Asociación de Trabajadores del Estado, ndt); Hugo Yaski, segretario generale di CTA Nazionale (la Central de Trabajadores Argentinos); lo scrittore Pipón e la lider dell'organizzazione Barrial Tupac Amaru, la compagna Milagro Sala, che hanno partecipato alla cerimonia della Pachamama – prima della quale sono state effettuate danze tipiche - che ha avuto luogo in Avenida Sarmiento nel pomeriggio. Durante la cerimonia è stata invocata la protezione della Madre Terra, ed è anche stato espresso il desiderio che si concretizzino le petizioni che saranno presentate davanti alle autorità nazionali.


Successivamente è stato presentato il bastone, simbolo dell'unità dei Popoli Originari, e si è fumata la pipa, segno di fratellanza. Dopo sono stati condivisi pasti e bevande tipiche della zona. A questo atto storico ha partecipato oltre un migliaio di persone.


Finalmente la carovana ha potuto iniziare il suo viaggio diretta verso San Salvador de Jujuy.
Simultaneamente con le attività in corso nella città del nord, la capitale jujeña convocava tutta la rete organizzativa a condividere questo giorno, ad essere parte di questa nuova storia. Tutti  attendevano con allegria ed entusiasmo l'arrivo dei fratelli nel Parco Generale San Martín, ricevuti da una moltitudine che intonava canzoni, mentre l'aroma d'incenso e i petardi creavano un clima festivo, che ha sorpreso la comunità jujueña mentre si trovavano per le strade, culminando in piazza Belgrano. Lì, la leader dell'Organizzazione Tupac Amaru, la sorella Milagro Sala, ha chiesto scusa a tutti i compagni per l'attesa e ha espresso l'importanza di preservare e curare l'ambiente e le risorse naturali, come anche il senso di unità che deve esistere. Ha detto poi che i popoli originari sono parte di noi.

l'articolo originale lo trovate qui: http://marchanacionalindigena.blogspot.com/2010/05/inicio-de-la-marcha-de-los-pueblos.html

Patria (Grande) o Muerte!


San Salvador de Jujuy (Provincia del Jujuy, Repubblica Argentina) -  C’è un concetto caro a molte delle popolazioni dell’America Latina, in ogni latitudine del continente ed in ogni tempo che da Simón Bolívar, José Martí e Camillo Torres, passando per il Che ed arrivando a Fidel Castro e Hugo Rafael Chávez Frías è probabilmente l’obiettivo politico di ogni latinoamerican*. Questo concetto – che prende il nome di “Patria Grande” – è quella considerazione, di natura geopolitica se vogliamo, con la quale si dice che solo con una grande nazione latinoamericana (la Patria Grande, appunto) potrà finire l’opera di usurpazione imperialista, potendo così restituire le terre a chi ne ha davvero la “proprietà”,per quanto erroneo sia definire proprietà terriere per chi professa il culto della Pachamama: i Popoli Indigeni (o Popoli Originari, che dir si voglia).
Un paio di settimane fa questi popoli si erano ritrovati a Cochabamba, nello Stato Plurinazionale della Bolivia per urlare non solo il proprio disprezzo verso il mondo capitalista che sta uccidendo il nostro pianeta, ma anche – e soprattutto – per metterlo alla sbarra, con tanto di iniziativa per la costituzione di un Tribunale Penale per i diritti della Pachamama - sulla falsariga del Tribunale de L’Aja – dove vengano di volta in volta processati tutti quelli (personalità politiche, industrie, multinazionali) che tramite il mezzo capitalista non solo inquinano la terra deviando il corso dei fiumi – come la costruzione della gigantesca diga di Belo Monte - o devastando vaste aree boschive per le loro imprese – si pensi alla recente campagna di GreenPeace contro l’acquisto di olio di palma da parte della multinazionale Nestlé che distrugge le foreste – ma anche distruggendo rapporti sociali ed economici tra le comunità locali, forse la cosa più semplice da capire per chi – come noi europei – non è nato con la concezione della Pachamama.

Oggi le comunità indigene tornano a riunirsi.
Questa volta lo fanno in Argentina, per la quale quest’anno ricade il Bicentenario. Quest’anno, peraltro, in America Latina si festeggia anche un’altra – ben più importante in termini politici – ricorrenza: il Centenario del primo levantamiento zapatista, la rivolta che, nel 1910, portò la ribellione delle popolazioni messicane contro il regime clerical-latifondista del Generale Porfirio Diaz.
Dai tempi di Emiliano Zapata e della rivolta che ne porta il nome in realtà non è cambiato molto. Anzi.

