Musica socialmente sensibile...vol. II

Stanotte ho avuto un incubo: ho sognato che accendevo la tv, trasmettevano un programma musicale. Presentavano i nuovi “cavalli di razza” della musica italiana e sul palco si presentavano Valerio Scanu e Marco Carta. Poi ho aperto gli occhi e mi sono accorto che era solo un servizio sul Festival di Sanremo.

Uno shock puro. E la prospettiva di ascoltare la radio e sentir cantare uno che prova piacere a fare l'amore nei laghi – oltre ad essere una notizia di cui francamente potevo anche rimanere all'oscuro - è ancora peggio, quindi la ricerca ossessiva di qualcosa di diverso diventa l'unica via salvifica per l'apparato uditivo ed il sistema nervoso.

La prima tappa di questo ipotetico viaggio di purificazione dalla melensaggine di un certo tipo di musica – quella che piace tanto al popolo del televoto – ci porta nella Nuova Spagna (nella zona dell'odierna Città del Messico) della metà del '700. È qui infatti che, nel 1731, nasce Jacinto, un rivoluzionario Maya che – col nome di battaglia Canek (“serpente nero”) - incitò gli indios alla sollevazione popolare contro gli invasori spagnoli.
Circa trecento anni dopo – nel 2002 – nella Val Policella, sulle Prealpi veronesi, nascono gli Jacinto Canek (pronuncia: Hasinto Canèk). Definire quale sia la loro scena musicale di provenienza è praticamente impossibile, si può però iniziare a darne una definizione pensando al combat-folk dei Modena City Ramblers o alle contaminazioni mediterranee degli Almamegretta prima e di Raiz poi: Gli JC si situano più o meno nel mezzo, prendendo l'impegno storico e politico dei testi (basti ascoltare pezzi come “Banditi” o ”Serpente Nero” nel primo caso e “Divise” nel secondo) rigorosamente in italiano, mischiato a sonorità provenienti da tutta l'area mediterranea (così com'è consuetudine di una certa scena musicale meridionale che va dal già citato Raiz ad Enzo Avitabile).
Il loro album d'esordio è “Banditi”, uscito già nel 2007, che vede anche collaborazioni importanti se contestualizzate nella “etnicità” di un gruppo che, partendo dalla scena hardcore si addentra nel blues, nell'hip hop, nel raggae pur non disdegnando il metal puro. Tra queste è da ricordare il canto di Bachir Charaf, la voce del deserto presente in “Fuoco e Cenere”.
Il gruppo vede inizialmente la partecipazione di sei elementi (Mirco Fischetti – voce e percussioni; Andrea Pontara alle chitarre; Damiano Martignago al basso; Fabio Dalla Bernardina al didgeridoo, il tipico strumento a fiato degli aborigeni australiani e

Posso abdicare alla "razza" maschile?

D'accordo che una delle mie massime preferite è la famosa «Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo» che, peraltro nulla ha a che fare con Voltaire se non quella di comparire in una sua biografia scritta da Stephen G. Tallentyre, pseudonimo di Evelyn Beatrice Hall (sarà un caso che cotanta frase sia stata concepita dalla mente di una donna?), e che secondo l'art.21 della Costituzione del nostro sgangherato paese tutti hanno diritto di esprimere la propria opinione, ma ogni tanto mi chiedo se più della quantità non sia meglio favorire la qualità dei pensieri espressi.

Mi riferisco al “meraviglioso” articolo di Massimo Fini sullAntefatto che già dal titolo lascia – o dovrebbe lasciare – alquanto sgomenti: “Donne, guaio senza soluzione”.
Credevo fosse difficile - se non impossibile - riuscire a scrivere qualcosa che potesse scandalizzarmi, vista la miserrima qualità dell'informazione nostrana, ma questo profluvio di maschilismo, misoginia, luoghi comuni e stupidità è riuscito a farmi indignare. Anche se mi indigna di più sapere che molte di quelle donne che lanciano i loro strali contro le misoginie di Berlusconi in questo caso non diranno niente. Perché? Perché Fini scrive sul giornale di Travaglio, quindi scrive “dal lato buono della forza”; che poi dicano che sia un giornale “il cui unico padrone è il lettore”, oltre ad essere una gran bella barzelletta mi fa dubitare, ma su questo ci torno in seguito.

Mi chiedo se Fini conosca Ciudad Juarez, una città messicana al confine con gli Stati Uniti ribattezzata “la città che uccide le donne”: potete leggerne qui [http://senorbabylon.blogspot.com/2009/03/bienvenidos-en-el-infierno.html nel primissimo articolo di questo blog] oppure guardare Bordertown, che racconta esattamente questa storia.
Io credo che di questa non proprio paradisiaca cittadina il nostro non ne abbia neanche mai sentito parlare così, per caso, altrimenti non so come spiegarmi una frase del tipo: «al primo singhiozzo bisognerebbe estrarre la pistola». Mi irrita più di quanto si possa immaginare una frase del genere, perché siamo qui quotidianamente a leggere e denunciare di stupri, di femminicidi, di violenze di genere e poi permettiamo che si possa scrivere questa istigazione all'omicidio su un giornale a tiratura (quasi) nazionale? Mi chiedo come Travaglio possa lasciarsi scappare un'occasione del genere: visto che nei suoi articoli si erge al triplice ruolo di accusa, giuria e giudice – con tanto di sentenza

Di bombe anarchiche, Potere ed altre storielle...



"Noi crediamo ancora nell'obbedienza loro credono nelle bombe. E' certo che c'hanno torto, ma mica è detto che per questo c'avemo raggione noi"

[Nino Manfredi - In nome del papa re]

Er popolo frescone


Marforio: «Caro Pasquino, che tempacci brutti! Tu di' si ciò raggione; er popolo è fregnone come er cerino: se fa fregà da tutti!»
Pasquino: «Caro Marforio, è giusto er paragone, però er popolo è ancora più frescone, perché er cerino, lo sai pure tu, lo pòi fregà 'na vorta, poi nu' lo freghi più!»

Adesso ve la faranno passare più o meno in questi termini: questi “vili” anarchici, questa gentaglia che crede solo nel caos e nelle bombe vuole destabilizzare lo Stato e si sono fatti sentire in questi giorni perché avrebbero avuto il massimo del ritorno mediatico. Ma lo Stato è come la religione: vale se la gente ci crede, come direbbe Errico Malatesta.

C'è ancora qualcuno che crede in un'affermazione del genere? È dal 1969 che il Potere – di qualunque colore ed estrazione socio-politica e culturale – tenta di attribuire a coloro che non credono nella delega e nella dominazione dell'uomo da parte dell'uomo mire terroristiche. Poi lo sappiamo come finisce: qualcuno vola dalla finestra, così da placare la voglia di sangue umano del popolo giustizialista e forcaiolo e pratica chiusa. Il Potere torna ad uccidere, violentare, cospirare ai danni del popolo mettendogli davanti il teatrino di dichiarazioni, denunce di colpi di stato e tutto quel corollario che serve per continuare a detenere il titolo di “pagliacci di corte”, come hanno a dire anche molti giornalisti esteri, che sapendo esattamente cos'è il mestiere – o la missione – del giornalista non si occupano di barzellette e affini.

State tranquilli: nessuno, con “l'attentato” di ieri a Milano, voleva destabilizzare lo Stato, quindi o caro popolo italiano, puoi continare a dormir tranquilli sonni: anche domani avrai il Padrone a dettarti la vita.
Mi chiedo poi cosa potrà mai essere una “bomba anarchica” che ha fatto pochissimi danni – e di cui tempo un paio di giorni ci saremo dimenticati, così come ci siamo dimenticati dell'”attentato” al premier – se confrontiamo questo atto con le politiche repressive attuate quotidianamente da quello Stato che oggi vi chiama ad obliterare il vostro diritto di cittadini o con il lassismo verso i Padroni che ormai da anni permette lo stupro quotidiano del nostro territorio da parte di potentati extra-nazionali od economici (Tav e Dal Molin su tutt*), genocidi quotidiani che prendono il nome di “morti sul lavoro”, disprezzo della vita del popolo con la chiusura di fabbriche e/o la delocalizzazione delle aziende che non serve ad altro che a far ingozzare ancora di più il signor Padrone.

Per la libertà d'informazione. Sì, ma di chi?

Ok, passata la sbornia è il momento di tirare le somme. Quel che è successo ieri sera a Bologna è stato definito in tanti modi: “rivoluzione”, “caduta del muro della censura” e così via. Ma siamo davvero sicuri che ieri sia successo qualcosa?

Tra alti e bassi – che voglio divertirmi ad analizzare a breve – cosa abbiamo visto? Abbiamo visto che Michele Santoro, con truppa annessa, è capace di portare migliaia di fan davanti ai teleschermi o ai video dei pc, davanti ai megaschermi o al PalaDozza. Se avesse deciso di trasmettere dallo scantinato di casa sua avrebbe probabilmente avuto lo stesso effetto. C'era per caso qualcuno che davvero pensava che la serata fosse un flop? Lo avevamo già visto qualche mese fa – chi lo ricorda? - cosa succede quando Santoro chiede l'aiuto della “ggente” - come direbbe Sandro Curzi – e della rete: il lancio di questa edizione di AnnoZero avvenne proprio tramite rete, sfruttando la viralità dei siti, dei blog etc etc.

