Do svidaniya America?


La prima cosa che ho pensato quando ho visto questo video [per i lettori di Facebook: http://www.youtube.com/watch?v=hlKzeBGUBuk] è stato che i nostri parlamentari, al confronto, sono ancora dei neonati: fanno parte della quotidianità i calci, i pugni e gli insulti che si alzano dai nostri scranni parlamentari, ma ai fumogeni ancora non ci siamo arrivati. Incuriosito – anche perché il commento è, come sentite, in russo (lingua che non parlo e non capisco) ho fatto una piccola ricerca sulla rete per saperne di più.
Quella che potremmo definire una “dialettica accesa” altro non era che il risultato della ratifica, da parte del Parlamento ucraino, dell'accordo tra il presidente russo Dmitrij Anatol'evič Medvedev ed il suo corrispettivo ucraino Viktor Fedorovych Yanukovych riguardante la proroga dell'affitto della base di Sebastopoli (nella Repubblica autonoma di Crimea) per altri 25 anni – a partire dal 2017, data di scadenza del precedente accordo – alla flotta di Mosca. L'Ucraina, in compenso, riceverà 100 milioni di dollari di affitto ed uno sconto del 30% sul gas russo, necessario per mantenere in vita l'industria della parte est del Paese.
L'opposizione ucraina, capeggiata dai filo-americani Julija Volodymyrivna Tymošenko (leader dell'Unione di Tutti gli Ucraini "Patria" e del Blocco Elettorale Julija Tymošenko) e Viktor Andrijovyč Juščenko, che nel 2005 salirono agli onori della cronaca mondiale per essere i due volti della c.d. “rivoluzione arancione” e che oggi hanno decisamente mutato la natura dei loro rapporti, ha tentato più volte – come è evidente dal filmato – di bloccare la ratifica che, secondo loro, altro non sarebbe che il ritorno dell'egemonia del Cremlino su Kiev e dintorni.

Chiusa infatti l'epopea delle grandi ideologie con il crollo del Muro nel 1989, l'allora Unione Sovietica si ritrovò da potenza egemonica nell'area a doversi reinventare completamente: la crisi socio-economica interna e la dissoluzione territoriale ne avevano infatti minato la caratura internazionale, aprendo – de facto – lo scenario geopolitico all'egemonia statunitense che abbiamo vissuto fino ad oggi, resa possibile anche dall'assenza di un'ideologia che ne controbilanciasse il potere di soft power derivante dalla fine dell'ideologia comunista.

È ancora così, oggi? Siamo ancora in una situazione geopolitica in cui esiste una grandissima potenza – gli Stati Uniti – alla quale non corrisponde niente?

Stando a quel che avviene sembrerebbe proprio di no.

Due pesi due misure (atomiche)

A me piace molto Maurizio Crozza. Lo trovo uno dei pochi professionisti (definirlo comico mi sembra decisamente riduttivo) che, con la satira – che sto iniziando a considerare come la miglior arma per smuovere le coscienze sociali di un popolo – prova a darci degli stimoli per tenere allenate le sinapsi.
Da un paio d'anni – o almeno dalla scorsa stagione – al termine di ogni puntata del suo programma, insieme agli ospiti, prova a tirare le somme di quel che è stato detto e della più stretta attualità. Ma non trova mai le connessioni.

Ieri più o meno ho avuto una sensazione simile durante il pranzo, mentre al tg mandavano il servizio sugli accordi tra Italia e Russia in merito all'energia nucleare.
Ma per capire questa storia dobbiamo partire da due date: l'8 e il 9 novembre del 1987 ed il 14 agosto 2002. Date che, apparentemente, non hanno alcuna connessione – come probabilmente non l'hanno nei fatti – ma che almeno a me danno più di uno spunto per parlare della questione del nucleare: quello iraniano, quello italiano e tutti gli altri.

Innanzitutto ancora un passo indietro.

26 aprile 1986: a Černobyl, a 100 km a nord di Kiev (Ucraina) esplode, per errore o dolo umano non è fondamentale saperlo, un reattore della locale centrale nucleare. È probabilmente il più grave incidente di questo tipo nella storia europea e del mondo.
Sull'onda di quell'”incidente”, il popolo italiano è chiamato – l'8 ed il 9 novembre dell'anno successivo – ad esprimersi sulla produzione nucleare italiana e, naturalmente, il popolo dice che no, una Černobyl italiana non la vuole vedere. Per cui il governo è costretto ad abbandonare la ricerca sull'atomo, ripresa in seguito all'estero affidando gli studi al settore privato (leggasi Enel).
Tutto questo fino a qualche mese fa, quando il nostro Governo annuncia che i tempi sono maturi per far rientrare il nucleare tra le fonti energetiche italiane.
Ieri l'annuncio: «Entro tre anni partiranno i lavori per la prima centrale nucleare» a patto, però, di convincere prima l'opinione pubblica su quanto è bello, buono e giusto l'atomo. Per questo – nel solco dei migliori regimi di stampo sovietico – è stato già dato mandato ai pubblicitari di creare uno spot da mandare sulle reti Rai.