Il corpo delle donne - presentazione a Bologna



Stasera dalle ore 18.30 presso la libreria Ambasciatori di via degli Orefici (Bologna), Lorella Zanardo con Nadia Urbinati e Giovanna Cosenza presenta il libro "Il Corpo delle Donne".

Per chi vuole (e può), ci vediamo là.

Io (non)so. Però ho gli indizi e le prove…

Il 14 novembre del 1974, come ormai sappiamo tutti, Pier Paolo Pasolini scriveva il famoso articolo "Cos’è questo golpe? Io so”, nel quale sosteneva di conoscere i nomi dei responsabili – conosciuti ed occulti – della strategia della tensione che in quegli anni imperversava in Italia.
Parafrasando quell’articolo, potrei dire che anch’io so. O meglio: io non so, però – a differenza di Pasolini – io ho gli indizi, e dunque ho anche le prove in merito al “golpe” – per usare le stesse parole pasoliniane - su scala continentale al quale stiamo assistendo in questi tempi. Ma andiamo con ordine.
Partiamo dalla Polonia, e precisamente dal momento in cui lo stato polacco è stato decapitato – letteralmente – dei propri vertici. Io non ho mai avuto ammirazione per i fratelli Kaczyński, considerando la spesso antitetica posizione su molti temi. Ma su una cosa mi trovavano d’accordo: l’essere scettici verso quella che ci ostiniamo a chiamare “Unione” europea.
In rete circola un video – sul quale però ho parecchi dubbi – in cui si vedrebbe una scena descritta come l’esecuzione, da parte di forze militari presumibilmente russe, di alcuni dei superstiti dell’incidente aereo in cui, ricordiamolo, oltre a quello che fino ad allora era il Presidente polacco – Lech Kaczyński – sono morti anche il capo di stato maggiore, Frantiszek Gagor, il viceministro degli Esteri, il governatore della banca centrale, 13 ministri, l'ex presidente Ryszard Kaczorowski, alcuni deputati, il candidato conservatore alle prossime presidenziali Przemyslaw Gosiewski e il vescovo cappellano dell'esercito. Particolarmente colpite le forze armate, che hanno subito la dipartita oltre che del già citato Gagor, anche del capo delle forze sul campo, Bronislaw, del capo dell'Aeronautica militare, Tadeusz Buk, e di quello dell'esercito, Andrzej Blasik; del capo delle forze speciali, Wojciech Potasinki, e del vice ammiraglio Andrzej Karweta. In pratica quello che era il gotha, la catena di comando polacca, non esisteva più. Cancellata nel giro di pochi secondi.
Se ci pensate un attimo, difficilmente si può definire con il termine “casualità” un incidente che in un colpo solo spazza via l’intero vertice di un paese. Tutto il vertice tranne un uomo: Donald Franciszek Tusk, l’attuale Primo Ministro. Per ora congeliamo la sua posizione e andiamo avanti.
 
C’è una giornalista, Jane Burgermeister si chiama, una giornalista irlandese/austriaca che, alcuni mesi fa, con un suo articolo iniziò a sostenere quel che alla fine anche i media mainstream sono stati costretti a dire:

Non sarà il gelido vento a riportare la luce


Peppinu Impastatu fu ammazzatu ri la mafia p'aviri dinunziatu li dilitti di contrabbannu,
di droga e di armi di Tanu Badalamenti, mafiusu
putenti e protettu di lu statu, patruni d'ammazzari,
mfami prigiuricatu, Don Tano ricunusciutu, ri tutti rispettatu e cchiù chi mai timutu pi lu crimini pirpitratu,
p'aviri fattu satari nall'aria Pippinu nostru,
bannera ri Democrazia Proletaria.
Fu na pugnalata nna lu pettu a li piciotti digni di rispettu, a li picciotti ca vonnu grirari la rabbia
pi un putiri travagghiari.
Pippinu, vucca di verità, vucca d'innucenza, rapprisienta a simienza ri sta terra senza spiranza.
Grirava a tutti ri pigghiari cuscienza a la radiu,
a la chiazza, nta li strati, pi li piciotti era comu un frati.
Vuleva fari la rivoluzioni pi dimustrari a la pupulazioni nca nun s'accansa nenti cu li scanti.
Quarcunu lu capiu, tanti autri no.
Nna lu silenziu fattu ri duluri chiovino garofani rossi
comu li lacrimi di chiddu chi arristamu, ncapu li resti di
Pippinu massacratu. Picchì...sti delitti?
[Gaspare Cucinella]


...a Peppino ed a sua madre Felicia, che come le orgogliose madres argentine ha lottato quotidianamente nella sua Plaza de Mayo affinché si rendesse giustizia a chi la mafia l'aveva guardata negli occhi e invece che averne paura come tanti, le aveva riso in faccia.