E poi? Poi cosa abbiamo visto? Abbiamo visto quel che succede tutti i giovedì sera: indignazione, rabbia, considerazioni sul fatto che questo paese è governato da ladri e persone dalla degna moralità. Poi è finita la diretta e tutti si sono sentiti più realizzati, perché la “rivoluzione” l'abbiamo vista in diretta dagli schermi di un pc o su qualche rete satellitare/locale. Ma se qualcuno crede che il Paese si rivolti grazie a più o meno tre ore di diretta televisiva c'è ancora molto da lavorare...

Diciamoci la verità: quali sono stati i temi veri, quelli importanti per ogni singolo abitante del suolo italico, sui quali è caduto il velo della censura ieri sera? C'è stato un brevissimo accenno alla crisi economica, con tanto di presenza parlante delle lavoratrici Omsa che per colpa di un padrone ingordo verranno licenziate e sostituite con loro colleghe serbe che costano di meno. Piccolo inciso: se spero con tutto il cuore che i soldi che questo tizio guadagnerà in Serbia gli vadano di traverso commetto peccato mortale? Vabbé, tanto sono ateo che me frega...

A parte gli scherzi: di quanto si è parlato della vicenda di queste operaie e della crisi in generale? Poco, pochissimo. Eppure sentendo i discorsi dei cassintegrati, dei lavoratori interinali, dei neo-licenziati a loro interessa più sapere come portare il pane in tavola tutti i giorni piuttosto che essere sicuri di vedere Santoro il giovedì sera.
Ma come ha ammesso lo stesso Gad Lerner in puntata la crisi non produce audience, e questo a lor signori non piace.

Perché ho deciso di trasmettere "Raiperunanotte".

Chi mi conosce e chi ha il coraggio di leggermi in maniera più o meno assidua sa che non sono un grande estimatore del "trio della denuncia" Travaglio-Santoro-Grillo e che più di una volta ho scritto cose che non certo farebbero piacere ai loro fans.
Nonostante questo, naturalmente, non mi piace l'idea che debbano essere zittite delle voci in un paese che si definisce democratico - ma che ogni giorno di più nella realtà diventa ben altra cosa - e che ha adottato un'articolo - il "famoso" art. 21 - che recita:

«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.»

e per "tutti" io intendo proprio tutti.

Per cui, sperando che non ci siano problemi con lo streaming questa sera, a partire dalle ore 21, potrete seguire la diretta streaming di "Raiperunanotte" anche dalle pagine di Señor Babylon.

Stay tuned.
E buona democrazia a tutti.

La vera prigione


Non è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che ronzano
Nella umida, misera cella.
Non è il rumore metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non sono le meschine razioni
Insufficienti per uomo o bestia
Neanche il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non è
Non è
Non è.
Sono le bugie che ti hanno martellato
Le orecchie per un'intera generazione
E' il poliziotto che corre all'impazzata in un raptus omicida
Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La punizione, lei lo sa, è ingiusta
La decrepitezza morale
L'inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra urina
E' questo
E' questo
E' questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione.

Horacio Ángel Ungaro

È difficilissimo – se non praticamente impossibile – riuscire a scrivere una biografia di quei 30.000 argentini che la dittatura militare di Jorge Videla fece sparire tra il 1976 ed il 1983 nell'ambito del Processo di Riorganizzazione Nazionale tra l'ESMA(la Escuela de Mecánica de la Armada, cioè la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina di Buenos Aires), il “Pozo” di Banfield ed i tanti campi di detenzione illegali che gli uomini della Tripla A – gli squadroni della morte della polizia argentina – gestirono sotto la dittatura. È difficilissimo non tanto scrivere una biografia dei desaparecidos, di tutti e 30.000, quanto scrivere qualcosa su ognuno di loro, ed è forse questa la vera “sfida” di chi vuole mantenere viva la memoria di quella che è stata la pagina più nera della storia dell'Argentina e tra le più nere della storia del mondo intero.

Avevo già iniziato a Natale, raccontando la storia di Maria Claudia Falcone, la giovane dirigente dell'UES (la Unión Estudiantes Secundarios) considerata un po' l'Anna Frank argentina. Continuo oggi, oggi che è il 24 Marzo, cioè il giorno in cui – nel 1976 – la notte calava sui figli d'Argentina, quella stessa notte che continua ancora oggi, a 34 anni di distanza, squarciata dal forte grido che ogni giovedì sera migliaia di donne lanciano in Plaza de Mayo. Sono le madri dei desaparecidos, conosciute con il nome di Madres de Plaza de Mayo. Chiedono solo una cosa: la riapparizione, da vivi, dei propri cari.

Molti di quei 30.000 erano ragazzi, studenti che, come molte volte abbiamo potuto vedere nei documentari sul maggio francese o sul '68 italiano, dalle aule universitarie gridavano che no, il mondo ingiusto in cui era toccato loro di abitare non gli piaceva, ed i ragazzi dell'UES non erano certo da meno.
Molti di quei 30.000 erano ragazzi come Maria Claudia, come Pablo Diaz – l'unico sopravvissuto alla c.d “notte delle matite spezzate”- come Maria Clara Ciochini o come Horacio Ángel Ungaro, di cui oggi voglio raccontare la storia in questo secondo post della mia personalissima "rubrica" per ricardare i desaparecidos .

Horacio nasce il 12 maggio del 1959 a Buenos Aires. È il minore di quattro fratelli: Luis Arsenio (12 anni), Martha Noemí (11) e Nora Alicia (6), ai quali è molto legato, come ogni figlio più piccolo in una famiglia ampia. Aveva un rapporto particolare con Martha, la sorella più grande, che ammirava e che, in qualche modo, aveva preso a modello tanto che, dopo le scuole dell'obbligo,

Le mammane 2.0

«L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, puo’ essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».

In quest'ultimo periodo si stava creando una convinzione sempre più netta in me, alla quale ieri hanno ben pensato di dare l'ultima spinta per poter dire che l'Italia è di nuovo sotto regime fascista. Basta guardare a quel che succedeva ieri durante quella scampagnata lì a Roma – qualcuno ha avuto il coraggio di chiamarla “manifestazione” - dove non era così difficile incontrare bandiere con la croce celtica o qualche nostalgico della X Mas che, vista la libertà di cui godeva, ha ben pensato di intonare “Faccetta Nera”.
Ma il focus, come si può facilmente evincere dall'incipit di questo post non è la riunione del Popolo della Libertà ieri nella capitale (niente: proprio non ce la faccio a scrivere che quella era una manifestazione).
Quel che mi colpisce oggi – e che dunque mi porta a scriverne – è un'altra questione. Una questione ben più importante e che ci riporta indietro nel tempo, e non solo perché per iniziare il racconto, dobbiamo tornare al 1981, al 17 maggio 1981 per la precisione.

In quella data, molti lo ricorderanno (per gli altri, come me, esistono sempre i racconti dei più grandi o la rete) il Partito Radicale, chiese al popolo di esprimersi in merito all'aborto ed a tanti altri aspetti della quotidianità di ognuno quali l'obiezione di coscienza in chiave non-violenta, l'abolizione dei Tribunali Militari, contro l'ergastolo etc. Il primo dei referendum ivi citati è quello di cui mi interessa parlare in questa sede: non tanto riaprire il dibattito sull'essere a favore o contrari all'aborto, visto e considerato che io – che ovviamente posso solo immaginare cosa si possa provare in una situazione del genere – sono fermamente convinto che decisioni simili, come quelle sull'eutanasia, debbano essere lasciate alla libera decisione di chi le subisce e che quindi il compito del legislatore sia solo quello di aprire legalmente alla possibilità di poter scegliere, nell'una o nell'altra strada.

Da quel che so, da quel che si può sentire dalla voce di chi quei referendum li volle (Marco Pannella)

Lettera ad Ilaria Alpi.

Cara Ilaria,

Ci ho provato per tutto il giorno a scrivere una biografia su di te, una biografia che mi aiutasse a spiegare chi eri a chi non ti conosce, o a chi mi chiede perché ti ho dedicato il mio blog. Ma niente: non ci sono riuscito.

Non ci sono riuscito per tanti motivi: perché è difficile scrivere qualcosa che non sia stato già detto senza poter contare su esperienze personali o cose che i tanti libri, i film e gli articoli non abbiano già detto e senza voler riscrivere per l'ennesima – forse inutile – volta del “caso Ilaria Alpi”, perché come al solito volevo scrivere qualcosa di originale, qualcosa che non fosse un semplice copia e incolla di date, nomi, luoghi che non conosco, ed ogni volta che le dita iniziavano a muoversi sulla tastiera e le parole, i concetti, le idee iniziavano a prendere forma sul video mi sembravano sempre troppo banali.
Anche perché come fai a spiegare a parole quello che rappresenta un mito, una di quelle persone che quando le incontri – fisicamente o in altra maniera – ti cambiano la vita, le prospettive ed i progetti per il futuro.
Perché a me è successo proprio così: ti ho “incontrata” un giorno, per caso, o forse dovrei dire per fortuna: avrei dovuto leggere “Guerra e Pace” di Tolstoj o “Il giovane Holden” di Salinger per le vacanze, ma nessuno dei due libri era disponibile. In uno scatolone però c'era un libro: “Ilaria Alpi. Un omicidio al crocevia dei traffici”, e non so cosa fu, se quell'immagine che ti ritrae con il velo bianco in testa che mi colpisce ancora oggi o chissà cosa. Sta di fatto che più leggevo, più scorrevo tutto quell'insieme di misteri che ancora oggi, nonostante oggi siano passati 16 anni esatti, avvolge la tua storia, e più mi chiedevo cosa fosse successo davvero, perché ti avessero uccisa e soprattutto perché. Ma in questo so di essere in buona compagnia, visto che fortunatamente non sono l'unico a pormi questa domanda.