A sentire queste parole mi è venuta, d'istinto, una domanda: perché l'Italia vuole il nucleare e nessuno dice niente e per l'Iran l'Occidente sta facendo tutto questo casino?
D'accordo: l'Italia sullo scacchiere geopolitico mondiale vale più o meno quanto una banconota da un euro e cinquanta, ma sempre di nucleare si tratta, no?

Verità e giustizia per Ilaria Alpi

L'ho scritto tante volte: la storia italiana è disseminata di misteri, misteri che - se lasciati andare finché tutti li avranno dimenticati - la classe politica, spesso coinvolta in quegli stessi misteri non risolverà di certo.
Il mistero sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la giornalista del Tg3 ed il suo operatore uccisi in Somalia il 20 marzo di 16 anni fa è, tra i tanti, uno di quelli che più mi stanno a cuore, per tantissimi motivi che sarebbe lunga, noiosa e - come direbbe Yoani Sánchez - non di interesse pubblico.

Sul sito del premio giornalistico che porta il suo nome (www.premioilariaalpi.it) è partita una raccolta firme affinché venga riaperto il processo, chiuso - come al solito - troppo in fretta e dopo l'oltraggio che alcuni personaggi di questo Paese (tra tutti l'avvocato Taormina...) hanno avuto il coraggio di fare alla memoria di Ilaria e Miran. Io vi invito caldamente a firmarlo: se siete a Perugia, dove in questi giorni si sta svolgendo il Festival Internazionale di giornalismo, potete andare presso la Sala stampa-Hotel Brufani (piazza Italia 12 Perugia) oppure potete cliccare qui:

http://www.premioilariaalpi.it/verit%C3%A0-e-giustizia-per-ilaria-e-miran.htm

Ci sono ancora tantissime domande intorno alla vicenda di Ilaria e Miran, domande che - dopo 16 anni - ancora vagano in cerca di risposta. Forse così, con una forte pressione dell'opinione pubblica, magari non si riuscirà a rispondere a tutte, ma per lo meno ci saremo incamminati verso la strada in cui quelle risposte ci aspettano: la strada della Verità.

Chi vuole la morte di Joy?


Immigrazione/ Denunciò stupro al Cie: nigeriana tenta suicidio Il 17 aprile Joy (***) ha ingerito sapone al Cie di Modena (da Apcom) Joy (***), la 28enne nigeriana che ha denunciato un tentativo di violenza sessuale da parte di un ispettore di polizia nel Cie di Milano l’estate scorsa, ha tentato il suicidio all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Modena dove è trattenuta da alcuni mesi”.

È questo lo scarno comunicato con cui Massimiliano D'Alessio ed Eugenio Losco, gli avvocati di Joy, la ragazza nigeriana che da circa un anno – come più volte scritto anche su questo blog – passa la propria vita trasferita da un Cie all'altro.
Arrivata in Italia nel 2002 per fare la parrucchiera (lavoro che svolgeva già in Nigeria) ma costretta fin da subito a prostituirsi, il 12 aprile avrebbe dovuto finalmente lasciare questi lager del XXI secolo per tornare a godere di quella condizione che il governo italiano vuole togliere a tutti coloro che non hanno la (s)fortuna di avere il marchio “di pura razza italiana”, cioè la libertà.
«Se l'è cavata» - dice – l'avvocato Losco ad Apcom «ma sono molto preoccupato perché, dopo questo tentativo, Joy continua a manifestare propositi suicidi e non vorrei contare il secondo morto nella vicenda seguita alle proteste nel Cie di Milano». A cosa si riferisce l'avvocato?

Innanzitutto si riferisce al fatto che sabato 17 aprile Joy ha tentato di togliersi la vita ingerendo un intero flacone di sapone (è stata trasportata in ospedale per una lavanda gastrica) ed alla morte – avvenuta lo scorso gennaio nel carcere di San Vittore – di Mohamed El Aboubj, in carcere dopo la condanna di primo grado nel processo per direttissima a seguito della “rivolta” nel lager di Ponte Galeria nella quale è stata coinvolta anche Joy.
Quello di Joy non è un tentato suicidio. È il tentativo, da parte (diretta od indiretta) degli apparati repressivi dello Stato di tapparle la bocca. Così, come una certa parte deviata della nostra società fa con le persone "scomode", e Joy - che è diventata il simbolo di tutt* i rinchiusi nei Cie - lo è senza ombra di dubbio.

In merito agli “altri fatti”, quelli che riguardano il tentato stupro da parte dell'ispettore capo Vittorio Addesso, il Gip Guido Salvini ha fissato per l'8 giugno l'incidente probatorio per l'audizione di Joy.



Comunque andranno a finire queste due storie rimane un'unica, costante, questione: i Cie devono chiudere, senza se e senza ma.

p.s. Chiediamo a chi intende riprendere il comunicato di omettere, come abbiamo fatto noi, il suo cognome [chi volesse saperne di più su Joy può cliccare qui: http://noinonsiamocomplici.noblogs.org/post/2010/04/23/chi-vuole-la-morte-di-joy].