Le lacrime e il sangue teneteveli per voi...

Atene (Grecia) - Atene brucia. Tutta la Grecia brucia.
E non è un modo di dire.
Bruciano le strade come bruciano le divise della polizia e le banche, simbolo di quel Potere che continua a pranzare con i resti di una nazione sempre più «sull'orlo del baratro», per usare le parole del presidente Papoulias.

Ieri sono rimasti carbonizzati anche i corpi di tre dipendenti della Marfin Egnatia Bank, di proprietà di Andreas Vgenopoulos (uno dei principali esponenti del capitalismo ellenico) che, da bravo capitalista quale ogni Padrone è ha minacciato i suoi dipendenti di licenziamento se non si fossero presentati a lavoro anche ieri, nel giorno dello sciopero generale. Si tratta di Angeliki Papathanasopoulou, di 32 anni, che era al quarto mese di gravidanza, Paraskevi Zoulia, 35 anni, e Epaminondas Tsakalis, di 36. La stampa mainstream, quella asservita ai poteri forti, ha definito queste morti derivanti da una molotov lanciata durante gli scontri di un corteo che si stava recando in piazza Syntagma, ad Atene (sede del Parlamento) che ha colpito i locali della banca perché l'unica trovata aperta (ma, come possiamo vedere in questo video, la polizia dava una mano...a devastare).

Ma come ci dice un impiegato greco, che ha avuto il coraggio di mandare agli organi di stampa una dichiarazione che vi ripropongo in versione integrale alla fine del post (e che, come i compagni di occupiedlondon, prego di diffondere il più possibile), i locali della banca hanno preso fuoco semplicemente perché non era stata prevista alcuna manovra di prevenzione da questo tipo di rischi: tutto lì dentro era altamente infiammabile, tant'è vero che i pompieri non hanno mai rilasciato licenza; gli estintori erano insufficienti e, anche se fossero bastati, nessuno sapeva come usarli, perché nessuno aveva mai fatto un qualche tipo di esercitazione antincendio.
I motivi sono facilmente intuibili. Sono gli stessi in ogni luogo: il capitalismo è contrario alla sicurezza (noi italiani dovremmo ricordare ancora la tragedia della ThyssenKrupp del 2007).

Dicono, come al solito, che siano stati gli anarchici.
Ma gli anarchici non adoperano la violenza, o per lo meno non la adoperano contro gli oppressi. Ma sappiamo che addossare la colpa a chi professa la fede nelle idee di Bakunin, di Errico Malatesta e tanti altri è congeniale al Potere, a quel potere il cui unico scopo è la difesa (questa sì, violenta) degli interessi dei signor Padroni. Molto più probabilmente – considerando che tutti, manifestanti e forze dell'ordine, erano a volto coperto, per cui non identificabili – a lanciare le molotov sono stati appartenenti al gruppo neonazista “Chrisi Avgi” (Alba Radiosa).

Ho acclarato che...

  •  ...ci stanno prendendo per il culo.
«Se dovessi acclarare che la mia abitazione fosse stata pagata da altri senza saperne io il motivo e il tornaconto, i miei legali eserciteranno le azioni necessarie per l'annullamento del contratto».

L'unica cosa chiara nella vicenda che coinvolge Claudio Scajola è il fatto che è un ministro abituato alle dimissioni. Per chi non lo ricordasse, infatti, il nostro era ministro dell'Interno durante il G8 di Genova (quando ammise di aver dato l'ordine di sparare ai poliziotti...) e, un anno dopo, definì Marco Biagi «un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza» davanti a degli increduli giornalisti. Frase che, naturalmente, gli costa la prima dipartita dicasteriale.