Forse è anche per questo che non riesco a scrivere su di te. Perché per scrivere di Ilaria Alpi bisogna scrivere per forza dei mille intrecci, della Somalia e dell'Italia, di Siad Barre e della Garowe-Bosaso, l'autostrada delle scorie nucleari. Oppure scrivere di Giorgio Comerio, l'”imprenditore” nel campo dello smaltimento di rifiuti tossici che in una cartellina gialla possedeva il tuo certificato di morte. Oppure scrivere dell'intervista a Abdullahi Mussa Bogor, il “signore di Bosaso” di cui il mondo conosce solo 12 minuti delle 2 ore e 30 di girato. E non bisogna dimenticarsi

Sulla via di Stalingrado

Questa è una settimana strana, una settimana in cui la storia - quella scritta con la minuscola, quella che non arriva quasi mai sui libri di storia ma senza la quale i libri di Storia non ci sarebbero - ha deciso che Fausto e Jaio nel 1978, Dax e Rachel Corrie nel 2003 dovessero rimanere uccisi sotto i colpi del fascismo. Fausto e Jaio - al secolo, rispettivamente, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci - muoiono il 18 marzo a 18 anni sotto i colpi di una calibro 32 in via Mancinelli, a Milano, dopo una serata - una delle tante - passate al Leoncavallo, uno dei centri sociali storici del capoluogo lombardo; ma negli anni'70 che tu possa morire di politica in qualche imboscata lo metti in conto, visto che siamo nel pieno della seconda guerra partigiana dopo quella per la liberazione da Mussolini. "Dax" si chiamava Davide Cesare, muore a 26 anni nella notte tra il 16 ed il 17 marzo, sotto le coltellate di tre neofascisti di 17,28 e 54 anni - quest'ultimo padre dei due giovani - e per colpa di quelle forze dell'ordine che, dalle insanguinate strade di Genova nel 2001 si è arrogata il diritto di decidere sulla vita o la morte, come i casi di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi insegnano.

Non so se negli Stati Uniti ci siano i centri sociali, quello che so è che Rachel Corrie muore nello stesso giorno di Dax, per colpa di quello stesso fascismo che, se in Italia uccide i propri figli, rei di non essersi "allineati" a Rafah - dove Rachel venne uccisa - permette da oltre un secolo che un popolo viva sotto assedio per una sorta di (in)giustizia storica verso gli occupanti.
Non so perché la storia di Rachel mi abbia sempre colpito più di altre, più di tutte. La sua come quella di Valerio Verbano la cui madre - Carla - combatte ancora oggi, a 30 anni di distanza, per sapere chi gli ha portato via quel figlio di 19 anni, con quella stessa tenacia che rivedo ogni giorno in Argentina, tra le Madres, le madri dei circa 30.000 desaparecidos che la dittatura argentina ha prodotto in quegli stessi anni in cui qui in Italia, se sbagliavi strada o quartiere, rischiavi di non tornare più a casa. Forse perché Rachel è l'unica ragazza in questo gruppo, forse perché decise un giorno di lasciare la sua città - Olympia, nello stato di Washington - per andarsene a migliaia di chilometri da casa ad aiutare il popolo della Palestina. O forse, più semplicemente, perché Rachel aveva 23anni, la mia stessa età, e a volte mi chiedo come sia morire schiacciati da un bulldozer a 23 anni.
Sono passati

Al grande coro della Guerra Santa al Terrore

Londra (Inghilterra) - «La corte la condanna ad anni 2 di carcere per aver stonato nel coro della guerra santa al terrore». Potrebbe essere questa l'ipotetica fine del processo a Joe Glenton che si sta tenendo in questi giorni in Inghilterra. La “stonatura” di Joe, che ha 26 anni e fino ad un anno fa faceva il caporale per le forze di occupazione britanniche in Afghanistan, è quello di aver detto «NO! La guerra combattetevela da soli!»

Joe si arruola nel 2004 nell'esercito britannico, due anni dopo chiede di essere inviato in Afghanistan, convinto dalla propaganda mondiale che la guerra – qualunque essa sia ed ovunque essa venga combattuta – sia un modo per portare la pace e la democrazia.
Però la guerra è qualcosa di diverso. Non è come gliel'avevano raccontata il governo “democratico” del suo Paese o durante l'addestramento. La guerra “vera”, quella vissuta sulla propria pelle è molto diversa da quella che raccontano nei film, e Joe ne rimane talmente shockato che gli viene diagnosticato il Ptsd, il Disturbo da stress post traumatico, una sorta di “malattia professionale” per chi, alla voce “professione”, ha scritto: fare la guerra. Con una diagnosi del genere non puoi tornare al fronte, perché diventi pericoloso per te stesso e per i tuoi compagni (e l'Inghilterra è tra i paesi più colpiti da lutti tra i militari al fronte afghano), ma l'ottusità dei vertici militari gli impone il ritorno, perché lui “deve servire la Patria”. Joe però di ritornare a fare la guerra, quella guerra ingiusta che uccide indistintamente “terroristi” e civili, e che certo non porta “la pace e la democrazia” proprio non ne vuole sapere. Allora decide di fare una cosa che sempre più si sta diffondendo tra i militari: se ne va di sua sponte. Decide che la sua licenza avrà scadenza illimitata. Così come hanno già fatto 17.000 soldati prima di lui.

Joe è un soldato, è vero. Ma non è un burattino, ed i suoi diritti li conosce. E conosce anche quello Statuto del Tribunale di Norimberga dove si dice che un militare ha l'obbligo legale di non eseguire un ordine illegale. E andare a far la guerra per assecondare i voleri geopolitici ed economici di un altro paese – gli Stati Uniti – è illegale. Portare morte e distruzione, invadere una terra senza averne motivo: tutto questo è illegale, che sia la legge dell'uomo a giudicare o che sia quella di Dio, per chi ci crede naturalmente.

Sono circa 17.000 i casi di diserzione – perché di questo si tratta, in sostanza – ma perché a pagare è soltanto Joe?

Reintrodotto il reato di "lesa maestà" in Italia.

Genova (Italia) - La storia italiana è costellata di “omissis”, quei bei cari coni d'ombra che tanto piacciono ai burattinai del Potere ed a chi – ovviamente – ne beneficia. L'elenco è lunghissimo: da Piazza Fontana a Brescia, da Ustica all'omicidio (politico?) di Pier Paolo Pasolini.Le ferite di Genova, di quella Genova che nel 2001 venne militarizzata per il volere di una manciata di “potenti” che decisero di riunirsi nel capoluogo ligure per decidere sulle sorti del mondo, o meglio: decisero quali dovevano essere le tecniche per continuare a far parte del mondo “bello, buono e ricco” uccidendo popolazioni e terre del resto del mondo.
A 9 anni di distanza quei giorni sono passati alla storia come «sospensione della democrazia», che di certo nulla hanno a che fare con le denunce di “golpe” che, con un certo pressappochismo, sembrano essere di gran voga in questi giorni per esaudire i desideri del nuovo cavaliere del centro-sinistra italiano (che di sinistra non ha nulla) cioè Di Pietro. Ma questa è un'altra storia...
La storia di oggi, invece, ci riporta di nuovo a Genova, a quelle strade, alle botte ed alle torture. Il 16 settembre 2005, sul quotidiano Liberazione, compare un articolo – a firma Checchino Antonini – dove si raccontava della forte polemica politica tra il senatore Gigi Malabarba, allora capogruppo di Rifondazione ed alcuni sindacati di polizia. Il motivo? Gli ottimi voti che l'allora capo della polizia De Gennaro aveva dato a due funzionari presenti in quei giorni. Non ci sarebbe in realtà molto da stupirsi, sapendo che molti degli uomini che in quei giorni formavano il braccio politico-repressivo del governo sono stati promossi, evidentemente il lavoro fatto alla Diaz, a Bolzaneto e con Carlo Giuliani è piaciuto molto ai “piani alti”.

Non ci sarebbe niente da stupirsi se non fosse che l'altra parte del braccio politico-repressivo della legge, cioè quella magistratura feroce con i deboli e ossequiante con i Potenti, ha comminato una pena di otto mesi di reclusione per Antonini e Piero Sansonetti, allora direttore di Liberazione. Ufficialmente, stando alla sentenza di primo grado, ci sarebbe “diffamazione” da parte del quotidiano comunista verso alcuni di quei tutori della legge che a Genova di legge ne tutelarono una sola: quella del più forte.
È lapalissiana la caratura politica di tale decisione: non si colpisce la stampa cazzara, la stampa dello “sbatti il mostro in prima pagina e poi redimiti” come il filo-governativo Feltri nella vicenda Boffo. È lapalissiana la volontà di colpire un giornalista-giornalista che nella sua carriera si è “macchiato” di vari articoli ed inchieste contro il Potere, come quelli che hanno permesso di tenere i fari puntati sul caso Aldrovandi, il diciottenne studente ferrarese ucciso da uomini in divisa un po' troppi ligi al dovere una notte del settembre di cinque anni fa. È evidente che ai piani alti vogliano aggiungere “Genova 2001” a quel lungo elenco di pagine oscure della storia recente e passata del nostro Paese. Anche per questo bisogna fare il possibile affinché non si torni a dover scontare la pena di “Lesa Maestà”.