Le forme della dissidenza.

Immaginate questo scenario: immaginate che l'Europa sia una super-nazione sul modello degli Stati Uniti – più o meno quello che è diventata con il Trattato di Lisbona – e che l'Italia, nazione geopoliticamente strategica per gli equilibri dell'area, sia un atollo dissidente, che lotta da mezzo secolo per non essere assoggettata al volere degli Stati Uniti d'Europa. È inutile evidenziare la politica di questi ultimi nei confronti dell'Italia, fatta di restrizioni economiche, espulsioni dai grandi consessi sovranazionali e simili. Come facilmente immaginerete, la stampa filo-statunitensedeuropa non fa altro che ribadire come l'Italia sia un paese di terroristi, nei quali un folle dittatore campa sulle spalle di centinaia di migliaia di cittadini la cui apparente unica utilità – visto che non esistono elezioni libere nel paese – è quella di essere assegnatari delle “cure assistenziali” del regime. Orbene, adesso immaginate che un bel giorno, così: di punto in bianco, un/a giovane italian* apra un blog nel quale denuncia il paese definendolo “una immensa prigione, con mura ideologiche” dove “esseri delle ombre, che come vampiri si alimentano della nostra allegria umana, ci inoculano la paura tramite i colpi, le minacce, il ricatto” nei cui ospedali si muore più per fame che per malattia e, naturalmente,denuncia il regime che impedisce qualsivoglia forma di opposizione e contestazione al suo operato. Più che un Paese in cui vivere, l'inferno dantesco peggiorato cento volte.

Immaginate poi che quello stesso cyberdissidente riceva nel giro di un anno moltissimi premi internazionali tutti riconducibili ad organi di informazione che fanno capo a paesi od organizzazioni degli Stati Uniti d'Europa. Cosa vi viene da pensare? Che ci sia una stretta correlazione tra le due cose, giusto?

Bene, perché è esattamente quello che ci si chiede quando si parla di Yoani Sánchez, la bloggera cubana diventata paladina della democrazia occidentale.
Prima di entrare nei dettagli, però, devo ammettere che – come credo qualunque blogger – sono geloso del blog di Yoani, Generación Y. Perché un blog di una perfetta sconosciuta – come lei stessa si definisce e come ha confermato la gran parte dei cittadini cubani in un documentario di Gianni Minà – che in un anno, oltre a vincere una miriade di premi di solito attribuiti ai nomi più altisonanti della letteratura, riesce a trovare anche un certo numero di persone che rendano possibile la traduzione del medesimo in ben 18 lingue (e non c'entra niente il pessimo traduttore di google che uso io...)

Da che parte sta Dio?

Quando mi si sente parlare di tematiche religiose, io che mi professo convintamente ateo ed ancor più convintamente anticlericale, molta gente si stupisce. Si stupisce del fatto che io, che credo solo negli uomini e non in eventuali “entità terze ed immateriali” sia curioso ugualmente di sapere, di conoscere. Ed è forse proprio seguendo questa curiosità che mi affascina molto quella “corrente” - parola molto di moda in questi giorni – della professione della Fede che prende il nome di Teologia della Liberazione [ne ho parlato qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/04/portando-la-crocee-che-guevara.html]

Piccolo riassunto delle puntate precedenti: la c.d. Teologia della Liberazione è un diverso modo di vivere la vita ecclesiastica che alcuni appartenenti alla Chiesa – in particolare in America Latina – hanno scelto di osservare. È un tipo di operato che si discosta moltissimo dall'operato “classico” della Chiesa, quello cioè fatto di chiese ed abiti pieni d'oro e tutto ciò che è ostentazione di un Potere che di “sacro” non ha assolutamente niente.

La caratteristica principale della TdL, infatti, è quella di essere in qualche modo una concezione “sociale” della religione, in cui il ministro della Fede non è – come capita molto spesso in Europa – una persona avulsa dalla comunità nella quale è chiamato ad operare ma, anzi, coloro che osservano questo tipo di “corrente” religiosa (so che il termine non è esatto, ma non sono un grande esperto di linguaggio ecclesiale...) sono fortemente radicati alla comunità in cui lavorano. La stessa TdL trova il suo principale fondamento nel radicamento storico-sociale nelle comunità (vi rimando comunque all'altro articolo, dove ho analizzato in maniera più approfondita la questione).

È quindi in base a questa attrazione – termine che in questo periodo non è esattamente il migliore da accostare a questioni ecclesiastiche, lo so – che mi ha colpito molto la storia di padre Carlo, il “prete clandestino” di cui si occupa l'ultimo numero del settimanale Carta a firma Sarah Di Nella.
Perché ciò che fa padre Carlo è esattamente quello che la Teologia della Liberazione professa. Ma procediamo per gradi.

Siamo a Siracusa, quartiere di Bosco Minniti, uno dei tanti quartieri “difficili” del nostro paese, dove da oltre 20 anni padre Carlo si occupa della parrocchia di Santa Maria Madre Chiesa, che più che una chiesa sembra un porto di mare. Dal 1988, infatti, dalle 15.000 alle 18.000 persone sono transitate da quelle parti.