Non contento, oggi il nostro ci riprova. “Forse altri hanno pagato la mia casa”, titola a pagina 2 il quotidiano La Stampa di oggi. Non so voi, ma io una delle poche cose che ho capito di questa vicenda – che in realtà seguo abbastanza distrattamente, come molte delle vicende che riguardano il nostro paese – è che l'ormai ex Ministro dello Sviluppo Economico abbia quantomeno tentato di prenderci tutti per il deretano: chi è che crede alla storiella del “ah, non mi sono accorto che una parte di casa mia non l'ho pagata io”? Naturalmente Maurizio Lupi (il difensore dell'indifendibile) non fa testo.

Questa volta credo che neanche il più accanito dei difensori del Premier (scelta ardua: Minzolini o Fede?) abbia abboccato a cotanta castroneria...

Negare qualunque cosa. Ormai è questa l'unica politica dei governanti. Negare anche a costo di perdere la faccia. Dicono faccia molto Prima Repubblica, anche se a me più che dall'epoca di Mani Pulite sembra abbiano preso spunto dagli anni '70: quando qualche brigatista veniva arrestato, infatti, una delle prime cose che faceva era quella di dichiararsi prigioniero politico. Oggi invece la prima cosa che certa gente – banchieri corrotti e corruttori, politici dalla dubbia moralità – fa è quella di dichiarare che sono stati vittima, nell'ordine: a) di un complotto ordito nei loro confronti, b) di un processo mediatico indegno come non si era mai visto prima.

Insomma: sparano dabbenaggini – abituati come sono dalle campagne elettorali – e pretendono che la gente ci abbocchi. Ma prima o poi ci stancheremo di fare la parte dei pesci pronti per la frittura...
  • ...quasi quasi ha ragione a Calderoli.
«Il nazionalismo con le sue degenerazioni è alle nostre spalle, orgoglio nazionale significa anche orgoglio di quello che produciamo, orgoglio per i nostri tecnici, per i nostri operai».

A cambiare il mondo, con il telecomando

C'è una frase di Gandhi, probabilmente la più famosa, che dice: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». Una delle più famose e, ancor più probabilmente, una delle più difficili da perseguire.
Il libro che ho appena finito di leggere, questione di pochi secondi prima di iniziare a scrivere questa “recensione” (ho sempre delle remore a definire tali le mie, che solitamente sono solo delle riflessioni...) ad un libro al quale mi ero ripromesso di trovare quante più critiche potessi, così come ogni buon recensore fa, in particolare se è quello il compito che gli viene richiesto. Ma ne ho trovate davvero pochissime, forse perché questo libro mi è – in alcuni punti – piaciuto ancor di più del video che lo ha anticipato più o meno un anno fa.

Il libro è “Il Corpo delle Donne” di Lorella Zanardo, che viene ad integrare – ma non solo – il lavoro fatto con il video, ed il relativo blog, che il 4 maggio 2009 Gad Lerner presentava dagli studi de “L'Infedele”. Dico integrare perché questo libro, naturalmente, spiega anche il lungo e faticoso lavoro che c'è stato dietro al video, ma se si limitasse a questo probabilmente non sarebbe un libro poi così interessante. Invece si va oltre, molto oltre.
Innanzitutto perché quel documentario è stato necessario per aprire un dibattito che – nonostante sia sparito dall'agenda principale dei mezzi di informazione, cosa che non è detto sia da considerare negativa – è ancora vivo ed attualissimo: il ruolo della donna in televisione e, naturalmente, il ruolo della donna all'interno della società occidentale, in particolare nella sua declinazione italiana. Un dibattito di cui chi, come me, crede che per migliorare questo mondo ci sia bisogno che a governarlo siano le donne – non certo tramite le quote rosa – sentiva la necessità anche per tentare di ritrovare la rotta giusta verso quell'altro mondo possibile che da Porto Alegre è diventato la meta (utopistica?) per molti di noi.

Ecco: una delle cose che mi piace di più di questo libro è che non è un libro di risposte. Non è un libro da leggere per chi cerca “la” ricetta di una televisione in cui veline, letterine, schedine etc siano solo un lontano ricordo. Ne “I dilemmi della speranza”, Nichi Vendola usa una frase che a me piace molto, e che in qualche modo cerco sempre più di far mia: «Ovviamente non sono la persona deputata alle risposte. Posso solo allargare l'ambito delle domande», ed il libro di Lorella Zanardo va proprio in questo senso: non cercare per forza le risposte, ma allargare le domande.