Per aderire all'appello (che trovate qui: http://www.carmillaonline.com/archives/2010/02/003356.html) inviate una e-mail all'indirizzo: liberalacronaca@gmail.com ed iscrivetevi al gruppo facebook

solidarietà al compagno Checchino Antonini ed a Piero Sansonetti

Ancora sangue anarchico...

Atene (Grecia) - Torna a scorrere il sangue degli anarchici ad Atene. Dopo Alexis, ucciso il 6 dicembre 2008 è la volta di Lambros Foundas, 35 anni. Il fatto è accaduto nei giorni scorsi nel sobborgo di Dafni, nella zona sud della capitale. Il suo nome compariva nell'elenco dei 500 arrestati al Polytecnico nel 1995. Non sono molte le notizie fin qui trapelate, quel che è chiaro, come al solito, è che il lungo - ed ignorante - braccio repressivo del Potere ha ucciso un "terrorista" intento a rubare un'auto. Armato - stando a quanto sostiene la polizia - sarebbe stato ucciso durante uno scontro a fuoco, anche se i proiettili ricevuti alla schiena fanno pensare a tutt'altro...

È una storia che ormai conosciamo a memoria: quando il Potere decide di spargere il sangue di solito a scorrere è quello degli anarchici, perché più facilmente etichettabili come "terroristi". Fu così per Giuseppe Pinelli, l'anarchico "suicidato per conto terzi" a Milano negli anni '70, è stato così per Carlo Giuliani. Oggi è così per il compagno Lambros.

Beh, se un terrorista è chi si batte contro questo schifo di mondo che ci è toccato di abitare, allora sarà onore ai terroristi!

Su Indymedia Atene è possibile vedere le foto del luogo dell'omicidio.

"ONORE AL COMPAGNO ANARCHICO LAMBROS FOUNDAS"

Si scrive Grecia, si legge (scuola di)Chicago.

Atene (Grecia) - «Potremmo uscire dall'Unione Europea per imporre un vero cambiamento politico al Paese». Sono le parole di Alexandra “Aleka” Papariga, leader del Kke, il partito comunista greco, durante una conferenza stampa a margine degli scontri che si registrano in terra ellenica in questi giorni.

Dicono sia una crisi di natura economica. Dicono che la Grecia abbia “barato” sul deficit, anche se i dati non sembrano poi così allarmanti se paragonati al resto del vecchio continente. Basti pensare che il deficit pubblico – cioè le spese che non riescono ad essere coperte dalle entrate – si stima sia intorno al 12,7% rispetto al PIL, con la Francia - uno dei paesi da sempre considerati traino per l'economia e la politica continentale - che attesta lo stesso dato intorno all'8%, mentre il debito pubblico ellenico, cioè il debito contratto verso altri soggetti (sia pubblici, come altri Stati, che privati come le banche) attraverso l'emissione di obbligazioni - cioè attraverso un titolo di debito utilizzato quando si necessita di una maggiore liquidità – si attesta sul 113% (quello italiano, dati 2008, è al 105%).

Per risolvere la “crisi”, nei giorni scorsi il governo presieduto dal socialista George Papanderou ha creato un “pacchetto” di soluzioni del valore di 4,8 miliardi di euro che prevede:

  • tagli alla quattordicesima mensilità (60%);
  • tagli alla tredicesima mensilità (30%);
  • nuova riduzione delle indennità salariali (12%)
  • congelamento delle pensioni, in aggiunta al congelamento di tutti i salari pubblici annunciata prima di questo pacchetto;
  • aumento dell'Iva (che colpisce solo il consumatore finale, che non può scaricarla su di un altro compratore, che passa dal 18 al 21%);
  • taglio dei bonus ai manager pubblici;
  • aumento delle imposte su alcool (+20%), sigarette (+65%), benzina (+8 centesimi al litro); gasolio (+3 centesimi) e beni di lusso.
Se gli ultimi due punti possono essere condivisibili, la stessa cosa non si può certo dire per quell'insieme di tagli e aumenti che vanno a colpire sempre – e solo – la popolazione.
Se questa situazione fosse successa in Italia – e non è detto che non succeda, anzi – al massimo i sindacati avrebbero indetto un patetico sciopero di 3 ore utile solo ai padroni. Ma la Grecia – fortunatamente – non è l'Italia.
Nei giorni scorsi sono scesi in strada a protestare tutti: dai compagni anarchici di Exarchia passando per studenti, lavoratori pubblici e pensionati, bloccando le strade, irrompendo nei ministeri (nei giorni scorsi il Pame – il sindacato comunista – ha occupato il ministero delle Finanze) e alzando la voce al grido di quel «noi la crisi non la paghiamo!» il cui eco – ormai lontano – è passato qualche mese fa anche in Italia. Poi, naturalmente, nel nostro Paese si è deciso di discutere del nulla...
«Noi la crisi non la paghiamo!» urlano per le strade di Atene. Ma dovremmo urlarlo anche noi in Italia, così come dovrebbero farlo spagnoli, portoghesi, americani, cioè tutti coloro che si ritrovano nelle mani della cosiddetta “alta finanza”. Perché se la crisi c'è stata, è colpa dei grandi finanzieri, delle banche e di tutti quei soggetti – fisici o giuridici – che hanno il vezzo di giocare a fare i capitani di ventura con denaro altrui. E si sa che a giocare con i soldi degli altri ci si fa sempre poco male...

«Dobbiamo pagare noi un debito che altri hanno contratto, senza chiederci il parere e senza informarci?» questa è, in sintesi, la domanda al referendum voluto dal governo islandese – l'unico paese dichiarato in bancarotta della storia umana – dopo la proposta di legge sul rimborso di un debito che è stato provocato da altri – che continuano a guadagnare anche, e soprattutto in tempi di sciagure – ma che, come al solito, doveva essere ripagato dalla povera gente, da chi si vede in balia delle decisioni economiche senza avere neanche la possibilità di capire cosa gli succede intorno (ma sappiamo che una delle prerogative principali del Potere è proprio quella di non volere opposizione critica e pensante). Il risultato? Il 5,3% delle schede erano nulle o bianche e ben il 93% ha risposto urlando di nuovo quello slogan, quello dietro a cui si sta creando davvero quell'Europa Unita voluta dai potentati. Peccato che il loro sogno fosse diametralmente opposto all'Europa dei Popoli.

Peraltro la “pistola fumante” è ancora sul tavolo dei Potenti: si chiama Credit Default Swap e, come riporta il Sole24Ore
«è un baratto, e in questo caso il baratto consiste in questo: la parte A paga periodicamente una somma alla parte B, e la parte B in cambio si impegna a rifondere alla parte A il valore facciale di un titolo C, nel caso il debitore C vada in bancarotta. Insomma, A ha comprato l'obbligazione emessa da C, ma A vuole esser sicuro che C rimborsi il capitale alla scadenza. La finanza ha creato questo strumento di copertura del rischio, e il credit default swap è in effetti come una polizza di assicurazione. Se, per esempio, il valore dei titoli acquistati è di 100mila euro (facciali), e il cds è di 120 punti base, vuol dire che A deve pagare ogni anno 1200 euro per essere sicuro del rimborso. Questi cds sono quotati in mercati over the counter, e se il costo dovesse balzare, mettiamo, a 800 punti base, vuol dire che il mercato teme che il debitore C avrà difficoltà a far fronte ai propri impegni».

Tradotto significa che se i Cds salgono, il rischio di default – cioè l'incapacità di non riuscire a rispettare le clausole contrattuali di un finanziamento – è considerato più importante, automaticamente salgono i tassi d'interesse dei nuovi prestiti presi da un paese – come si trova costretta a fare la Grecia in questo momento – provocando un aumento del suo deficit, che si traduce in un aumento del suo debito, per la cui copertura si chiederanno altri finanziamenti e così via, in una spirale senza fine.
Insomma: questi Cds altro non sono che una di quelle robacce tossiche – insieme agli hedge funds – che l'economia “buona” capeggiata dall'Obaganda americana (cioè dalla propaganda del primo Premio Nobel per la Guerra che la Storia ricordi) aveva promesso di debellare. Appunto: aveva promesso, e basta.
Perché che si parli di Obama o di qualunque altro politico, non è a loro che bisogna rivolgersi. Non bisogna rivolgersi ai Parlamenti per capire da dove vengono i problemi della gente. Perché i Parlamenti, i governi – tutti, dal primo all'ultimo – non hanno alcun potere realmente decisionale, possono solamente ratificare decisioni prese da persone più in alto di loro, quelli che siedono nei consigli di amministrazione delle multinazionali, quelli che fanno parte delle grandi lobby mondiali i cui burattini vengono inviati nelle organizzazioni sovranazionali per tutelare i loro interessi. Sono loro i veri “obiettivi” della disperazione degli operai, dei lavoratori pubblici, degli studenti che hanno potuto assistere solo come spettatori alla commercializzazione della vita umana.