Un'intervista con l'attivista boliviana Peregrina Kusse Viza: dobbiamo rispettare Madre Terra, la nostra Pachamama.

[l'articolo originale lo trovate qui: http://tcktcktck.org/stories/campaign-stories/interview-bolivian-activist-peregrina-kusse-viza-we-must-respect-mother ]

Lunedì, il principale negoziatore americano per il clima, Todd Stern, ha ammesso che un accordo vincolante sulle emissioni di gas serra potrebbe non essere possibile al prossimo summit sul clima delle Nazioni Unite pianificato per dicembre a Cancun. Il commento di Stern arriva dopo che gli Stati Uniti hanno preso parte al “Forum sull’energia e il clima delle maggiori economie a livello mondiale” a Washington. Mentre gli Stati Uniti ed altri paesi si incontravano a porte chiuse, lunedì un contro-summit sul clima iniziava qui in Bolivia: il Summit dei popoli del mondo sul cambiamento climatico ed i diritti della Madre Terra. Cominciamo lo show di oggi con Peregrina Kusse Viza, membro del gruppo indigeno boliviano CONAMAQ.

Amy Goodman: Trasmettiamo da Tiquipaya, un villaggio di Cochambamba, in Bolivia.
Rappresentative dei più grandi inquinatori mondiali si sono incontrati a porte chiuse a Washington lunedì in una riunione annunciata come Forum sull’energia e il clima delle maggiori economie. Il meeting arriva quattro mesi dopo il fallimento del summit di Copenhagen delle Nazioni Unite dove i leader mondiali hanno fallito la ricerca di un accordo vincolante per tagliare le emissioni di gas serra.

Dopo il meeting di lunedì dei principali paesi inquinatori, il principale negoziatore americano sul clima, Todd Stern, ha ammesso che un accordo vincolante potrebbe non essere possibile al prossimo summit sul clima delle Nazioni Unite pianificato per dicembre in Messico. «C'è ancora un considerevole appoggio per il concetto di accordo legale...ma penso che le persone siano anche consapevoli che questo potrebbe non accadere» ha detto.

Mentre gli Stati Uniti ed altri paesi si incontravano a porte chiuse lunedì, un contro-summit sul clima iniziava qui nella città boliviana di Tiquipaya, appena fuori Cochabamba. La Conferenza dei popoli del mondo sul cambiamento climatico ed i diritti della Madre Terra si è aperto qui lunedì.

Il presidente boliviano Evo Morales ha chiamato a raccolta per dare ai poveri ed al Sud del mondo l'opportunità di rispondere ai negoziati falliti sul clima di Copenaghen. Morales ha programmato la conferenza nelle vicinanze di uno stadio di calcio per affrontare la vasta affluenza.

Iniziamo lo show di oggi con Peregrina Kusse Viza, membro del gruppo indigeno boliviano CONAMAQ. Ha lavorato nell'assemblea costituente che ha redatto la nuova costituzione boliviana. Ha parlato con Mike Burke di “Democracy Now!” appena fuori la biblioteca del campus de La Universidad del Valle.

Un altro mondo è possibile. Basta costruirlo.

Quchapampa (Stato Plurinazionale della Bolivia) - 135 Paesi rappresentati, di cui 90 da delegazioni ufficiali e 24.000 accrediti. Sono questi i numeri delle prime ore della Conferenza Mondiale dei Popoli che si sta tenendo in queste ore in Bolivia. Fin da subito migliaia e migliaia di persone si sono ritrovate a discutere su problematiche e soluzioni legate al problema del cambiamento climatico. La conferenza, fortemente voluta dal Presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia Evo Morales Ayma, conferma ancora una volta che si sta creando un fronte - che potremmo definire un vero e proprio "Fronte Antimperialista" - che nei prossimi anni è destinato a contrapporsi all'egemonia del blocco occidentale.

Bolivia, Venezuela, organizzazioni come Via Campesiña e Attac, attivisti come la canadese Naomi Klein ed il francese José Bové si sono riuniti in Bolivia per studiare un "piano B" dopo lo scontatissimo fallimento della Conferenza sul clima di Copenaghen del dicembre scorso per fermare l'operato dei paesi industrializzati, delle multinazionali e dei sistemi di Potere che utilizzano gran parte delle terre del mondo come pattumiera per i loro affari.