Se la crisi non fa di certo sorridere, la soluzione per la Grecia potrebbe essere anche peggiore.
Perché se la crisi è di natura puramente economica, i risvolti politici sono facilmente leggibili: innanzitutto in merito alla “lotta intestina” che si combatte per definire le gerarchie tra gli stati di una sempre più evanescente “Unione” Europea, dove al comando c'è il solito – vecchio – asse franco-tedesco e tutto il resto indietro, a raccogliere le briciole e stare al guinzaglio. È vero, Francia e Germania sono tra i paesi più forti dell'intero continente, ma il paese presieduto da Angela Merkel – che ora chiede regole certe per i paesi “dall'economia allegra” dell'area sudeuropea – fa finta di dimenticare che se la Grecia si trova in questa situazione è anche colpa delle sue banche le quali, come tutte le banche, speculano sulla pelle della gente tramite quegli artifizi finanziari di cui (non) possiamo leggere quotidianamente sui giornali.
Il problema, se fosse solo di equilibrio delle forze in campo, forse, non sarebbe poi così grosso, ma – come detto prima – la soluzione che si prospetta alla Grecia potrebbe essere ben più distruttiva del male stesso.

Gli ingredienti ci sono tutti: deregolamentazione del sistema economico, tagli alla spesa pubblica, liberalizzazione dei salari. “La cura” è un filo rosso che lega l'Argentina dei desaparecidos – e della crisi del 2001, quasi identica alla crisi greca di oggi – con il Cile di Pinochet, passando per l'Iraq del dopo-Saddam e per la Russia del dopo perestrojka. La crisi economica non è stato altro che lo “shock” necessario per sbloccare quella che Naomi Klein definisce “dottrina dello shock”.


[qui http://www.youtube.com/watch?v=Gaqj_zT8Lgw per i lettori di Facebook e ReportOnLine]

La “cura”, oggi, vede aprirsi un nuovo capitolo proprio in Grecia, dove il governo ha chiesto l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale, cioè da quell'organismo che più degli altri rappresenta la prosecuzione dell'ideologia di Friedman.
La natura di uno shock – usa ripetere spesso la giornalista canadese - è per definizione uno stato temporaneo. Non sarà dunque giunta l'ora di svegliarsi?

Il genere del machismo

Questo post parte da qui: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-2596a88b-dade-4873-93d6-d9b635e70503.html?p=0 e da una sempre più pressante domanda che, fortunatamente non da solo, mi sto facendo nell'ultimo periodo e che gira intorno alla famosa teoria di comunicazione di Harold Lasswell: «Who says what to whom in what channel with what effect».
In particolare è l'ultima frase – quel “with what effect” - che mi stuzzica la curiosità. «Con quali effetti» si comunica, si chiedeva il politologo statunitense nel secolo scorso. “Con quali effetti”, “a che scopo” sono modi alternativi di formulare la questione in maniera probabilmente ancor più diretta. Per farlo basta un'unica parola: perché?
Ma procediamo per gradi.

Questa è la pubblicità incriminata che si può vedere per le strade di Napoli. A parte la poca fantasia, come da più parti evidenziato, per stessa ammissione del responsabile lo stesso pay-off era stato utilizzato in precedente campagna pubblicitaria che differiva da quella in oggetto per un diverso contesto, senza che la cosa abbia fatto indignare femminista alcuna. Ora: non sono riuscito a trovare la vecchia campagna pubblicitaria, ma quel che mi chiedo – e che quindi, non potendo dissipare la questione, rimane sul piano dei dubbi – è se il non suscitare scalpore non sia stato dettato, nella precedente pubblicità, proprio dalla non associazione tra una frase dall'aulicità degna di una caserma e la ragazza presente nel cartellone. Ed è a questo punto, che si instaura la domanda che ci viene da Lasswell e che quindi torno a ripetere: perché? Perché, per pubblicizzare una macchinetta per fare il caffè bisogna metterci una ragazza vicino?

Il problema è, però, ben più esteso. Perché per pubblicità di scarpe, di pavimenti o di qualunque altra diavoleria vi possa venire in mente, bisogna infilarci dentro una ragazza, la cui figura deve, naturalmente, rispondere a determinati canoni?
Prendiamo proprio l'immagine della pubblicità del caffè: perché si è deciso di utilizzare una figura di giovane donna con quelle determinate caratteristiche fisiche? Non è neanche una delle immagini peggiori per la dignità femminile (ve ne posterò alcune proseguendo nella lettura che sono decisamente peggio), ma se la ragazza non è rilevante ai fini della promozione, perché utilizzare lei e non qualcun altr*? Non so, magari una bella signora di età avanzata, dal viso simpatico e sorridente, che avrebbe potuto sottolineare ancora di più la facilità di utilizzo della macchinetta. Oppure perché non un bel signore con pochi capelli e una bella panza voluminosa? In ambedue i casi, io credo, il messaggio, cioè la gratuità dell'oggetto in promozione, non sarebbe stato di minore forza ed anzi, forse più nel caso della scelta di una figura maschile, si sarebbe potuto dare ancor più risalto al pay-off, che non avrebbe certo fatto inferire – come invece è stato – allusioni sessuali di una estrema povertà intellettuale.

Prendendo a pretesto questa pubblicità, peraltro, è partita anche una campagna dell'UDI (Unione Donne in Italia) con lo scopo di contrastare le immagini lesive e gli stereotipi femminili ovunque, non solo nella pubblicità. Io non posso aderirvi ufficialmente, in quanto la campagna è aperta alle sole donne, per cui l'unica cosa che posso fare – oltre a farmi megafono della stessa – è invitare le lettrici del blog, di ReportOnLine e di Facebook ad aderire a questa campagna. Perché il problema è ben più importante di quel che si vuole far credere, anche se i problemi di rilevanza nazionale sembrano essere ben altri.
Permettetemi quindi una piccola digressione: il “caso” politico per cui il Paese intero si è fermato in questi giorni è la non ammissione di alcune liste che appoggia(va)no le candidature del PdL in Lombardia e a Roma e la firma del Presidente della Repubblica sul relativo decreto legge. Questo in realtà è un falso problema che, come tale, diventa l'unico argomento di discussione di un Paese che fa sempre più ridere a livello internazionale per la qualità della sua classe dirigente e – soprattutto – culturale. È un falso problema semplicemente perché le elezioni sono falsate ed illegali. Ancor prima di essere avviate: perché non sono realmente “libere e democratiche” come si vorrebbe far credere – basti pensare all'ormai annoso problema delle preferenze e delle liste bloccate – e perché esiste un documento che rende inutile qualsivoglia discussione a carattere nazional-elettorale. Questo documento è conosciuto come Trattato di Lisbona che, essendo stato fortemente voluto dai poteri forti che fanno girare il mondo, ha una valenza maggiore di qualsivoglia Costituzione nazionale, in barba alla c.d. “gerarchia delle fonti”. Come se non bastasse, mentre negli altri Paesi è stato fatto un referendum per chiedere alla cittadinanza se fossero favorevoli o contrari (motivo per cui gli irlandesi sono balzati agli onori della cronaca qualche mese fa...), in Italia non solo si è ratificato il Trattato nel silenzio più totale, ma oggi ad ergersi a difensore di una Democrazia umiliata c'è Antonio Di Pietro, che ha la pecca di aver accettato la ratifica di quel documento che, de facto, diventa la Costituzione degli Stati Uniti d'Europa. Per cui per me prima di tacciare qualcuno di “golpismo”, di “attentato alla democrazia” il leader dell'IdV dovrebbe guardarsi un po' allo specchio. Magari si renderebbe conto che l'unico motivo per cui ha diritto di parola è che l'Italia è un paese democratico. Checché se ne dica e se ne pensi.

Un'altra persona che ha diritto di parola solo perché siamo in democrazia – ritornando al filone centrale del post – è una delle “signore” presenti alla trasmissione a cui vi rimando con il link all'inizio. Sto parlando di Alda D'Eusanio, che non si capisce bene per quale motivo sia stata invitata, se non quello di pareggiare il numero di maschilisti presenti in studio, visto che uno dei due pubblicitari – quello che ha avuto la “genialata” - sembrava non avere facoltà di parola.

«(...)non si pensi che tutte le donne fanno bene alle donne. Ce ne sono di devastanti e deleterie per se stesse e per tutte noi. Ci sono donne sessiste che sfruttano i corpi delle donne tanto quanto gli uomini».

E la D'Eusanio è una di queste, basti guardare al fatto che le battute più triviali in quei 24 minuti di trasmissione vengono proprio da lei. Nel precedente post, ho definito questo tipo di comportamento “machismo mestruato”, termine con il quale indico tutte quelle donne che si comportano in maniera machista nei confronti del loro genere.
Chi sono? Sono tutte quelle donne che di fronte a cartelloni pubblicitari, trasmissioni televisive, pubblicità sui giornali in cui la donna viene rappresentata in maniera eccessivamente erotizzata per il contesto – come le “fantastiche 4” dell'Alma Mater, sulle quali tornerò in seguito – non si indignano ma, anzi, ne provano quasi piacere. Sono tutte quelle donne che accettano incondizionatamente la subordinazione, e dunque la sottomissione, al maschio ed alla cultura machista che egli rappresenta. Le stesse donne, molte delle quali frequentano i salotti televisivi, che quando si trovano invischiate in discussioni sull'ennesimo stupro difendono lo stupratore, avallando – spesso facendosene dirette emissarie – frasi dal chiaro stampo maschilista quali “se l'è cercata”, “vestita così cosa pretende?” e non c'è bisogno di aggiungere altri esempi.

  • La pubblicità
La pubblicità, ma potremmo ampliare il discorso al campo dei media in generale, è senza ombra di dubbio, il canale dove maggiormente si evidenziano fenomeni di questo tipo:


Questa pubblicità, di cui non so – e non mi interessa – conoscere il committente (e ad essere sinceri neanche chi ha avuto l'idea) è solo una tra le migliaia di esempi che potrei portare per evidenziare il concetto di donna che si vuole per questa società. Perché i mezzi di comunicazione veicolano mode, stili e modelli sociali, e la pubblicità – in quanto mezzo di comunicazione – non è da meno. Anzi: è forse il miglior modo, perché la pubblicità è breve (qualora si parli di quella radio-televisiva) ed incisiva, quindi il messaggero – cioè la conformazione “estetica” della pubblicità (cioè come la pubblicità si presenta nel suo insieme visivo e/o uditivo) – deve “investire” il destinatario, più è d'impatto più avrà effetto nel breve periodo.

A differenza del resto del mondo occidentale, dove la donna è finalmente concepita in maniera non maschilista, nel nostro paese si possono evidenziare due figure di “donna da pubblicità”: quella della pubblicità comune, come quelle fin qui proposte, quindi una donna fortemente erotizzata, anche tramite l'utilizzo di un contesto con forti richiami sessuali, come nelle due immagini che seguono (la prima appartiene alla stessa campagna dell'immagine precedente):

[1] [2]

Questo tipo di rappresentazione della donna – che potremmo quasi innalzare a vera e propria corrente di pensiero – è quella ben nota della donna-oggetto, nella quale la sua identità sociale è svilita e relegata al mero ruolo di oggetto (appunto) dei desideri di un ipotetico pubblico maschile. La sua caratterizzazione dunque deve rispondere a caratteri accettati da questo tipo di pubblico o, più probabilmente, deve dettare i caratteri accettati dal pubblico a cui fa riferimento. Basta guardarsi intorno per capire questo: oggi le adolescenti, cioè il soggetto sociale su cui più fa presa il concetto di riconoscimento nel modello sociale di riferimento – anche se non è raro che vi si conformino anche gli adolescenti – si rifanno al modello della “velina” per creare la propria identità sociale, cioè all'immagine della “donna da pubblicità“, perfetta – in modo naturale o grazie ad aiutini di varia natura - nelle sue fattezze fisiche, cioè alla “donna da pubblicità ”resa in carne ed ossa. La caratterizzazione di questo personaggio dunque, avrà forti richiami sessuali – pose, espressioni facciali – pur non avendo alcun legame con il contesto nel quale vengono ascritte.
Tale “corrente”, però, non riflette solo l'universo giovanile, basti guardare a come la pubblicità si pone nei confronti di due categorie anagrafiche diverse da quelle sinora prese in esame: donne anziane, a cui è sempre più legato il concetto di “immortalità”, e quindi tutto quell'insieme di rappresentazioni giovanili delle pubblicità a loro dedicate, e bambine, sulle quali è forse il caso soffermarsi un attimo.

Secondo il sociologo – e teorico della comunicazione – Neil Postman, la società odierna, che fa del consumismo uno dei suoi mantra, tende ad opacizzare le differenze anagrafiche tra bambin* ed adulti, inglobando ambedue sotto la più generica classe di “consumatore” (o consumatrice), e questo è ben visibile nelle pubblicità in cui protagonisti sono bambine e bambini – maggiormente le prime – a cui viene richiesto un atteggiamento non certo naturale per la loro età e che scimmiotta quello di età anagrafiche più elevate.
In una ricerca del 2006, Emma Rush e Andrea La Nauze dell'Australian Institute definiscono questo aspetto “Corporate Paedophilia”, in quanto – come è evidente – questo modo di progettare una pubblicità abusa di figure infantili per strizzare l'occhio agli adulti al fine di trarne vantaggi economici (cioè la vendita del prodotto commercializzato).

Se si pensa ai danni che un tipo di comportamento simile ingenera in chi ne è veicolo senza averlo scelto (cioè i bambini, che spesso nei primi anni vivono in base ai desideri di realizzazione dei propri genitori), si può quantomeno iniziare a capire da dove provenga la lolitizzazione delle adolescenti ed i casi di cronaca in cui molt* di loro si concedono fisicamente per raggiungere un profitto nel breve periodo (come può essere quello della ricarica per il telefono cellulare).

In contrapposizione alla “donna da pubblicità”, l'altra corrente di pensiero è quella della “donna-Mulino Bianco”: cioè di una donna che, seppur erotizzata in maniera meno evidente, risponde agli stessi canoni fisici della “donna da pubblicità”, dalla quale si differisce per la caratterizzazione del contesto nella quale viene inserita. Se da una parte, infatti, abbiamo l'esplicitazione della donna-oggetto, rimarcando molto l'aspetto fisico (che deve avvicinarsi anche in questo caso alla perfezione) e dunque la sua carica di desiderabilità fisica da parte del macho italico, la “donna-Mulino Bianco” rappresenta invece l'altro modo che in Italia si ha di concepire la donna: cioè donna come madre di famiglia, dove la figura femminile sarà caratterizzata con ruoli sociali più “forti” (donna in carriera e consimili), ma sempre nell'ambito del candore familiare, così da rimarcare il ruolo di moglie e madre-procreatrice – e dunque anche in questo caso di posizione subordinata al maschio – in cui la cultura machista italica la relega.
Manca, a mio modo di vedere, un terzo modello di donna: quello che io definisco “alla Anna Magnani”, cioè di una donna che non è fisicamente perfetta (basti pensare alla strenua difesa delle sue rughe che ebbe a fare con un truccatore, come viene evidenziato anche ne “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo) ma che risulta, proprio per questo, decisamente più vera e dunque più vicina alla donna (o alla ragazza) della porta accanto, quella che si può incontrare tutti i giorni al supermercato, che tiene più alla sua emancipazione – anche, e forse soprattutto, grazie alla cura del suo Io intellettual-culturale – che non al suo “involucro” fisico.
Ma, evidentemente, alla pubblicità – ed alla comunicazione in genere – la persona che rientra nei canoni della normalità non interessa, altrimenti come si spiegherebbe l'uso di richiami alla sessualità anche nelle campagne elettorali?

  • La politica
E torniamo alle “Fantastiche 4” di cui dicevo prima.L'idea di questa pubblicità, era quella di pubblicizzare le sedi distaccate dell'Alma Mater – l'Università più antica d'Europa - cioè Cesena, Forlì, Ravenna e Rimini. Per quale motivo la scelta pubblicitaria sia ricaduta sul modello “Power Rangers” e non sul modello di “normale studentessa universitaria” credo sia facilmente intuibile: il sesso – esplicitato o velato - ”vende” bene, come dice la sociologa Francine Descarries. Questo è chiaro per molti prodotti, compresi seggi in parlamento e in pubbliche istituzioni. In tal senso si pone anche la campagna elettorale del candidato della Lega Nord alla regione Emilia-Romagna (sarà colpa dell'aria...), dove campeggia la figura di tre ragazze sotto la scritta: “scrivi Mambo. Mambo sei tu” (tanto per innalzare il livello culturale in Italia...). Perché? Cosa c'entrano queste tre ragazze con il candidato, con la Lega e con la politica in generale? Il candidato – maschio – è un prestanome per queste tre fanciulle? Qual'è il messaggio che si vuole far passare con questa associazione? Davvero: io non capisco l'utilità di un procedimento simile. A meno che non si sia davanti alla cettolaqualunquizzazione (dal nome del personaggio inventato da Antonio Albanese) della campagna elettorale, ed allora lì si aprirebbe tutto un altro tipo di discorso.
Perché, almeno in politica, non si usa un modello di donna più veritiero? Perché, ad esempio, non vengono mai fatte campagne pubblicitarie con le effigi di una Nilde Iotti, o di Adele Faccio, o – per venire ad esempi più attuali – di una Margherita Hack?
L'unica risposta che mi viene in mente è che questo tipo di donna risponde non al modello di donna-oggetto, di subordinazione – e quindi di estrema necessità – che la donna dovrebbe avere nei confronti del macho-possessore (con tutto quel proliferare di “nostre” donne enunciato dalla retorica di destra, come se le donne fossero proprietà di qualcuno diverso da se stesse...) ma a quello che potremmo definire con le parole di Antonio Gramsci su “L'Ordine Nuovo”:
«Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo.
Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza.
Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza.»
e questo il maschio “capo-branco” proprio non può permetterlo, altrimenti verrebbe meno la sua definizione all'interno della società: quella di padrone.
Per concludere, mi chiedo se davvero le donne vogliono essere rappresentate così. Davvero si preferisce che l'identità sociale passi attraverso il proprio corpo - cioè uno stato momentaneo ed artificioso del proprio essere - piuttosto che attraverso la propria interiorità, la propria cultura, la propria preparazione (e questo non solo per le donne)? Davvero, oggi, le donne e le ragazze si identificano più in una D'Addario o in Cinzia Gracchi (colei che ha fatto scoppiare il "Cinzia-gate" a Bologna) che non – appunto – in una Adele Faccio, o in quel variegato mondo del Femminismo – la maiuscola non è un refuso – degli anni '70 dal quale invece sembrano essere schifate?

  • Documenti

Dov'è la festa?

Quest'anno, per la prima volta, non ho fatto gli auguri a nessuna donna. Perché non c'è niente da festeggiare. E che nessuno spari quelle frasi pre-confezionate del tipo «le donne si festeggiano tutti i giorni» perché: a) è una delle più grosse cavolate che si possano ascoltare e b) mi sa anche tanto di paraculaggine filo-maschilista.