I due punti fondamentali con cui i partecipanti alla conferenza dovranno presentarsi alla Conferenza sul clima che le Nazioni Unite terranno nel prossimo dicembre in Messico riguardano principalmente la costituzione di un Tribunale per la Giustizia Climatica e l'assunzione, da parte dei paesi industrializzati, della responsabilità per la distruzione del nostro pianeta tramite il pagamento del debito climatico.
Per adesso, i lavori riguardano quattro voci principali (che traduco e riporto dal bollettino informatico di ieri):
 
Gruppo 2. Armonia con la natura.
  • proposte iniziali:
  1. Cercare/identificare azioni per combattere la fame, che è un'altra delle conseguenze del cambiamento climatico;
  2. Promuovere la protezione della Terra partendo dalle scuole, tramite l'educazione e la creazione di una coscienza collettiva;
  3. Proibire l'imboscamento con piantagioni di eucalipto che danneggiano la qualità del suolo;
  4. Cambiare lo stile di vita dei cittadini tramite la condivisione di azioni che portino alla conservazione della madre terra.
Gruppo 12. Finanziamento 
  • conclusioni iniziali:
Elena Jenevitza, rappresentante della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale ha chiesto la creazione di un Fondo Climatico Globale sotto l'egida dell'ONU. Edgar Zenteno, rappresentante dell'Alleanza Mondiale, ha proposto la modifica dei meccanismi

Segui in diretta la Conferenza Mondiale dei Popoli - Cochabamba, Bolivia. 19-22 Aprile 2010


Quchapampa (Stato Plurinazionale della Bolivia).
In questi giorni (19-22 aprile) in Bolivia si sta tenendo la Conferenza Mondiale dei Popoli per i diritti della Madre Terra. Señor Babylon mette a disposizione il proprio spazio per la diretta e la diffusione in Europa di un appuntamento che, altrimenti, non avrebbe grande diffusione negli organi di informazione mainstream.

Stay tuned.

Processo (climatico) al Capitalismo


Quchapampa (Stato Plurinazionale della Bolivia) - «La Terra è un essere vivente ed è gravemente malata. Siamo noi coloro che la stanno contaminando con il virus dello sviluppo. Viviamo in un oceano chiamato atmosfera, così come i pesci vivono nell'acqua. Senza di lei non ci sarebbe vita, perché contiene ossigeno e acqua, e con loro i boschi e le piogge che danno sostentamento agli esseri viventi. Nonostante tutto la stiamo terribilmente contaminando».

Questo era il disperatissimo appello che, nell'ottobre dello scorso anno la CAOI (Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas) lanciava in preparazione al c.d. Cop15, la conferenza tenutasi a Copenaghen – ribattezzata poi No-hopenaghen dagli altermondisti – nello scorso dicembre sul tema dei cambiamenti climatici. Come al solito, come tutti i carrozzoni voluti dai potenti dell'emisfero occidentale, non si risolse assolutamente niente, visto che altri e troppo importanti (soprattutto in termini economici) sono gli interessi di chi, vivendo nel Primo Mondo non ha niente da perdere dal perpetuarsi della distruzione delle zone dei paesi poveri o in via di sviluppo e naturalmente della gente che in questi luoghi abita.

Per capire a cosa mi riferisco facciamo un salto a Brasilia, capitale del Brasile dove nei giorni scorsi c'è stata una marcia di protesta che ha coinvolto 850 persone – tra indigeni ed attivisti – per protestare contro la costruzione della gigantesca diga di Belo Monte nell'Amazzonia brasiliana. Per permettere tale costruzione (che, quando sarà terminata, sarà una delle più grandi del mondo) però è necessario deviare il corso della Natura, allagando una grandissima area amazzonica e prosciugando tratti del fiume Xingu. Questo naturalmente avrà ripercussioni anche sulle popolazioni autoctone, che dipendono in gran parte dalle risorse ittiche che il fiume offre e che, per questo, saranno costrette a mutare le proprie abitudini o – in extrema ratio – ad emigrare.

Ma ritorniamo a No-hopenagen.
Credo pochi ricorderanno il nome di Ian Fry.
Ian Fry era il rappresentante al Cop15 delle Isole Tuvalu, una nazione insulare nell'oceano Pacifico la cui storia risaltò nelle cronache mediatiche dello scorso dicembre in quanto, per colpa di tutto quell'insieme di operazioni che l'uomo fa e che definisce “cambiamento climatico” - vicenda che vedremo essere un po' diversa da come la raccontano le fonti mainstream – la sua popolazione (circa 11.000 persone) sarà costretta ad emigrare in Nuova Zelanda perché quelle isole sono destinate a scomparire.

Liberi!

Marco Garatti, Matteo Dell'Aira e Matteo Pagani sono appena stati trasferiti all'ambasciata italiana a Kabul. La loro prigionia è finita.

Qualcuno era terrorista

Teheran (Repubblica Islamica dell'Iran) - In questi giorni, tra le (tante) altre cose, ho ripreso in mano un po' di materiale di e su Tiziano Terzani, la cui rilettura non fa mai male. C'è un passaggio di “Lettera da Firenze”, l'articolo che scrisse l'8 ottobre del 2001 per il Corriere della Sera come lettera ad Oriana Fallaci al fine di rispondere alla di lei invettiva anti-islamica post-11/09:

«I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale i Tokyo prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?»

«Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide, aspettiamo che ce lo estradiate» [per chi non ricorda cos'è la U.C. ne ho parlato qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/01/terroristi-sulla-rotta-bhopal-porto.html].

Quest'ultima frase è della giornalista ed attivista anti-globalizzazione Arundhati Roy. Ma la questione non cambia di molto. Anzi.

Come più o meno dovreste sapere tutti – per lo meno tutti quelli che non si sono appassionati ai funerali di Vianello o all'ennesima lite Berlusconi-Fini – nei giorni scorsi sono stati firmati gli accordi Start2, nei quali Usa e Russia promettono di ridurre le testate nucleari. Per adesso però, visto che gli accordi sembrano essere stati firmati a decorrere dal 2018, anche gli Start2 vanno ad aggiungersi alle cartacce presenti nell'ormai affollatissimo cassetto delle “promesse propagandistiche”. Quel che però mi ha colpito di più in questa faccenda sono state le dichiarazioni del Presidente Usa Barack Obama, che ci ha tenuto a ribadire per l'ennesima volta che «gruppi terroristici come Al Qaeda hanno tentato di acquistare materiali nucleari per adoperarli in maniera devastante, questa minaccia è una delle più gravi per la nostra sicurezza collettiva».
La prima domanda che mi è venuta in mente riguarda proprio il c.d. “network terroristico” di Osama Bin Laden, il cui fantasma – vero o presunto – è buono per tutte le stagioni, in particolare quelle nelle quali bisogna trovare un “nemico pubblico numero uno” per coprire le proprie nefandezze: perché bisognerebbe aver paura delle eventuali testate atomiche in mano a Bin Laden e soci? Voglio dire: le testate nucleari ci sono a tutt'oggi in giro, perché quelle (eventuali) di Al Qaeda dovrebbero fare più paura di quelle

In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace

Lashkar Gah (provincia di Helmand, Afghanistan) - Siamo al quarto giorno di detenzione dei prigionieri politici Marco Garatti, Matteo Dell'Aira e Matteo Pagani, i tre operatori di Emergency rapiti - perché di rapimento si tratta - sabato 10 da forze afghane e britanniche dell'Isaf (International Security Assistance Force) di cui ancora nessuno è riuscito ad avere notizie certe fino ad ora.

L'unica cosa certa, per adesso, è il modo alquanto clownesco con il quale tutta la faccenda sembra essere stata gestita sia in loco, dove il governo ha prontamente smentito una fantomatica "confessione" dei tre a poche ore dal sequestro, sia da parte di tre dei principali esponenti del nostro Governo, la cui ormai consueta propaganda anti-Emergency risulta ancora una volta inutile e stucchevole e non fa altro che evidenziare, come se ce ne fosse ulteriore bisogno, l'inadeguatezza della nostra classe politica.

Prima di cominciare con il post però, devo rettificare quel che ho scritto nel precedente articolo ("Prigionieri politici"): i fermati totali sono nove, di cui solo uno risulta non essere italiano: oltre ai tre ancora in stato di fermo, infatti, ci sono un logista, un anestesista e tre infermiere italiane ed un fisioterapista indiano, tutti trasferiti quasi subito a Kabul dove - nonostante la propaganda guerrafondaia dica altro - con il ritiro dei loro passaporti risultano, in qualche modo, prigionieri anche loro.

Ma il punto principale, che a mio modo di vedere cambia un po' le cose, è un altro: come più volte ha ribadito Gino Strada in queste ore, per quella che gli stessi militari delle forze di invasione definiscono la più grande offensiva nella zona dell'ultimo decennio non c'è personale che possa testimoniarlo. Cioè non ci sono giornalisti, neanche i c.d. "embedded", cioè quelle persone che - con una penna in mano - vengono ingaggiate dagli eserciti per raccontare quanto sono forti e come esportano la pace casa per casa, aggirandosi in posti di cui non conoscono la lingua, entrando nelle abitazioni a suon di bombe e, se c'è tempo, stuprando o ferendone gli abitanti. Quel che è strano è proprio il fatto che, nel momento in cui viene annunciata una delle operazioni in cui maggiore dovrà essere il risalto dell'onore delle proprie truppe, non c'è nessuno, a parte i militari ed i civili naturalmente, che ne fissi gli accadimenti per il futuro. Che si nasconda una motivazione "politica" dietro la decisione di tacere il 100% dell'operazione?

A dircelo potrebbe

Io sto con Emergency. E tu?


Sabato 10 aprile militari afgani e della coalizione internazionale hanno attaccato il Centro chirurgico di Emergency a Lashkar-gah e portato via membri dello staff nazionale e internazionale. Tra questi ci sono tre cittadini italiani: Matteo Dell'Aira, Marco Garatti e Matteo Pagani.

Emergency è indipendente e neutrale. Dal 1999 a oggi EMERGENCY ha curato gratuitamente oltre 2.500.000 cittadini afgani e costruito tre ospedali, un centro di maternità e una rete di 28 posti di primo soccorso.

IO STO CON EMERGENCY

Firmate l'appello: http://www.emergency.it/appello/form.php?ln=It

Prigionieri politici.

Lashkar Gah (Afghanistan) - Qualche settimana fa – lo avrete sicuramente letto un po' su tutti i giornali – per un paio di giorni i giornali del circuito mainstream rimbalzarono in ogni angolo del globo la panzana che tal Leuccio Rizzo fosse la vera identità del Sub-comandante Insurgente Marcos, il (non)volto mediatico dell'Ezln, per una fotografia “rubata” pubblicata su un giornale messicano (di certo non filo-zapatista).
Per chi ha visto almeno una volta un'immagine del Sub-comandante la notizia si dimostrò da subito nella sua vera natura: una cavolata degna dei giornalisti italiani, visto che, accostate, le due fotografie rivelavano molte e fondamentali differenze tra la fisionomia del volontario pugliese e quella di Marcos. Per cui non rimaneva che etichettare la notizia in quelle “da pesce d'Aprile” - seppur con data errata – ed andare avanti.

Oggi i giornali ci ricascano. Anche se il peso della notizia è decisamente diverso: stando a quel che si legge sui quotidiani, infatti, tre dei principali operatori di Emergency – sulla quale non spendo parole di presentazione, tanta ne è la fama – stavano ideando nei giorni scorsi l'assassinio di Gulab Mangal, governatore dell'Helmand, una delle provincie meridionali dell'Afghanistan.

«Qualcuno mi convinca che ci sono medici italiani che rischiano la vita per anni in zone di guerra e poi si inventano un attentato contro il neo-governatore della regione. Ma per favore...È come se dicessero che hanno dovuto fermare Don Ciotti perché voleva assassinare il Papa».
A dirlo è Gino Strada, fondatore di Emergency. Secondo la ricostruzione ufficiale – cioè quella fatta dai militari – nei locali dell'ospedale sarebbero stati trovati cinque fucili, nove granate e sette giubbotti imbottiti di esplosivo che dovevano servire – in una logica guerrafondaia di cui Emergency è l'antitesi evidente – ad uccidere il governatore. Addirittura, stando al governatore, un membro straniero dell'organizzazione avrebbe ricevuto un anticipo di 500 mila dollari per ucciderlo.
È una ricostruzione che non sta né in cielo né in terra, non tanto perché non sia possibile trovare armi nei locali dell'ospedale: non ci sono controlli di alcun tipo all'ingresso, così come – ad esempio – non ce ne sono negli ospedali italiani, quindi che qualcuno sia potuto entrare armato è possibile, ma da qui a dire che quelle armi – che sembrano però esistere, come il video della perquisizione dimostra – si trovassero lì in attesa di essere usate in un attentato è una tesi

Portando la Croce...e Che Guevara.

In questi giorni è scoppiato – devo dire finalmente – il bubbone, che non arriva certo inatteso, della pratica pedofila all'interno della Chiesa. Questa volta sembra essere scoppiato nel pieno della sua virulenza, a differenza di quel che accadde qualche anno fa, quando circolò per un po' il famoso video dal titolo “Sex crimes and Vatican”, nel quale per la prima volta si portava questo problema al di fuori delle mura vaticane.
A differenza di quel che avvenne nel 2006, sembra essere maggiore anche l'interesse della pubblica opinione, e da più parti si inizia a parlare della necessità di una “rifondazione” dell'istituto ecclesiastico, che vede come massima provocazione – almeno tra gli articoli che ho letto io in questi giorni – l'articolo di Andrew Sullivan presente sul numero di “Internazionale” di venerdì scorso dal titolo: “Perché il Papa deve dimettersi”.

Quel che mi solletica maggiormente è proprio provare ad immaginare, e dunque a delineare, il profilo di una eventuale “nuova Chiesa riformata”. Niente fantasticherie da intellettualoide, naturalmente – cosa che peraltro non sarei neanche in grado di fare – ma, come al solito, presentazione, da queste pagine, di una diversa concezione della Chiesa e della visione cattolica della religione che già da anni è presente e conosciuta ma che, combattendo il Potere terreno di Santa Romana Chiesa è da sempre stato posto ai margini dell'insegnamento della “fede”.



Per capire a cosa mi riferisco partiamo - per l'ennesima volta - da Fabrizio De André, cioè dall'autore del quinto Vangelo, stando almeno alle parole di Don Andrea Gallo. L'immagine che trovate in apertura di questo post, e che spiega in pochissimo spazio la laica spiritualità di Faber è presa da “L'uomo Faber”, il fumetto distribuito da Repubblica ed ideato da Ivo Milazzo e Fabrizio Càlzia.
Da anarchico, infatti, De André aveva una visione assolutamente anti-clericale della religione, in quanto quel che oggi conosciamo come Chiesa altro non è che una forma di imperialismo – sia culturale che economico – e che, come tale, deve essere combattuto. Questione che ogni cittadino italiano dovrebbe ben conoscere, essendo questa pratica ben presente nella vita politica della nostra quotidianità, nonostante il nostro sia un paese laico e non teocratico (come invece evidentemente piacerebbe dall'altra parte del Tevere e ad alcuni esponenti dell'emiciclo parlamentare).

Qualche sera fa, su Sky è andato in onda “Angeli e Demoni”,

Guerra in affitto

«e mentre marciavi con l'anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore»
[Fabrizio De André – La guerra di Piero]

Che la guerra sia parte integrante della vita umana non è certo una novità. L'ha cantata magistralmente De André in pezzi come “La guerra di Piero”, “La ballata dell'eroe” o in “Fiume Sand Creek”. Prima di lui tanti e tanti, in ogni tempo e ad ogni latitudine, hanno scritto, cantato e raccontato la guerra: da Omero con i suoi poemi a Guccini passando per John Lennon, Patti Smith e Bob Dylan. Probabilmente a questi nomi se ne aggiungeranno tanti altri in futuro, e questo non perché – probabilmente – la guerra terminerà con l'uomo, ma perché c'è chi, con le guerre, ci fa un mucchio di soldi, e quindi non ha alcuna intenzione di vederne la fine.

Niente signori della guerra africani o venditori di morte alla Viktor Bout – il trafficante di armi magistralmente interpretato da Nicolas Cage in “Lord of war”: trattasi, più banalmente, di mercenari.
Si può dire che questo particolare tipo di soldato, quello senza bandiera e dalla divisa di un colore imprecisato, per citare nuovamente De André, sia nato il giorno stesso in cui – nella notte dei tempi – qualcuno decise di muovere guerra verso qualcun altro, per tutelare i propri interessi: dall'Impero romano ai popoli d'Oriente passando per il periodo della colonizzazione, ogni guerra ha avuto la sua buona dose di mercenari; anzi: prima dell'avvento degli Stati-nazione, la componente privata degli eserciti era di gran lunga superiore a quella “istituzionale” ed istituzionalizzata sotto una bandiera o una divisa comune.
E proprio dalle guerre di colonizzazione ci viene la concezione di “mercenario” che più o meno tutti abbiamo in testa: quella di tagliagole senza padrone il cui unico scopo nella vita è quello di uccidere per denaro.
Che si chiamino Lanzichenecchi, Capitani di ventura o – appunto – mercenari, i discendenti di Bob Denard, uno tra i più celebri mercenari che la storia ricordi, hanno segnato, e continuano a segnare tutt'oggi, la storia bellica dell'umanità.

«Le truppe statunitensi, britanniche e degli altri paesi della coalizione sono in Afghanistan per vincere la guerra. Per noi, più la situazione più si deteriora meglio è». A parlare non è qualche capo locale di Al Qaeda ma uno dei tanti contractors a cui oggi gli stati “democratici” hanno delegato gran parte del lavoro di retroguardia (e non solo) all'interno della gestione di un conflitto bellico.

Consulenza, addestramento e supporto logistico sono i tre ambiti in cui questi mercenari del XXI secolo vengono utilizzati maggiormente, perché oggi la guerra richiede

Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.

«Vince il partito dell'astensionismo». «È tutta colpa di Beppe Grillo». «Il paese ha completamente svoltato a destra».
Queste sono le tre notizie di una certa rilevanza del dopo elezioni. Stupito dei risultati? Direi proprio di no.
Io a votare non ci sono andato, per tanti motivi: ed il fatto che nell'ultimo periodo abbia vissuto una definitiva svolta anarchica non è neanche quello più importante. Ma prima di procedere voglio commentare l'ennesima barzelletta che vanno raccontando gli “alti generali” del Partito Democratico, che addossano la sconfitta a Beppe Grillo. Io credevo che anche per i partiti valesse quel concetto di “nomen omen”, cioè quell'idea di epoca Romana, con la quale si legava il nome al destino del nascituro, ma a quanto vedo non è così. Io quell'opera fatta da Beppe Grillo la chiamo semplicemente “concorrenza elettorale”, cosa che un partito che già dal nome invoca la democrazia dovrebbe vedere di buon grado, almeno come sfida a fare di più e – soprattutto – a far meglio. E invece più passa il tempo e più sembra che quell'aggettivo sia stato messo lì per ricordare ai piani alti qualcosa che, altrimenti, scorderebbero. Il problema non è Grillo, che per quanto mi sia particolarmente inviso – ed i lettori non occasionali del blog lo sanno – sta quantomeno tentando di far entrare un po' di gente nuova nel panorama politico. Gente e soprattutto idee nuove, quelle che mancano a persone che fanno politica da 30,40 anni (cioè la quasi maggioranza dei politici di primo piano che si rifanno all'area di sinistra) e che sarebbe anche l'ora si dedicassero a qualche attività di altra natura, tipo la pesca o l'uncinetto, che avrebbero sicuramente un impatto minore sulle sorti del Paese.

Anche se non avessi abbracciato gli ideali di Enrico Malatesta, Michail Bakunin, Pierre-Joseph Proudhon e tanti altri, questa volta alle urne non ci sarei andato ugualmente, principalmente perché ho sempre odiato quella concezione del “vai a votare, vota anche il meno peggio, ma vota”, quella moda tutta italiana di turarsi il naso ed apporre una X su questo o quest'altro simbolo, a seconda di ordini di scuderia nei quali la c.d. “base” non ha alcuna voce in capitolo. Io vado a votare solo se c'è qualcuno che mi convince, come non ho avuto problemi – qualche mese fa – ad attivarmi in prima persona per Ignazio Marino durante le primarie per l'elezione del segretario del PD. Ma poi quegli stessi ordini di scuderia, quelle stesse strategie che non capisco e mai capirò,