Oggi non ho fatto gli auguri a nessuno, perché gli auguri si fanno quando si festeggia qualcosa, quando c'è una festa. E l'8 marzo non è una festa.
Per chi non lo sapesse, l'8 marzo è – ufficialmente – la giornata mondiale della donna (e non la più volgarmente detta “festa”), istituita dalle Nazioni Unite che volevano in qualche modo ricordare, tra le altre, l'omicidio delle 129 donne che morirono nella fabbrica Cotton di New York nel 1908. Quindi, al massimo, sarebbe una ricorrenza.
Cosa c'è, dunque, da festeggiare? C'è da festeggiare per pagare l'obolo di uno Stato – e di una società – a conduzione androcentrica, maschilista e machista, in cui alla donna è relegato il misero spazio di una giornata? C'è da festeggiare per rimarcare ancora di più, tante volte ce ne fosse ancora bisogno, la discrasia tra il genere maschile e tutti gli altri? C'è da festeggiare per evidenziare la condizione di donna oggetto, che mercifica o fa mercificare il proprio corpo come strumento di riconoscimento sociale, e quindi si pone (o viene posta) in condizione di subordinazione al volere/desiderio maschile e/o maschilista?

Perché è questo, oggi, il clima in cui si “festeggia” la donna.
E dovremmo esserne content*? Lo scrivo proprio così, nella sua declinazione “no-gender”, perché per troppo tempo abbiamo lasciato che di questo tipo di discussioni – forse l'unico vero tema di una certa rilevanza intellettuale nel nostro Paese in questi ultimi anni – se ne occupassero solo le dirette interessate, perché troppo spesso “noi maschi” ci sentiamo avulsi da una discussione che ci sembra irrilevante, troppo “femminile”.
Gli unici argomenti femminili che interessano alla società androcentrica nella quale viviamo, e dalla quale dunque siamo tutti – indistintamente – investiti, riguardano sempre e solo i corpi delle donne, come ha magistralmente fatto notare Lorella Zanardo con l'omonimo video (tanto da riuscire, quantomeno, ad aprire un dibattito sul tema), la loro femminilità.
Anche concepire questa giornata come festa, oggi, si inquadra in quest'ottica: più che una festa “delle” e “sulle” donne è una festa “della” e “sulla” femminilità, da intendersi anche (e forse soprattutto) in maniera negativa.
Provocatoriamente potrei chiedermi – e chiedere – perché, nonostante si faccia un gran brusio nel ribadire l'eguaglianza, la parità tra i sessi (ma solo tra i due “internazionalmente riconosciuti”, per gli altri siamo ancora a concezioni medioevali), ci si indigna per un culo mosso in primo piano in televisione, ma nessuno ne chiede l'eliminazione? Perché, ad esempio, non esiste un “movimento per la bonifica della società dalla donna-oggetto”?
È una provocazione, naturalmente.
«Il cambiamento di un'epoca storica si può definire sempre dal progresso femminile verso la libertà, perché qui, nel rapporto della donna con l'uomo, del debole con il forte, appare nel modo più evidente la vittoria della natura umana sulla brutalità. Il grado di emancipazione femminile è la misura naturale dell'emancipazione universale».
A scriverlo non è Carla Lonzi, ma Karl Marx e Friedrich Engels ne “La sacra famiglia”, e questo dovrebbe far pensare su due aspetti della nostra società: innanzitutto quello dell'aver relegato – come scrivevo prima – la discussione sulle tematiche di genere (ripeto: una delle poche discussioni intellettuali in Italia a quest'oggi) solo alle donne, alle lesbiche, ai gay ed al movimento che più è soggetto ai problemi di genere. E questo perché anche in quegli uomini che dicono di appartenere alla sinistra («espressione poetica e suggestiva», direbbe Gaber) si sta instaurando una sorta di fascismo culturale che li vuole interessati esclusivamente a tematiche “mascoline”, escludendo da tali questioni tutt* coloro che – per credenza culturale o per convinzione personale – non sono all'altezza.
«..qui la donna è considerata a tutti gli effetti un essere inferiore: viene delegata a incarichi d'importanza minima. Come per esempio informare dei programmi della giornata; ed è costretta a farlo in modo mostruoso, cioè con femminilità. Ne risulta una specie di puttana che lancia al pubblico sorrisi di imbarazzante complicità e fa laidi occhietti.»
E questo è il secondo punto di riflessione. A scriverlo non è un comunicato stampa uscito da qualche riunione femminista ma Pier Paolo Pasolini, fine intellettuale - di cui oggi più che la mancanza si avverte la sempre più pressante necessità – e gay, aspetti molto più collegati e influenti l'uno sull'altro di quanto non si possa, e non si sia mai, immaginato prima.
È questa, secondo me, la grande sconfitta della società – almeno di quella a noi più prossima – attuale: non tanto quella di permettere quotidianamente il ritorno di un fascismo che diventa sempre più percepibile nelle forme e nella sostanza del nostro quotidiano, ma quello di aver creato un “machismo mestruato”, quello di tante donne e ragazze che oggi accettano e permettono il ritorno della concezione del corpo femminile in termini di subordinazione - sia sessuale che sociale - al “maschio”.

Ed è probabilmente alla luce di questo che non mi piace la nuova campagna anti-violenza promossa da L'Unità: perché – senza voler entrare in inutili discussioni di semiotica, sulle quali saprei pronunciarmi con precisione previa ri-lettura dei miei libri universitari – mi sembra ancora troppo pensata tenendo in considerazione la concezione maschile e maschilista della cultura. Preferisco decisamente di più quella delle Electro-domestiche.

In chiusura mi sono convinto che gli auguri vadano fatti: quindi li faccio a tutte le donne ed a tutte le ragazze imperfette, quelle che guardano le sculettanti soubrette senza arte né parte di cui sono infestati i mezzi di comunicazione e ne provano un senso di schifo, a tutte quelle che guardando un cartellone pubblicitario di scarpe si chiedono perché diamine debba esserci una ragazza mezza nuda a pubblicizzarle, a tutte quelle che quotidianamente lottano affinché non si pensi che il modello photoshopparo dei calendari sia “il” modello di donna per antonomasia. Buon 8 marzo alle donne vere, insomma.

Peggio che da noi, solo l'Uganda...

Kampala (Uganda) - «Dovunque siate vi preghiamo di fare tutto il possibile, a livello locale ed internazionale, per FERMARE QUESTA CAMPAGNA D'ODIO (il maiuscolo è della versione originale, ndr). Un odio che non riguarda solo l'Uganda o la comunità LGBTI (lesbian, gay, bisexual,transgender,intersex)».

Questo è il testo dello scarno – seppur disperatissimo – appello lanciato da Rainbow Uganda, un'organizzazione sostenitrice di campagne rivolte ai genitori di ragazzi e ragazze omosessuali, impegnata nell’educazione sessuale e nella sensibilizzazione sul tema dell’AIDS, e della discriminazione sessuale. Il motivo di questo appello è la possibilità che nei prossimi giorni l'Uganda possa dotarsi di una legge omofobica – ad inasprimento di una legislazione che, come in molte parti dell'Africa, lo è già – che prevede la pena di morte per tutti gli appartenenti al variegato universo lgbtq (lesbico,gay,bisex,trans,queer, per usare la dicitura italiana).
Proposta da David Bahati, esponente del National Resistance Movement - il partito al governo – già nello scorso ottobre, se approvata la legge prevederebbe l'ergastolo per i rei di «omosessualità aggravata», cioè chiunque si renda colpevole di avere rapporti sessuali con persone dello stesso sesso che, qualora “in recidiva” vedranno la pena commutarsi nella sentenza finale: la pena di morte. Oltre a ciò dalla legge è prevista una sorta di persecuzione extra-territoriale, in quanto si potrà essere giudicati anche per atti omosessuali commessi fuori dai confini nazionali.

Già questo dovrebbe far indignare la c.d. “società civile”, ma se qualcuno ancora non vi fosse riuscito, ecco che la proposta prevede anche quella che potremmo definire “responsabilità oggettiva sull'omosessualità”: ad essere punito infatti non sarà solo chi verrà scoperto a compiere atti omosessuali, ma anche chi si macchierà di “omertà” - secondo l'idea ugandese – e non denuncerà amici e parenti omosessuali. I membri delle organizzazioni non governative che lavorano per impedire la diffusione del virus dell'AIDS nel paese (dove dal 30% di infetti degli anni '80 si è scesi ad un più incoraggiante 4,3% nel 2003) accusati di essere “untori” e di infettare l'omosessualità nel paese, rischiano fino a 7 anni di carcere.
In realtà il concetto di “untori”, e quindi quel blocco culturale che identifica l'omosessualità come una malattia non dovrebbe farci poi trasalire: è storia recente il secondo posto al Festival di Sanremo di Povia lo scorso anno, quando si presentò con una canzone che diceva le stesse cose tra gli “osanna” del pubblico senza che questo scatenasse il minimo segno di disprezzo nella maggior parte della lobotomizzata popolazione italica. E poi noi saremmo il Paese “civile e democratico”...

«Mentre scrivo, si sta tenendo un'enorme manifestazione nel centro della città di Jinja. Sto seguendo la situazione da Kampala per raccontarla con precisione. Sono anche riuscito a reperire immagini e filmati. L'evento è organizzato dal Malvagio Pastore Ssempa, che ha chiamato a raccolta delinquenti e omofobi di tutta la città. I manifestanti hanno sfilato esponendo diversi striscioni e cartelli che incitavano ad uccidere i gay». Scriveva il 15 febbraio scorso sul suo blog Andrew Waiswa, attivista di Rainbow Uganda.

Il “Malvagio Pastore” a cui si riferisce è il pastore Martin Ssempa, il quale perora la causa omofoba mostrando video porno in Chiesa spacciandoli per “normale attività” dai gay. Questo fa parte della propaganda con cui il partito di Bahati e la Chiesa (che quando si parla di omosessualità ragiona ancora in termini di rogo, e non mi riferisco certo solo a quella ugandese...) plagiano la cittadinanza, che non vive certo in un clima di dibattito sul tema – o quantomeno pseudo-dibattito, come avviene in Italia – e quindi si affida agli opinion leaders, e sappiamo tutti quanto un ecclesiastico possa assolvere alla perfezione a tale compito.

«Il sostegno dall'estero per noi gay ugandesi è essenziale» - dice Warry “Bighi” Ssenfuka, manager finanziaria ed amministrativa di “Freedom and Roam Uganda”, un'organizzazione femminile per i diritti lgbtq. «Qui se sei lesbica puoi essere violentata da qualcuno di famiglia o persino da amici che pensano di farti del bene, di “guarirti”. Ma di questo non si parla mai. È un argomento tabu.(...)Mentre i detrattori degli omosessuali partecipano a dibattiti, parlano alla radio, organizzano le marce, agli omosessuali non è dato un microfono per il contraddittorio. In questo modo la leggenda di omosessualità uguale pedofilia o altre assurdità del genere è libera di diffondersi e la gente ci crede».

Le e gli ugandesi da sol* probabilmente non riusciranno a vincere una battaglia impari come questa, per questo chiedono l'aiuto della comunità internazionale. Non quella “dei lustrini e delle bandierine”, dove il massimo dell'interessamento è stata la dichiarazione del più inutile tra i Premi Nobel Barack Obama, che ha definito “odioso” il progetto di legge per ritornare immediatamente alle beghe intorno alla sua poltrona. «Insomma gli dispiace come a uno normale» parafrasando Giorgio Gaber.
No, non è questo l'aiuto che chiedono. Chiedono quell'aiuto “dal basso” che va tanto di moda nelle nostre belle rivoluzioni colorate, incapaci di produrre un modello di sviluppo diverso da quello per il quale scendono in piazza ogni tre giorni, senza che questo sposti di una virgola lo stato delle cose (perché, quando si sbaglia obiettivo e ci si rivolge ai “pesci piccoli” - come Berlusconi – gli squali, quelli che davvero contano nella geopolitica mondiale, si fregano le mani...). Come? Innanzitutto firmando la petizione per chiedere al governo ugandese di non portare a compimento tale decisione (la trovate cliccando qui: https://secure.avaaz.org/it/uganda_rights/) e poi facendo pressione sui propri governi per attuare quel che ha minacciato di fare la Svezia – che, in questi ambiti, è sempre due passi avanti a tutti – e cioè sospendere gli aiuti economici.

Oggi è l'Uganda, ma potrebbe tranquillamente essere qualsiasi paese dell'Europa che vira a destra. Mondo "civile e democratico". Per ora...

Documenti

Il migliorismo di Napolitano

Poi uno dice che fa l'antipolitico. Riammessi tutti quelli che c'erano da riammettere, decretato per l'ennesima volta che questo paese è in mano a una masnada di personaggi dalla moralità (e dal senso della democrazia) a geometria variabile da una parte e dalla mala opposición dall'altra, e il popolo, quello che a logica dovrebbe avere il potere (essendo ancora, almeno formalmente, in un paese democratico) che lo prende nell'elettoral deretano e batte le mani.

E poi scoppia lo "scandalo" di Napolitano: ma a uno che faceva l'ala destra (leggasi «corrente migliorista») già ai tempi del PCI, si può mai chiedere di fare qualcosa "dde sinistra"?


Tutti colpevoli, nessuno colpevole.

Genova (Italia) – Eccola qua la “Sentenza”: 44 colpevoli su 44. È questo quel che è stato deciso ieri, dopo 11 ore di camera di consiglio, nel processo di secondo grado per quel che successe dal 20 al 22 luglio 2001 nella caserma di Bolzaneto a Genova. Viene così ribaltato quel che era stato deciso nella sentenza di primo grado del luglio 2008, nella quale 30 imputati su 44 erano stati assolti.

«Giustizia è fatta!» si grida da più parti. Ma si può davvero parlare di “giustizia”? Si può parlare di “giustizia” quando il risarcimento per la tortura è un seppur alto (circa 10 milioni di euro solo il risarcimento che i ministeri dell'Interno, di Giustizia e della Difesa) compenso in denaro? Quanto “costa” una tortura? Quanto costa, ad esempio, la violenza fisica e psicologica perpetrata dall'assistente capo Massimo Pigozzi (condannato comunque a 3 anni e 2 mesi) ai danni di Giuseppe Azzolina, al quale divaricandogli le dita spaccò una mano, poi suturata senza anestesia? Quanto costano ore ed ore di panico per le ragazze, minacciate di essere ripetutamente violentate? Per la legge dello Stato, quello stesso Stato che in quei giorni dette carta bianca alle forze del cosiddetto ordine di fare quel che gli pareva, questo è quel che – ad oggi – può essere considerato un “costo accettabile”.
Sì, perché nel frattempo, nei nove anni intercorsi tra i “fatti” di Genova e la sentenza, tutti o quasi i reati sono caduti in prescrizione. Valgono davvero poche decine di milioni di euro le vite distrutte di ragazzi – no-global, anarchici, pacifisti e chi più ne ha più ne metta – che in quei giorni, a Genova, chiedevano un altro mondo possibile? È vero, sette dei quarantaquattro finiranno in carcere, ma si può davvero mettere la parola fine su quella che sicuramente rimarrà la pagina più nera della storia recente della nostra Repubblica?

No, non si può.
Non si può per tanti motivi.
D'accordo: la sentenza riguarda solo quel che successe a Bolzaneto, ma non si può dire “giustizia è fatta” perché ancora oggi, a distanza di nove anni, i fantasmi di Bolzaneto, della Diaz, delle botte in strada, dell'assalto alle tute bianche viaggiano ancora di pari passo con chi, a terra, si ritrovata sei, sette, otto uomini che “difendevano l'ordine” manganellandogli la testa. Non si può per quell'imputato che ha avuto il coraggio di urlare, a margine della sentenza, che «Avete voluto condannare tutti e basta, senza fare distinzioni». Mi verrebbe da chiedergli perché i giudici dello Stato avrebbero dovuto “fare distinzioni”, quando loro – dal primo all'ultimo, nessuno escluso – a Genova picchiavano donne e uomini, ragazze e ragazzi così: “senza distinzioni”. E poi non è vero che sono stati condannati “tutti”. Perché come al solito, sono condannati i burattini, i “pesci piccoli”. I burattinai, ad esempio i ministri che si trovavano in loco senza averne l'autorità. Perché possono anche essersi ripuliti l'immagine e spacciarsi da “uomini della Repubblica”, ma nella sala operativa della Questura genovese c'erano, nessuno sa ancora il perché.

E poi non si può accettare questa “giustizia” per lui: per Carlo Giuliani. D'accordo che questo non è il “suo” processo, ma quando in futuro morirà qualche “servitore” dello Stato provateci a buttare qualche banconota sulla sua bara al posto di quelle bandierine che mettete sopra la bara per attribuirgli ipocritamente l'effigie di «eroe». Provate ad andare dai suoi familiari a dire che «beh, se se ne stava a casa non succedeva» come tante volte hanno detto ai genitori di Carlo. Provateci, davvero. Poi guardatevi allo specchio e sputatevi in faccia. Perché anche una vita umana, per voi, ha un “corrispettivo in denaro”. Ed è questa, forse, la vera ingiustizia.
Ma d'altronde siamo in Italia, il paese in cui quando tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole.


---Sospendere tutti subito, e una legge sulla tortura---

Il messaggio dei giudici d’appello, con le 44 condanne per i maltrattamenti e le torture su decine di cittadini detenuti nella caserma-carcere di Bolzaneto nel luglio 2001, è chiarissimo e dev’essere colto immediatamente dalle istituzioni. Tutti i condannati nelle forze dell’ordine devono essere immediatamente sospesi dagli incarichi, in modo che non abbiano contatti diretti con i cittadini; gli Ordini professionali devono agire sui propri iscritti con la sospensione: non è più possibile restare nel terreno dell’ambiguità. Se la Costituzione è una cosa seria, se la tutela dei diritti umani e civili è davvero una priorità, lo Stato deve inviare ai cittadini e ai lavoratori delle forze di polizia un messaggio nitido: l’Italia ripudia i comportamenti che hanno condotto alle condanne di oggi e lo deve dimostrare con atti concreti. Se buona parte delle pene è caduta in prescrizione è solo perché l'Italia non ha una legge sulla tortura (reato che per la sua gravità non prevede prescrizione), nonostante l’Italia si sia impegnata oltre vent’anni fa ad approvarne una. Il parlamento ora non ha più scuse: la sentenza di oggi dimostra che abbiamo assoluto bisogno di quella legge.

Comitato Verità e Giustizia per Genova,
Genova 5 marzo 2010


Documenti: